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venerdì 1 dicembre 2023

IL CONCETTO DI CURA
di Lisa Mazzi 
 


Un attributo femminile tra mito e realtà.
 
Il dibattito sul valore del lavoro di cura, sia tra le mura domestiche, che fuori, non è nuovo. Nel 1974 la professoressa italoamericana, nativa di Parma, Silvia Federici nel suo Manifesto “Salario alle casalinghe” scriveva: “Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.” Già prima, a Padova, Mariarosa Dalla Costa aveva fondato, nel 1972, il Collettivo internazionale femminista per i salari alle casalinghe, perché secondo lei, a livello sociale, esisteva - ed esiste ancora - una differenza fondamentale, tra il lavoro salariato e quello senza salario. In Germania una delle prime posizioni femministe in merito uscì nel 1977 sulla rivista “Courage” da parte di Gisela Bock e Pieke Biermann, le quali chiedevano al governo della Repubblica Federale, paese in cui le donne lavoravano per lo più solo a metà tempo, di assumersi i costi di tutto il lavoro casalingo femminile. Il motivo del part time, che veniva favorito con notevoli sgravi fiscali per le coppie, rispondeva all’esigenza di conciliare la professione senza ledere il lavoro di cura per figli e coniuge, che passava da madre a figlia come per un fattore naturale.  Inoltre, Bock e Biermann volevano eliminare la situazione in cui le donne passavano da un’attività casalinga non pagata nei momenti particolari della cura (bambini e anziani) ad una attività sottopagata sul mercato del lavoro, costringendole a mantenere una dipendenza forzata dal potere economico del maschio. A. Schwarzer, l’altra grande femminista tedesca, la pensava diversamente dalle berlinesi asserendo, che bisognerebbe eliminare in toto la possibilità di essere solo casalinga, delegando al maschio la metà delle incombenze.
 


Da allora le discussioni su questo tema si sono intensificate e soprattutto con la definizione di lavoro di “cura” (Sorge/care) si intendono oggi non solo i lavori casalinghi senza retribuzione, ma tutte le attività sottopagate nel campo della cura di anziani, malati, bambini, disabili e nel settore delle pulizie. Il lavoro di cura viene considerato come “ancorato” al carattere precipuo della donna di essere portata naturalmente al sacrificio, disponibile in modo naturale alla cura come un fattore immanente, per il quale non c’è bisogno di remunerazione. Ancora oggi esso viene affidato ad una mano d’opera femminile, spesso straniera, e, non trovando riscontro nel PIL, viene reso quasi invisibile pur venendo svolto da miliardi di donne e producendo miliardi di introiti. L’organizzazione del lavoro di cura ha oggi una dimensione globale e rafforza anche le differenze sociali tra le donne che ne usufruiscono e quelle che lo svolgono sia per l’origine etnica, per l’appartenenza ad una determinata classe, per la diversa nazionalità e lo status migratorio. Con il termine global care chains si vuole sottolineare la dimensione transnazionale di questi lavori, affidati principalmente a donne migranti e donne of colour. L’outsourcing di queste energie è divenuto fondamentale sia per l’aumento della popolazione anziana, sia per la maggior presenza di italiane sul mercato del lavoro. Le prime donne, reclutate in Italia e chiamate badanti o colf, venivano dalle Isole di Capoverde e dalle Filippine. Le prime di lingua madre portoghese per una maggior facilità nella comunicazione in lingua italiana, le asiatiche per il carattere mansueto e responsabile. Solo più tardi sono arrivate le donne dall’Est, europeo grazie all’abbattimento della “cortina di ferro”. Attraverso le global care chains il sistema patriarcale e la suddivisione eteronormativa del lavoro rimangono invariati. Sussistono inoltre altri gravi problemi nei paesi di partenza, come ad esempio scompensi psichici nei bambini e negli adolescenti rimasti a casa in compagnia o solo del padre o dei nonni. D’altro lato soffrono anche le madri, che, allontanandosi dai loro figli sono spesso afflitte da sensi di colpa e sindromi depressive. Nonostante lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, che permetterebbero contatti veloci e giornalieri, il lavoro nel paese d’arrivo non lascia molto tempo alla cura valida di affetti così lontani. Il narrativo sulle badanti da parte delle famiglie datrici di lavoro è spesso in netto contrasto con quello delle badanti stesse, partite con ottimismo dall’Est, nella speranza di trovare lavoro per un paio d’anni e tornare poi in patria con gruzzoletto di risparmi, volto ad un miglioramento economico e sociale nel paese di partenza, dando ai figli la possibilità di un avanzamento sia nel settore scolastico, che in quello occupazionale. In fondo la realizzazione del sogno nel cassetto di ogni emigrante. Diversi sono spesso i commenti delle famiglie, i cui anziani vengono affidati alle badanti, ma per fortuna, oggi, questo lavoro è regolamentato dalla legge e non più solo in nero come all’inizio. La società patriarcale si attendeva e ancora spesso si attende da queste persone un’abnegazione perfetta, facendo leva appunto sulle qualità femminili per eccellenza come il senso del sacrificio, la pazienza e simili, tramandate ormai da secoli.


