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domenica 29 ottobre 2023

REPORTAGE ISRAELE - PALESTINA
di Stefano Bonanni*


Gerusalemme e Betlemme


Oltrepasso il King Hussein Bridge il confine che separa la Giordania da Israele dopo 13 anni, e nonostante da allora sono tornato in Israele molte volte, ogni volta sono sempre più confuso. Pensavo allora di conoscere già tutto sul conflitto e che bastassero i libri di storia per farsene un’idea. Ma quando davanti a te hai delle persone reali, ti rendi conto che nessun libro ti può spiegare cosa si prova a vivere nell’occupazione, nella diffidenza, senza certezze per il domani. 
Al confine incontro Ahmed un arabo israeliano che da anni si è traferito negli Stati Uniti. Non molto alto, capelli bianchi ed un baffo brizzolato su una faccia squadrata. Indossa un jeans ed una camicia marrone che lo differenziano dal resto dei palestinesi qui in fila, e se già non bastasse per farsene un’idea le scarpe ne sono la conferma. La maggior parte degli arabi della sua età indossa dei mocassini mentre lui ha delle sneakers ai piedi. Mentre attendiamo insieme che il minibus si riempia per portarci a Gerusalemme, mi racconta che sarebbe dovuto atterrare a Tel Aviv ma non l’hanno fatto viaggiare sulla rotta principale, come tutti i cittadini di Israele di serie B è dovuto passare per Amman allungando tempi e costi. Ahmed è in vacanza per una settimana, le notizie dei media internazionali lo preoccupavano così ha deciso di venire a trovare i suoi familiari, ogni volta può essere l’ultima in questa terra. Gli chiedo cosa ne pensano in America del conflitto, e lui con un’espressione sconsolata mi risponde che gli americani empatizzano con Israele ma solo perché non conoscono la verità. Secondo lui, negli States l’informazione è parziale, mentre qui l’ideologia religiosa tiene banco, in Occidente viene venerato il dollaro, ed è normale che a nessuno interessi la sorte dei palestinesi che non hanno appeal economico. Anche per i cugini vicini sono arabi di serie B, osannati finché cercano di resistere ad Israele, ma scomodi quando diventano profughi senza terra in economie già deboli di loro. Né Egitto e né Giordania vogliono farsene carico.  Il motto sembra essere “meglio martiri che profughi”.



Gerusalemme in questi giorni è fortemente militarizzata. Camminando per le strade si notano molti militari in divisa e altrettanti riservisti in abiti civili che imbracciano il fucile. Non a protezione di obiettivi sensibili ma vivendo la loro quotidianità; mano nella mano con il partner mentre bevono un caffè, in fila per un gelato. Ed è proprio questa militarizzazione che invece che darti sicurezza ti mette tensione. Non si può arginare con le armi il risultato delle politiche di oppressione di Israele, questo anche la popolazione israeliana lo sa e per questo è scesa in piazza contro Netanyahu negli ultimi mesi. Il governo israeliano ha cercato di esautorare l’unico organo di controllo che permette al paese di rimanere una democrazia: la corte suprema.  Ora però, con la scusa dell’emergenza, sta mettendo il futuro della regione nelle mani degli ultra nazionalisti di destra, invece che ripartire dalla protesta di quelle piazze unificando la voglia di cambiamento delle due parti.
Per le strade di Betlemme, in territorio palestinese, mi imbatto in Ibrahim. Ibrahim è un cristiano ortodosso e vive nel quartiere cristiano di Beit Sahour. Indossa una camicia a coste blu e porta un occhiale da vista su di una testa calva. È una guida turistica ma dal 7 ottobre qui di turisti non ce ne sono più. 



Nonostante le difficoltà e la differenza di appartenenza religiosa, lui sostiene Hamas. “Abu Mazen non rappresenta più il popolo palestinese, è politicamente debole, corrotto, ormai vecchio e non può più dare nulla per la causa palestinese”, ci tiene a dire Ibraim. Gli faccio notare che l'escalation del conflitto lo ha portato ad una condizione di indigenza e che oltre ai civili di Gaza, E ai contadini attaccati da coloni, anche lui sta subendo questa guerra, e proprio lui che non ne fa un discorso religioso dovrebbe volere che finisca al più presto. Ma lui guardandomi con degli occhi grandi, stanchi, mi spiega che lo abbiamo già lasciato a piedi una volta. Se l’occidente negli anni ha relegato molti paesi del sud del mondo a pure mete turistiche, modificando di fatto anche le loro economie, con il Covid, quando per mesi eravamo tutti chiusi nelle nostre case, li abbiamo costretti a guardare oltre, dandogli la convinzione di potercela fare anche senza di noi. Che la guerra duri sei mesi o un anno, ad Ibraim non importa, c’è già passato, è pronto. Purtroppo sono gli interessi economici comuni che mantengono la pace tra i paesi dell’occidente. Ma la polarizzazione del mondo a cui stiamo assistendo non ci aiuta. E come abbiamo deciso di non voler essere dipendenti dal gas russo, congelandogli i conti in banca, bloccando le esportazioni, e impedendo di partecipare a manifestazioni sportive ad atleti russi, adesso ci stiamo schierando apertamente con Israele, senza prima una parola sull’occupazione, alimentando l’arabo-fobia, così stiamo scavando un solco sempre più grande tra noi e loro. Perché loro rappresentano il diverso, senza neanche cercare di comprendere le loro ragioni. E mentre ci perdiamo nei sofismi cercando le differenze tra le democrazie dell’occidente e i regimi del Medio Oriente, finiamo per togliere legittimità alle istanze di Ahmed e di tutti quei palestinesi che cercano la pace quale mezzo di autodeterminazione e nella speranza di elevare la propria condizione.
 
*Mediatore interculturale, scrittore e fotografo freelance, presente nei maggiori scenari di crisi negli ultimi 15 anni: Kossovo, Libano, Filippine, Congo, Palestina, Ucraina.