UN SONORO E ROBUSTO FACCHIÙ! di
Girolamo Dell’Olio
Èarrivato, alle fine! L’interlocuzione si chiude con un dito medio ritto e un
sonoro facchiù. Ce n’era stata una qualche avvisaglia ieri, a dire il
vero. Si
era soffermato a leggere il cartello che avevo addosso, questo simpatico homo
sapiens scortato dalla sua signora. “C’è una brutta guerra a due passi da noi”,
dice il cartello. E allora: ‘Prego!’, e gli avevo offerto il volantino. ‘Meglio
di no!’, aveva replicato baldanzoso scorrendomi accanto. Me lo dice con un tono
così secco, sprezzante e definitivo da strapparmi un ‘meglio allora aspettare
che la guerra arrivi sotto casa, proprio sotto casa… allora piangeremo, allora
cominceremo a piangere’. Senza fermarsi, raccoglie e rilancia: ‘La guerra c’è
da trent’anni, e adesso sei qui! Dovevi essere trent’anni fa qui, no adesso!’ ‘Io
son qui dove sono, caro mio: di più non posso fare’, provo a spiegare. Ma è già
abbastanza lontano. Mi
son chiesto: ma cosa avrà voluto dire? Di sicuro non ha voluto esprimere simpatia
o comprensione! Mi son fatto un’idea provvisoria: chissà che non sia uno di
quelli che, magari da posizioni ultra-sioniste, questa carneficina a Gaza la
considera santa, giusta e meritata, dopo trent’anni di… cosa? Magari mi
sbaglio, ma ho avuto quest’impressione.
Ecco,
oggi sotto Palazzo Vecchio si è fatto un passo avanti. Non era un esponente del
sesso maschile. Era una donna. E per qualche secondo ha fatto anche pubblico. Mi
si mette davanti analizzando il messaggio che porto. Parte in francese, prosegue
in inglese. Non è semplice seguirla, ma quello che diventa chiaro è il punto in
cui mi mima, espressiva e feroce nello sguardo, l’atto del tagliagola.
Commenta: ‘E poi ci vorrebbe la foto degli ostaggi, e non c’è!’ Ricarica,
alzando la voce: ‘E i bambini sgozzati! E gli ostaggi, gli ostaggi! Perché non
ha messo la foto degli ostaggi?’ È alterata. Non vede oltre. Provo a proporle
la foto dei due bimbi che si abbracciano: ‘Questa è l’immagine che amo!’. Niente
da fare. Continua, in un crescendo: ‘Gli ostaggi! gli ostaggi!’ Peggio,
quando, a completare il quadro, propongo: ‘E le bombe? le bombe? le bombe?’ Parte
in quarta, si volta, mi lancia il dito medio e il suo adirato ‘fuck you’.
Qualcuno si è fermato a seguire la scena. Non è stato un bel dialogo. Mi
ricorda certe cose che sento in Radio o vedo in Rete. Come se intere fasce di
opinione pubblica fossero affette da sindromi psichiatriche di paranoia o
maniaco-depressive. Ora, è vero che si sta sviluppando un po’ in tutto il mondo
un pericoloso ritorno di generico e qualunquistico antiebraismo (e anche di
islamofobia). Mi pare però che a rinfocolarlo ci sia un’informazione che
soffia sul fuoco. A partire dal vocabolario che utilizza. Come si fa per esempio
a definire antisemiti i semitissimi arabi? O antiebraici coloro che contestano
le conseguenze distruttive, dirette e indirette, del più recente e arrogante
sionismo? In altre parole: a chi serve giocare sugli ‘anti’ e sugli ‘ismi’?
Abbiamo davvero bisogno di estremizzare una condizione già estrema? Servirà mai
a raggiungere un risultato di riconciliazione? Temo che ci sia una macedonia di
interessi - produzione delle armi, manipolazione delle menti - da cui conviene
stare bene in guardia: le trappole sono dietro ogni angolo. E questo della
Palestina sembra essere l’ultimo tragico coerente capitolo di una sequenza
dell’orrore che abbiamo imparato a riconoscere da almeno tre anni a questa
parte, nella sua profonda diabolica mendacità: una stessa traiettoria sembra
congiungere, nei linguaggi e nelle finalità, le ‘emergenze’ sanitarie, le
‘crisi’ belliche, le ‘tensioni’ energetiche. Tutte proiettate nella direzione
dell’asservimento, dell’omologazione, del controllo dell’essere umano. Dove la
capacità di pensiero critico autonomo e di libero comportamento divergente diventano
- mi pare - qualità essenziali da coltivare.
