Pagine

mercoledì 27 dicembre 2023

CHE FARE PER LA PACE
di Gian Giacomo Migone


 
Quando mi chiedono da quale parte sto, non ho difficoltà a rispondere. Come tantissimi, dalla parte delle vittime delle stragi in atto, a Gaza, in Cisgiordania, in Ucraina e altrove. Dei senza casa che vagolano per il mondo alla ricerca di un rifugio; a cui è persino vietato fuggire dalla guerra o di liberarsi dal fuoco incrociato che li tiene ostaggi, come a Gaza. Ma anche dalla parte di coloro che sono costretti ad andare a combattere guerre in cui non credono, da Mosca a Kiev, come i marines evocati da Stanley Kubrick e anche della schiera crescente di mercenari che rischiano la vita per un tozzo di pane.
E di chi è la colpa? Non soltanto di coloro che, dal sicuro degli alti comandi e dei centri di affari, decidono per tutti. La colpa è di tutti, anche nostra, perché per ora incapaci di creare un movimento come quello che nel 1968 contribuì in maniera decisiva ad arrestare la guerra in Vietnam. Eppure i sondaggi d’opinione dimostrano con cifre inequivocabili che la grande maggioranza degli italiani è per la pace e non per Crosetto e Leonardo, ma nemmeno per Elly Schlein che invoca la diplomazia, ma vota per nuovi stanziamenti di armi. Quella che in questo momento è un’utopia, l’arresto delle guerre in atto, può e deve trovare una direzione che si concretizza indicando un obiettivo, un metodo e un bersaglio comuni.



Con quale obiettivo? Quello di unirci ai movimenti che hanno già assunto dimensioni imponenti in molte capitali europee, negli Stati Uniti e persino, per gli ostaggi, in Israele, allo scopo di attivare quelle organizzazioni internazionali che hanno già dimostrato la volontà di farsi protagoniste di una pace duratura. L’invocazione del cessate il fuoco, in virtù dell’art. 99 del suo statuto, da parte del segretario generale dell’ONU, Guterres, e la risoluzione “Uniting for peace”, approvata a schiacciante maggioranza dalla sua Assemblea Generale (ma con il voto di astensione dell’Italia) ne dimostrano la volontà di costringere gli Stati Uniti e il Regno Unito a rinunciare ai loro veti in Consiglio di Sicurezza, unico soggetto in grado di gestire quella pace duratura in Medio Oriente tale da garantire rappresentanza ai popoli di Israele e Palestina, oggi in guerra. Anche l’Ucraina aspetta una soluzione di compromesso, oggi a portata di mano.
Una condizione essenziale perché ciò avvenga è la crescita di un movimento per metodo ad un tempo pacifico e militante, come dimostrato dall’esempio storico di Gandhi, emulato da Nelson Mandela in Sud Africa. Bersagli di tale militanza saranno istituzioni e persone che si oppongono alla pace. Come, ad esempio, il Parlamento e il Governo dell’Italia. E, perché no, le ambasciate degli Stati Uniti e del Regno Unito, a Roma. I mezzi dovranno sempre essere rigorosamente coerenti col fine pacifico: non soltanto manifestazioni, ma sit in, boicottaggi, presenze sgradite, sul modello di Jewish Voice for Peace, Code Pink, If not now e di altre organizzazioni analoghe, attive negli Stati Uniti. Siamo ancora piccoli, ma cresceremo, con la dovuta urgenza imposta dalle altrui sofferenze, sotto gli occhi di tutte e di tutti.