Il testamento spirituale del
compianto Angelo Andreotti è racchiuso nella silloge Pietre di passo,
edita da Puntoacapo, in cui si riverbera tutta la propria ampia, complessa Weltanschauung. Il poeta e intellettuale
ferrarese ha accesso ai singulti del cuore, ai tremebondi pensieri poiché vige
in lui una perenne, sensibilissima capacità di ascolto. “L’opera è soglia” è l’explicit
del libro: soglia tra una dimensione e l’altra, tra il creatore della medesima
e il fruitore, tra più linguaggi spesso discordanti e viaggianti su rette
parallele. Non c’è un singolo verso in Andreotti che non sia meditato con
ponderazione e acribia, che non si ponga quale tessera ideale di un mosaico di
vita che punta a quella “giusta distanza” tra sé e gli altri segnatamente di
fronte a “parole mendaci”, a luci che “oscurano” la verità. Nel difficile tempo
odierno è elemento salvifico solo il ricordo, se esso non giunga a perire tra i
marosi del futuro. Una sapienza antica permea la scrittura della silloge, tra
gentilezza e severità, sguardo sincero e lancinanti epifanie: occorre
disimparare la vita se vogliamo suggere il nettare più puro della concordia,
dell’amicizia, in ultima analisi dell’umanità. L’insofferenza verso la corsa
tecnologica senza freni, aliena a ogni compassione verso l’altro, risalta nei
passaggi di un dire sempre pulito ed efficace in cui la prosa-poesia si
percepisce come “ferita”, metafora di un dolore personale e insieme collettivo pressoché
espunto da ogni nostra preoccupazione. Così, solo la hybris diventa l’elemento
dominante del genere umano, la forza preponderante sull’intelligenza, ma
leopardianamente Andreotti ci ricorda che l’uomo nulla sa di sé, sdimentico “della
giusta proporzione tra noi e il mondo”. Nulla, neppure la parola può essere di
conforto se non dopo aver percepito, introiettato altri linguaggi di “tutti i
mondi abitanti terrestri”: una babele cosmica che richiede sforzo e assiduità.