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venerdì 3 novembre 2023

UN SONORO E ROBUSTO FACCHIÙ!
di Girolamo Dell’Olio



È arrivato, alle fine! L’interlocuzione si chiude con un dito medio ritto e un sonoro facchiù. Ce n’era stata una qualche avvisaglia ieri, a dire il vero.
Si era soffermato a leggere il cartello che avevo addosso, questo simpatico homo sapiens scortato dalla sua signora. “C’è una brutta guerra a due passi da noi”, dice il cartello. E allora: ‘Prego!’, e gli avevo offerto il volantino. ‘Meglio di no!’, aveva replicato baldanzoso scorrendomi accanto. Me lo dice con un tono così secco, sprezzante e definitivo da strapparmi un ‘meglio allora aspettare che la guerra arrivi sotto casa, proprio sotto casa… allora piangeremo, allora cominceremo a piangere’. Senza fermarsi, raccoglie e rilancia: ‘La guerra c’è da trent’anni, e adesso sei qui! Dovevi essere trent’anni fa qui, no adesso!’ ‘Io son qui dove sono, caro mio: di più non posso fare’, provo a spiegare. Ma è già abbastanza lontano.
Mi son chiesto: ma cosa avrà voluto dire? Di sicuro non ha voluto esprimere simpatia o comprensione! Mi son fatto un’idea provvisoria: chissà che non sia uno di quelli che, magari da posizioni ultra-sioniste, questa carneficina a Gaza la considera santa, giusta e meritata, dopo trent’anni di… cosa? Magari mi sbaglio, ma ho avuto quest’impressione.


 
Ecco, oggi sotto Palazzo Vecchio si è fatto un passo avanti. Non era un esponente del sesso maschile. Era una donna. E per qualche secondo ha fatto anche pubblico. Mi si mette davanti analizzando il messaggio che porto. Parte in francese, prosegue in inglese. Non è semplice seguirla, ma quello che diventa chiaro è il punto in cui mi mima, espressiva e feroce nello sguardo, l’atto del tagliagola. Commenta: ‘E poi ci vorrebbe la foto degli ostaggi, e non c’è!’ Ricarica, alzando la voce: ‘E i bambini sgozzati! E gli ostaggi, gli ostaggi! Perché non ha messo la foto degli ostaggi?’ È alterata. Non vede oltre. Provo a proporle la foto dei due bimbi che si abbracciano: ‘Questa è l’immagine che amo!’. Niente da fare. Continua, in un crescendo: ‘Gli ostaggi! gli ostaggi!’
Peggio, quando, a completare il quadro, propongo: ‘E le bombe? le bombe? le bombe?’ Parte in quarta, si volta, mi lancia il dito medio e il suo adirato ‘fuck you’. Qualcuno si è fermato a seguire la scena. Non è stato un bel dialogo. Mi ricorda certe cose che sento in Radio o vedo in Rete. Come se intere fasce di opinione pubblica fossero affette da sindromi psichiatriche di paranoia o maniaco-depressive. Ora, è vero che si sta sviluppando un po’ in tutto il mondo un pericoloso ritorno di generico e qualunquistico antiebraismo (e anche di islamofobia). Mi pare però che a rinfocolarlo ci sia un’informazione che soffia sul fuoco. A partire dal vocabolario che utilizza. Come si fa per esempio a definire antisemiti i semitissimi arabi? O antiebraici coloro che contestano le conseguenze distruttive, dirette e indirette, del più recente e arrogante sionismo? In altre parole: a chi serve giocare sugli ‘anti’ e sugli ‘ismi’? Abbiamo davvero bisogno di estremizzare una condizione già estrema? Servirà mai a raggiungere un risultato di riconciliazione? Temo che ci sia una macedonia di interessi - produzione delle armi, manipolazione delle menti - da cui conviene stare bene in guardia: le trappole sono dietro ogni angolo. E questo della Palestina sembra essere l’ultimo tragico coerente capitolo di una sequenza dell’orrore che abbiamo imparato a riconoscere da almeno tre anni a questa parte, nella sua profonda diabolica mendacità: una stessa traiettoria sembra congiungere, nei linguaggi e nelle finalità, le ‘emergenze’ sanitarie, le ‘crisi’ belliche, le ‘tensioni’ energetiche. Tutte proiettate nella direzione dell’asservimento, dell’omologazione, del controllo dell’essere umano. Dove la capacità di pensiero critico autonomo e di libero comportamento divergente diventano - mi pare - qualità essenziali da coltivare.
 

