REPORTAGE ISRAELE - PALESTINA
di
Stefano Bonanni*
Ramallah
Gerusalemme è l’emblema dell’evoluzione del conflitto, divisa in Est ed
Ovest come la Berlino di qualche decennio fa, ma il muro qui non divide in due
la città, è all’esterno, serve a dividerla dal resto della Cisgiordania. Ormai
sotto il completo controllo militare israeliano, qui vivono israeliani ebrei e
arabi con passaporto israeliano, i grandi esclusi sono i palestinesi. Ma
se Gerusalemme rimane la capitale spirituale della Palestina quella politica è
Ramallah situata 20 km più a nord. L’architettura qui ti riporta subito nel
mondo arabo, palazzi sempre più alti e vicini, per una popolazione che cresce
ed un territorio che diminuisce. Il color sabbia della pietra con cui sono eretti
è il colore di questa terra che per vasti tratti è rocciosa e desertica
relegando di fatto tutti gli abitanti nei centri urbani.
Durante
il venerdì della rabbia invocato da Hamas, questa è stata una di quelle piazze
che ha raccolto maggior contestatori anche per via della presenza delle
istituzioni palestinesi. Qui incontro Mahmoud, un ragazzo nato sotto
l’occupazione. Per lui la storia delle risoluzioni ONU ha poco senso. Lui nel
48, nel 67, ma anche nelle più recenti risoluzioni di Camp David non era nato.
Per Mahmud conta il presente. La vita nei territori palestinesi è difficile.
Ogni spostamento comporta lunghe ore di attesa nei checkpoint. Chi nasce nella west-bank, vive con un presente
difficile e con la premessa di un futuro sempre peggiore. Ogni anno Israele
annette nuovo territorio di fatto spezzettando la Palestina e rendendo sempre
più difficili gli spostamenti. L’unico mezzo per ottenere la libertà rimane Hamas.
Mahmoud mi spiega che Hamas ha avuto la capacità di riunire diversi paesi arabi
dandogli un obiettivo comune: Israele. I regimi arabi negli ultimi anni hanno
visto l’intensificarsi di conflitti interni di origine religiosa tra sunniti e
sciiti. Due branche dell’islam. Se con l’attacco del 7 ottobre Hamas è salito
alla ribalta internazionale, è solamente con la risposta di Israele che
acquisisce un potere nel mondo arabo. È grazie all’offensiva verso i civili che
Israele sta portando compattezza tra i fedeli mussulmani in un medio oriente
martoriato dalle divisioni. Nonostante ciò non si può pensare ad un unico mondo
arabo. Basti pensare che l’Iran, contrariamente ai fratelli mussulmani da cui
nasce Hamas, è sciita. Inoltre non è composta da arabi, bensì da persiani di
etnia indoeuropea che parlano farsi. Ma la guerra qui fa comodo a molti, a
Bashar al Assad sciita in Siria che guida un paese al settanta percento
sunnita. All’Iraq che dopo Saddam Hussein sta vivendo anni di forte tensione,
dove la popolazione è suddivisa, metà tra sunniti e sciiti. Al Libano che oggi
è guidato da Hezbollah, un gruppo paramilitare di matrice islamica sciita, che
viene armato dall’Iran per portare avanti una guerra che non è in grado di fare
direttamente da solo. Scendendo ancora più a fondo, ci sono delle correnti e
delle battaglie in entrambi i gruppi, tra i sunniti emergono ad esempio i
salafiti, tra gli sciiti gli alauiti. Non si può mettere tutto sullo stesso
piano. Perché è proprio mettendoli tutti insieme che gli diamo un nemico
comune. Secondo Mahmud questo sta già
avvenendo ed il grande attacco avverrà dal nord della Palestina, con il
sostegno di Hezbollah e di Assad. Quando? Non appena Israele invaderà Gaza.
Mentre risponde scorgo nel suo viso un sogghigno, come se si auspicasse un
intervento via terra d’Israele, relegando i gazawi ad agnello sacrificale.
Provo a ribattere che a quel punto si dovrebbe temere un coinvolgimento delle
potenze occidentali. Ma Mahmud è convinto che Russia e Cina faranno desistere
qualsiasi altro intervento, mantenendo un conflitto regionale. Dove si augura
Israele possa soccombere, perché allo stato attuale se così non fosse sarebbe
comunque la fine per la Palestina. Dopo il 7 ottobre le cose non possono più
tornare come prima.
I miei tre interlocutori appartengono a generazioni differenti, hanno una estrazione sociale differente, ma conservano qualcosa in comune: sognano di poter cambiare le proprie sorti. Sta a noi cercare di capire come raccogliere le loro istanze senza che divampi una guerra ancora più sanguinosa. Ed è proprio per questo motivo che dovremmo rappresentare una terza via e non costringere israeliani e palestinesi a uno schieramento ovvio. Dire che Hamas è un’organizzazione terroristica al pari dell’Isis è solamente far propaganda. Hamas è un partito politico a tutti gli effetti. Ha delle istituzioni, manda avanti scuole, ospedali, costruisce strade. Il 40% della popolazione di Gaza lavora per Hamas. Non si può estirpare Hamas da Gaza con l’esercito se non commettendo uno sterminio. Fermo restando che tutti sanno che i leader si trovano altrove, protetti dai regimi a cui l’Occidente strizza l’occhio. L’unico modo per togliere sostegno ai gruppi militari è dare la libertà al popolo palestinese. Israele sarà libera, quando la Palestina sarà libera. Qualsiasi processo unidirezionale condurrà ad altro dolore. Dobbiamo cercare di rimanere umani e pensare al futuro, anche al nostro, non creandoci nuovi nemici da combattere.
*Mediatore
interculturale, scrittore e fotografo freelance, presente nei maggiori scenari
di crisi negli ultimi 15 anni: Kossovo, Libano, Filippine, Congo, Palestina,
Ucraina.