Quando mi chiedono da quale
parte sto, non ho difficoltà a rispondere. Come tantissimi, dalla parte delle
vittime delle stragi in atto, a Gaza, in Cisgiordania, in Ucraina e altrove.
Dei senza casa che vagolano per il mondo alla ricerca di un rifugio; a cui è
persino vietato fuggire dalla guerra o di liberarsi dal fuoco incrociato che li
tiene ostaggi, come a Gaza. Ma anche dalla parte di coloro che sono costretti
ad andare a combattere guerre in cui non credono, da Mosca a Kiev, come i marines evocati da Stanley Kubrick e
anche della schiera crescente di mercenari che rischiano la vita per un tozzo
di pane. E
di chi è la colpa? Non soltanto di coloro che, dal sicuro degli alti comandi e
dei centri di affari, decidono per tutti. La colpa è di tutti, anche nostra,
perché per ora incapaci di creare un movimento come quello che nel 1968
contribuì in maniera decisiva ad arrestare la guerra in Vietnam. Eppure i
sondaggi d’opinione dimostrano con cifre inequivocabili che la grande
maggioranza degli italiani è per la pace e non per Crosetto e Leonardo, ma
nemmeno per Elly Schlein che invoca la diplomazia, ma vota per nuovi
stanziamenti di armi. Quella che in questo momento è un’utopia, l’arresto delle
guerre in atto, può e deve trovare una direzione che si concretizza indicando
un obiettivo, un metodo e un bersaglio comuni.
Con
quale obiettivo? Quello di unirci ai movimenti che hanno già assunto dimensioni
imponenti in molte capitali europee, negli Stati Uniti e persino, per gli
ostaggi, in Israele, allo scopo di attivare quelle organizzazioni
internazionali che hanno già dimostrato la volontà di farsi protagoniste di una
pace duratura. L’invocazione del cessate il fuoco, in virtù dell’art. 99 del
suo statuto, da parte del segretario generale dell’ONU, Guterres, e la
risoluzione “Uniting for peace”,
approvata a schiacciante maggioranza dalla sua Assemblea Generale (ma con il
voto di astensione dell’Italia) ne dimostrano la volontà di costringere gli
Stati Uniti e il Regno Unito a rinunciare ai loro veti in Consiglio di
Sicurezza, unico soggetto in grado di gestire quella pace duratura in Medio
Oriente tale da garantire rappresentanza ai popoli di Israele e Palestina, oggi
in guerra. Anche l’Ucraina aspetta una soluzione di compromesso, oggi a portata
di mano. Una
condizione essenziale perché ciò avvenga è la crescita di un movimento per
metodo ad un tempo pacifico e militante, come dimostrato dall’esempio storico
di Gandhi, emulato da Nelson Mandela in Sud Africa. Bersagli di tale militanza
saranno istituzioni e persone che si oppongono alla pace. Come, ad esempio, il
Parlamento e il Governo dell’Italia. E, perché no, le ambasciate degli Stati
Uniti e del Regno Unito, a Roma. I mezzi dovranno sempre essere rigorosamente
coerenti col fine pacifico: non soltanto manifestazioni, ma sit in, boicottaggi, presenze sgradite,
sul modello di Jewish Voice for Peace,
Code Pink, If not now e di altre organizzazioni analoghe, attive negli Stati
Uniti. Siamo ancora piccoli, ma cresceremo, con la dovuta urgenza imposta dalle
altrui sofferenze, sotto gli occhi di tutte e di tutti.