Oltrepasso il King Hussein Bridge il confine che separa la Giordania da
Israele dopo 13 anni, e nonostante da allora sono tornato in Israele molte
volte, ogni volta sono sempre più confuso. Pensavo allora di conoscere già
tutto sul conflitto e che bastassero i libri di storia per farsene un’idea. Ma
quando davanti a te hai delle persone reali, ti rendi conto che nessun libro ti
può spiegare cosa si prova a vivere nell’occupazione, nella diffidenza, senza
certezze per il domani. Al
confine incontro Ahmed un arabo israeliano che da anni si è traferito negli
Stati Uniti. Non molto alto, capelli bianchi ed un baffo brizzolato su una
faccia squadrata. Indossa un jeans ed una camicia marrone che lo differenziano
dal resto dei palestinesi qui in fila, e se già non bastasse per farsene
un’idea le scarpe ne sono la conferma. La maggior parte degli arabi della sua
età indossa dei mocassini mentre lui ha delle sneakers ai piedi. Mentre attendiamo insieme che il minibus si
riempia per portarci a Gerusalemme, mi racconta che sarebbe dovuto atterrare a
Tel Aviv ma non l’hanno fatto viaggiare sulla rotta principale, come tutti i
cittadini di Israele di serie B è dovuto passare per Amman allungando tempi e
costi. Ahmed è in vacanza per una settimana, le notizie dei media internazionali lo preoccupavano
così ha deciso di venire a trovare i suoi familiari, ogni volta può essere
l’ultima in questa terra. Gli chiedo cosa ne pensano in America del conflitto,
e lui con un’espressione sconsolata mi risponde che gli americani empatizzano
con Israele ma solo perché non conoscono la verità. Secondo lui, negli States l’informazione è parziale, mentre
qui l’ideologia religiosa tiene banco, in Occidente viene venerato il dollaro,
ed è normale che a nessuno interessi la sorte dei palestinesi che non hanno appeal economico. Anche per i cugini
vicini sono arabi di serie B, osannati finché cercano di resistere ad Israele,
ma scomodi quando diventano profughi senza terra in economie già deboli di
loro. Né Egitto e né Giordania vogliono farsene carico.Il motto sembra essere “meglio martiri che
profughi”.
Gerusalemme
in questi giorni è fortemente militarizzata. Camminando per le strade si notano
molti militari in divisa e altrettanti riservisti in abiti civili che
imbracciano il fucile. Non a protezione di obiettivi sensibili ma vivendo la
loro quotidianità; mano nella mano con il partner mentre bevono un caffè, in
fila per un gelato. Ed è proprio questa militarizzazione che invece che darti
sicurezza ti mette tensione. Non si può arginare con le armi il risultato delle
politiche di oppressione di Israele, questo anche la popolazione israeliana lo
sa e per questo è scesa in piazza contro Netanyahu negli ultimi mesi. Il
governo israeliano ha cercato di esautorare l’unico organo di controllo che
permette al paese di rimanere una democrazia: la corte suprema.Ora però, con la scusa dell’emergenza, sta
mettendo il futuro della regione nelle mani degli ultra nazionalisti di destra,
invece che ripartire dalla protesta di quelle piazze unificando la voglia di
cambiamento delle due parti. Per
le strade di Betlemme, in territorio palestinese, mi imbatto in Ibrahim.
Ibrahim è un cristiano ortodosso e vive nel quartiere cristiano di Beit Sahour.
Indossa una camicia a coste blu e porta un occhiale da vista su di una testa
calva. È una guida turistica ma dal 7 ottobre qui di turisti non ce ne sono
più.
Nonostante le difficoltà e la differenza di appartenenza religiosa, lui
sostiene Hamas. “Abu Mazen non rappresenta più il popolo palestinese, è
politicamente debole, corrotto, ormai vecchio e non può più dare nulla per la
causa palestinese”, ci tiene a dire Ibraim. Gli faccio notare che l'escalation
del conflitto lo ha portato ad una condizione di indigenza e che oltre ai
civili di Gaza, E ai contadini attaccati da coloni, anche lui sta subendo
questa guerra, e proprio lui che non ne fa un discorso religioso dovrebbe
volere che finisca al più presto. Ma lui guardandomi con degli occhi grandi,
stanchi, mi spiega che lo abbiamo già lasciato a piedi una volta. Se
l’occidente negli anni ha relegato molti paesi del sud del mondo a pure mete
turistiche, modificando di fatto anche le loro economie, con il Covid, quando
per mesi eravamo tutti chiusi nelle nostre case, li abbiamo costretti a
guardare oltre, dandogli la convinzione di potercela fare anche senza di noi.
Che la guerra duri sei mesi o un anno, ad Ibraim non importa, c’è già passato,
è pronto. Purtroppo sono gli interessi economici comuni che mantengono la pace
tra i paesi dell’occidente. Ma la polarizzazione del mondo a cui stiamo
assistendo non ci aiuta. E come abbiamo deciso di non voler essere dipendenti
dal gas russo, congelandogli i conti in banca, bloccando le esportazioni, e
impedendo di partecipare a manifestazioni sportive ad atleti russi, adesso ci
stiamo schierando apertamente con Israele, senza prima una parola
sull’occupazione, alimentando l’arabo-fobia, così stiamo scavando un solco
sempre più grande tra noi e loro. Perché loro rappresentano il diverso, senza
neanche cercare di comprendere le loro ragioni. E mentre ci perdiamo nei
sofismi cercando le differenze tra le democrazie dell’occidente e i regimi del
Medio Oriente, finiamo per togliere legittimità alle istanze di Ahmed e di
tutti quei palestinesi che cercano la pace quale mezzo di autodeterminazione e
nella speranza di elevare la propria condizione. *Mediatore
interculturale, scrittore e fotografo freelance, presente nei maggiori scenari
di crisi negli ultimi 15 anni: Kossovo, Libano, Filippine, Congo, Palestina,
Ucraina.