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giovedì 16 novembre 2023

I MURI DELLA RIVOLTA
di Angelo Gaccione

Palazzo Acerbi

Diversi i palazzi nobiliari che adornano e ingentiliscono il Corso di Porta Romana a Milano sopravvissuti ai bombardamenti dell’ultima guerra. Il palazzo Acerbi (al civico numero 3) e il palazzo Annoni (al civico n. 6), tanto per citarne alcuni, si fronteggiano sui due lati della strada. Tardo cinquecentesco il primo, seicentesco il secondo realizzato dalla mano dell’architetto Francesco Maria Richini. Palazzo Annoni all’esterno esibisce un totem con le informazioni essenziali per il passante che vi transita davanti, il palazzo Acerbi no. E forse non è del tutto sbagliata la mia supposizione: gli attuali proprietari devono averne avuto le tasche piene di trovarsi davanti al portone o nel cortile, schiere di fanatici creduloni. Non c’è castello che non abbia avuto una stanza con fantasma, e non c’è palazzo che non abbia avuto il suo diavolo; dunque non c’è da stupirsi se la fantasia corre e c’è sempre chi è pronto a scambiare bufala per manzo. In più, la riservatezza rigida dei milanesi fa il resto, figuriamoci se ricchi. Ne ho fatto le spese anch’io che mi ero infilato sotto il colonnato del cortile per fotografare la grande lastra di marmo con inciso l’elenco degli abitatori della casa: dal 1577 al 1876. Da Pietro Maria Rossi conte di San Secondo, fino a Fortunato Bassani e successori, tutti rigorosamente annotati per titolo e per date. Una gentile ma energica portinaia salernitana mi ha invitato gentilmente ad uscire, “perché i proprietari non gradiscono visite”, e se mi sono evitato una reprimenda, lo devo al mio mestiere di scrittore e ad una tessera di giornalista. 


La scheggia della cannonata

I due palazzi sono noti abbastanza per spendervi altro inchiostro, ed io volevo segnalarvi non il diavolo del palazzo Acerbi, ma il frammento di una palla di cannone rimasta infissa all’altezza del primo piano, sulla parte destra di uno dei balconcini, dove una pietra incisa con la data “20 marzo 1848” ne fa memoria. È più facile che vi salti all’occhio il ricamo realizzato dai tanti chiodi infissi nel portale (cosa non ha prodotto l’estro visionario Barocco!”), che la scheggia posta in alto, frastornati dal traffico che scorse lungo il corso. Come di sicuro non avete mai notato lo sbreccio della colonna dell’arco del numero 13 di corso Venezia, né quello al numero 15, subito girando l’angolo per imboccare via della Spiga. Più sicuro è che abbiate notato le vetrine sottostanti di uno dei tanti negozi degli stilisti Dolce e Gabbana, e che quelle ferite con la scritta “Marzo 1848” siano rimaste neglette al vostro sguardo. 


Lo sbreccio in Corso Venezia 

Eppure non dovreste dimenticarle quelle sparatorie austriache, anche se la citta “che si rinnova” fa di tutto per cancellare memoria. Perché quelle  dell’insurrezione del 1848 contro Radetzky e gli austro-ungarici furono giornate di sangue e di lutto, ma anche di gloria. “Quella Rivoluzione fu la più eroica e la più morale dei secoli”, come recita un passaggio dell’Appello alla Gioventù milanese dei capi della rivolta. E lo accolsero in tanti quell’appello: dal calzolaio Pasquale Sottocorno al giovane Luciano Manara, dal giovanissimo Francesco Pirovano, garzone di panetteria che di anni ne aveva diciassette e che fece sventolare il Tricolore sulle barricate di Porta Tosa, fino ai ragazzini dei Martinitt. Gli orfani che alla Rivoluzione diedero il loro contributo come staffette e messaggeri, volando da una barricata all’altra.