 
Un altro fattore importante e portatore di ulteriori squilibri è il care drain, vale a dire la fuga di personale medico e assistenziale dai paesi d’origine, che viene in Europa accontentandosi di venir sottopagato nella speranza, comunque, di un miglioramento totale delle proprie condizioni di vita. Le conseguenze per i paesi terzi coinvolti sono spesso disastrose venendo a mancare loro una forza lavoro importante e preparata, mentre nei paesi d’arrivo assistiamo alla svalutazione di queste professioni soprattutto per le donne. Ricordiamo il fenomeno molto conosciuto delle infermiere sudcoreane venute in Germania negli anni 80, preparatissime, ma reclutate negli ospedali tedeschi con mansioni dequalificanti e mal pagate. L’outsourcing mostra quanto ancora sia impari la distribuzione di questo lavoro tra uomini e donne, soprattutto perché le attività di cura, affidate a migranti, favoriscono il patriarcato, perché si tratta quasi sempre di personale femminile duttile e malleabile. In Germania l’attuale congedo parentale e la flessibilità lavorativa permettono ai maschi un maggior coinvolgimento nel lavoro di cura, almeno per quel che riguarda il rapporto genitore/ figli.



Ultimamente si registra anche un aumento delle presenze maschili nella cura sia in ambito pedagogico, tra educatori e insegnanti, ma anche in case di riposo e ospedali, la robustezza maschile è di aiuto nel caso di cura di persone allettate e non più in grado di muoversi con le proprie forze. Esiste anche una nuova parola: “caring masculinities”, con cui si intende il lato umano maschile più tenero e disponibile, diverso dallo stereotipo classico di potere e di dominio. I maschi, che abbracciano questo tipo di lavoro, risentono però di un’immagine sociale più bassa rispetto ad altre professioni, in quanto con esse non si aumenta la produttività. Si tratta di attività statiche, considerate inferiori e per questo con una minor retribuzione. La filosofa americana Nancy Fraser ha proposto la variante “earner- career model” cioè modello di cura e retribuzione, grazie al quale le donne potrebbero fare carriera, occupandosi parzialmente di cura e con possibilità di recupero professionale e i maschi dovrebbero poter lavorare nella cura senza temere di venir vittime di stereotipi ricevendo una retribuzione adeguata. In Germania la presenza di badanti è pressoché inesistente e al massimo di breve durata con un ritmo di sostituzione delle stesse dai tre ai sei mesi circa. La maggior parte degli anziani viene sistemata in case di riposo gestite da enti privati, confessionali o comunali, che si differenziano tra residenze protette, i cui utenti hanno ancora un buon grado di autonomia e in quelle “di cura” per casi più gravi e bisognosi di cure. 



A questo punto va sottolineato che in Germania esiste un’assicurazione statale cosiddetta “assicurazione di cura” prevista in caso di degenza. In molti casi però, quando pensione e assicurazione di cura non bastano, lo stato richiede il sostegno finanziario ai figli. La casa di riposo viene scelta dai più essendo la Germania un paese, in cui la maggior parte della popolazione, soprattutto nelle città, non possiede un appartamento di proprietà. Continuare a pagare l’affitto, sommandovi lo stipendio di una badante non risulterebbe vantaggioso. I legami famigliari in Germania sono sempre stati molto meno stretti dell’Italia, data la maggior mobilità esistente da parecchio tempo nelle famiglie, separate dalle vicende storico-politiche nel corso degli ultimi tre secoli.  Proposte interessanti dal punto di vista urbanistico sono state e vengono tuttora attuate soprattutto nelle città instaurando forme di cohousing, cioè coabitazione tra persone anziane in appartamenti singoli nello stesso stabile, oppure di appartamenti condivisi, come in gioventù. Esistono anche esperimenti di immobili plurigenerazionali, dove giovani famiglie coabitano, in appartamenti diversi, con anziani aiutandosi a vicenda e supplendo così all’assenza dei nonni. 



Queste forme moderne di cura reciproca sono importanti anche dal punto di vista della salvaguardia del pianeta, perché una politica di mercato ecologica e femminista sarebbe maggiormente in grado di affrontare meglio i maggiori problemi del momento come il clima e la salute pubblica. E questo non per l’innata attitudine delle donne alla cura, ma per la loro competenza in campo ecologico ed economico. In tal modo si potrebbe portare avanti una economia postcapitalista più giusta ed equa.
 Personalmente ho sempre nutrito una forte avversione nei confronti della parola “cura”, perché la considero, sia per i suoi risvolti pietistici, sia come lavoro non pagato o non retribuito a sufficienza come uno degli strumenti più beceri del capitalismo e del patriarcato per lo sfruttamento della forza lavoro femminile.