PRIVATIZZAZIONI E STRUTTURA
INDUSTRIALE di Franco Astengo
Nella
"Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza" il
Governo ha scritto di voler realizzare in soli tre anni ulteriori
privatizzazioni per un importo dell'uno per cento del prodotto interno lordo.Ferruccio
De Bortoli in un suo articolo apparso sull'inserto economico del "Corriere
della Sera"(16 ottobre) ha espresso un forte scetticismo rispetto
all'esito possibile di questo intento e ha provato anche a tracciare un
bilancio complessivo dell'intero quadro delle privatizzazioni.Nel
suo intervento l'ex-direttore del "Corriere" si appoggia anche - e
presenta- un saggio scritto da Paolo Modiano e Marco Onado per il Mulino dal
titolo molto eloquente "Illusioni Perdute": una impietosa disamina
delle privatizzazioni, avviate ormai trent'anni fa che dovrebbe spingere la
classedirigente non certo sulla via
nostalgica di Iri, Efim, Egam ma verso un approfondimento - finora mancato -
sulle ragioni per le quali l'Italia non dispone più di grandi aziende., in un
quadrodi fallimento dell'idea che vi
fosse una "via finanziaria allo sviluppo", lastricata di debiti e
difese corporative.L’articolo tocca così un punto di grande
interesse al riguardo del quale proprio oggi è necessario recuperare non
soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica,
mentre l'aumento della flessibilità del lavoro non ha arrestato la caduta di
produttività, che dipende da ben altri fattori. Quali sono i punti sui
quali impostare questa riflessione? 1) L’imporsi di uno
squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di
qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione; 2) La perdita da parte
dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione
industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori
dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che l’indomani non
si trovano al supermercato”; 3) A fianco della crescita
esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio
dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica.
Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi
all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto
quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la
conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della
progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo
all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere
correttamente la crisi; 4) Si segnalano infine due
elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali
infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un
utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi
scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo
moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.
Sono questi riassunti in
una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno
di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia
completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.Un'operazione che non potrà certo essere condotta da un governo di
destra e che richiederà, sul piano politico, l'elaborazione di una proposta di
alternativa.Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo
che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia:
obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione
generale senza tema di apparire controcorrente. La stessa questione del
“deficit spending” andrebbe affrontata in questa dimensione.“Scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno
pesato in maniera esiziale sulle prospettive di crescita dell’Italia.Fenomeni ben emblematizzati, tornando all'articolo da cui ha preso
spunto questo intervento, da un episodio che deve essere ricordato: quello
riguardante Telecom, oggi Tim. Era un gioiello nazionale.Non lo psicodramma di una società caricata di troppi debiti dalla
sciagurata offerta pubblica dei cosiddetti "capitani coraggiosi"
senza che vi fosse alcuna strategia: proprio quel tema della strategia che si
intendeva sollevare in questa occasione.