Era
cominciata decisamente meglio, la mattinata. Sciama verso le panchine una Terza
Media, a occhio: guadagnano rincorrendosi i posti a sedere. Ma c’è spazio per
tutti, accanto al mio tubo porta-bristol, allo zaino e all’ombrello. Giornata
ventosa. Anzi ventosissima. A metà dovrò togliermi il cartello di dietro: una
folata improvvisa me lo ha scaraventato sulla guancia di una giovane turista
sud-est asiatico. Per fortuna, solo di piatto. Costernato, mi scuso. Lei, e le
sue amiche, la prendono con spirito sportivo: si mettono a ridere,
perdonandomi. Ma torniamo ai nostri ragazzi. ‘Da
quale parte del mondo arrivate, voi?’ ‘Firenze!’ ‘Firenze?
Ma indove, Firenze?’ ‘Novoli’,
fa uno. ‘Novoli’,
un altro e un altro ancora. ‘Il
Bronx di Firenze’, precisa il quarto. Una sagoma. L’ho visto prima conversare
coi piccioni attirati dalle briciole che cadono dalle pagnotte
dell’intervallo-colazione: “Tu hai dei problemi, vero? piccione mio!’, e,
rivolto ai compagni: ‘Ma ditemi, che utilità hanno mai i piccioni?’ ‘Che
lo studiate l’inglese, a scuola?’, gli faccio. ‘Sì…’ ‘Icché
c’è scritto qui?’ ‘Boh’,
fa uno. ‘Preferisci
stare con loro o con questo?’, infila dritto invece il compagno. ‘Bravo!
Bravissimo! E loro chi sono?’ ‘Ebreo…’ ‘Un’israeliana
e un palestinese, insieme, che si abbracciano! Come dovrebbe essere, eh…? E
qui, invece, icché c’è?’ ‘La
Palestina…’ ‘…distrutta.
Da un certo Netanyahu… l’avete sentito rammentare?’ E
si allungano verso i fogli che tengo in mano: ‘Voglio vedere!’, dicono. ‘Aspetta,
che te lo do, il nostro manifestino. I vostri prof. chi sono? Le insegnanti
laggiù?’, e indico due giovani colleghe che, quanto le invidio! possono
tranquillamente conversare fra loro senza dover stare a sgridare nessuno perché
questa classe, fatemelo dire, è vivace, vispa e interattiva quanto
ammirevolmente tranquilla!’ ‘Vai,
glielo portate anche a loro. Quale volete, quello in italiano o quello in
inglese?’ ‘In
italiano, in italiano’, è quasi un coro. Uno,
invece: ‘È uguale, è uguale’. ‘Allora:
quello che ha detto ‘uguale’ lo prende in inglese, giusto? E questo, invece, te
ne do più d’uno, lo dai anche ai compagni, e alle prof’. Mi
viene la curiosità: ‘Come si chiama la vostra scuola?’ ‘Beato
Angelico.’ ‘Ah,
la Beato Angelico! Ci ho fatto una supplenza tantissimi anni fa, quando ero
ancora ragazzino, lo scorso secolo’. Erano i miei primi anni di precariato. Il
volantino lo leggono. Uno, in particolare, un po’ più grande degli altri,
mentre lo scorre continua a guardarmi! Soddisfazione!
Due
frati in un gruppo di laici passano e approvano col capo. Mi avvicino. Accettano
volentieri l’SOS a Palazzo Vecchio. Ognuno ne chiede una copia. ‘Grazie, eh?’,
rispondono convinti. ‘Cerchiamo
di unire!’, spiego. ‘Sì,
sì: unità, non divisione! È questo che occorre!’ Ed
è arrivato intanto per la classe della ‘Beato Angelico’ il momento della visita
alla seconda residenza fiorentina della famiglia Medici. Finiti i panini,
ripulite le panchine, mi sfilano davanti diretti all’ingresso. Saluto
l’insegnante che chiude la fila: ‘Complimenti, è una splendida classe, questa!
Non sono per niente agitati, e intelligenti!’ ‘È
vero!’, sorride giustamente contenta.