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mercoledì 18 ottobre 2023

PRIVATIZZAZIONI E STRUTTURA INDUSTRIALE
di Franco Astengo



Nella "Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza" il Governo ha scritto di voler realizzare in soli tre anni ulteriori privatizzazioni per un importo dell'uno per cento del prodotto interno lordo. Ferruccio De Bortoli in un suo articolo apparso sull'inserto economico del "Corriere della Sera"(16 ottobre) ha espresso un forte scetticismo rispetto all'esito possibile di questo intento e ha provato anche a tracciare un bilancio complessivo dell'intero quadro delle privatizzazioni. Nel suo intervento l'ex-direttore del "Corriere" si appoggia anche - e presenta- un saggio scritto da Paolo Modiano e Marco Onado per il Mulino dal titolo molto eloquente "Illusioni Perdute": una impietosa disamina delle privatizzazioni, avviate ormai trent'anni fa che dovrebbe spingere la classe  dirigente non certo sulla via nostalgica di Iri, Efim, Egam ma verso un approfondimento - finora mancato - sulle ragioni per le quali l'Italia non dispone più di grandi aziende., in un quadro  di fallimento dell'idea che vi fosse una "via finanziaria allo sviluppo", lastricata di debiti e difese corporative. L’articolo tocca così un punto di grande interesse al riguardo del quale proprio oggi è necessario recuperare non soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica, mentre l'aumento della flessibilità del lavoro non ha arrestato la caduta di produttività, che dipende da ben altri fattori.
Quali sono i punti sui quali impostare questa riflessione?
1) L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;
3) A fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;
4) Si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.



Sono questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi. Un'operazione che non potrà certo essere condotta da un governo di destra e che richiederà, sul piano politico, l'elaborazione di una proposta di alternativa. Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire controcorrente. La stessa questione del “deficit spending” andrebbe affrontata in questa dimensione. “Scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno pesato in maniera esiziale sulle prospettive di crescita dell’Italia. Fenomeni ben emblematizzati, tornando all'articolo da cui ha preso spunto questo intervento, da un episodio che deve essere ricordato: quello riguardante Telecom, oggi Tim. Era un gioiello nazionale. Non lo psicodramma di una società caricata di troppi debiti dalla sciagurata offerta pubblica dei cosiddetti "capitani coraggiosi" senza che vi fosse alcuna strategia: proprio quel tema della strategia che si intendeva sollevare in questa occasione.