Era cominciata decisamente meglio, la mattinata. Sciama verso le panchine una Terza Media, a occhio: guadagnano rincorrendosi i posti a sedere. Ma c’è spazio per tutti, accanto al mio tubo porta-bristol, allo zaino e all’ombrello.
Giornata ventosa. Anzi ventosissima. A metà dovrò togliermi il cartello di dietro: una folata improvvisa me lo ha scaraventato sulla guancia di una giovane turista sud-est asiatico. Per fortuna, solo di piatto. Costernato, mi scuso. Lei, e le sue amiche, la prendono con spirito sportivo: si mettono a ridere, perdonandomi. Ma torniamo ai nostri ragazzi.
‘Da quale parte del mondo arrivate, voi?’
‘Firenze!’
‘Firenze? Ma indove, Firenze?’
‘Novoli’, fa uno.
‘Novoli’, un altro e un altro ancora.
‘Il Bronx di Firenze’, precisa il quarto. Una sagoma. L’ho visto prima conversare coi piccioni attirati dalle briciole che cadono dalle pagnotte dell’intervallo-colazione: “Tu hai dei problemi, vero? piccione mio!’, e, rivolto ai compagni: ‘Ma ditemi, che utilità hanno mai i piccioni?’
‘Che lo studiate l’inglese, a scuola?’, gli faccio.
‘Sì…’
‘Icché c’è scritto qui?’
‘Boh’, fa uno.
‘Preferisci stare con loro o con questo?’, infila dritto invece il compagno.
‘Bravo! Bravissimo! E loro chi sono?’
‘Ebreo…’
‘Un’israeliana e un palestinese, insieme, che si abbracciano! Come dovrebbe essere, eh…? E qui, invece, icché c’è?’
‘La Palestina…’
‘…distrutta. Da un certo Netanyahu… l’avete sentito rammentare?’
E si allungano verso i fogli che tengo in mano: ‘Voglio vedere!’, dicono.
‘Aspetta, che te lo do, il nostro manifestino. I vostri prof. chi sono? Le insegnanti laggiù?’, e indico due giovani colleghe che, quanto le invidio! possono tranquillamente conversare fra loro senza dover stare a sgridare nessuno perché questa classe, fatemelo dire, è vivace, vispa e interattiva quanto ammirevolmente tranquilla!’
‘Vai, glielo portate anche a loro. Quale volete, quello in italiano o quello in inglese?’
‘In italiano, in italiano’, è quasi un coro.
Uno, invece: ‘È uguale, è uguale’.
‘Allora: quello che ha detto ‘uguale’ lo prende in inglese, giusto? E questo, invece, te ne do più d’uno, lo dai anche ai compagni, e alle prof’.
Mi viene la curiosità: ‘Come si chiama la vostra scuola?’
‘Beato Angelico.’
‘Ah, la Beato Angelico! Ci ho fatto una supplenza tantissimi anni fa, quando ero ancora ragazzino, lo scorso secolo’. Erano i miei primi anni di precariato.
Il volantino lo leggono. Uno, in particolare, un po’ più grande degli altri, mentre lo scorre continua a guardarmi! Soddisfazione!


 
Due frati in un gruppo di laici passano e approvano col capo. Mi avvicino. Accettano volentieri l’SOS a Palazzo Vecchio. Ognuno ne chiede una copia. ‘Grazie, eh?’, rispondono convinti.
‘Cerchiamo di unire!’, spiego.
‘Sì, sì: unità, non divisione! È questo che occorre!’
Ed è arrivato intanto per la classe della ‘Beato Angelico’ il momento della visita alla seconda residenza fiorentina della famiglia Medici. Finiti i panini, ripulite le panchine, mi sfilano davanti diretti all’ingresso. Saluto l’insegnante che chiude la fila: ‘Complimenti, è una splendida classe, questa! Non sono per niente agitati, e intelligenti!’
‘È vero!’, sorride giustamente contenta.