Un attributo femminile tra mito e realtà. Il dibattito sul valore del lavoro di cura, sia tra le
mura domestiche, che fuori, non è nuovo. Nel 1974 la professoressa
italoamericana, nativa di Parma, Silvia Federici nel suo Manifesto “Salario
alle casalinghe” scriveva: “Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non
pagato.” Già prima, a Padova, Mariarosa Dalla Costaaveva fondato,
nel 1972, il Collettivo internazionale femminista per i salari alle casalinghe,
perché secondo lei, a livello sociale, esisteva - ed esiste ancora - una
differenza fondamentale, tra il lavoro salariato e quello senza salario. In
Germania una delle prime posizioni femministe in merito uscì nel 1977 sulla
rivista “Courage” da parte di Gisela Bock e Pieke Biermann, le quali chiedevano
al governo della Repubblica Federale, paese in cui le donne lavoravano per lo
più solo a metà tempo, di assumersi i costi di tutto il lavoro casalingo femminile.
Il motivo del part time, che veniva favorito con notevoli sgravi fiscali per le
coppie, rispondeva all’esigenza di conciliare la professione senza ledere il
lavoro di cura per figli e coniuge, che passava da madre a figlia come per un
fattore naturale.Inoltre, Bock e
Biermann volevano eliminare la situazione in cui le donne passavano da
un’attività casalinga non pagata nei momenti particolari della cura (bambini e
anziani) ad una attività sottopagata sul mercato del lavoro, costringendole a
mantenere una dipendenza forzata dal potere economico del maschio. A. Schwarzer,
l’altra grande femminista tedesca, la pensava diversamente dalle berlinesi
asserendo, che bisognerebbe eliminare in toto la possibilità di essere solo
casalinga, delegando al maschio la metà delle incombenze.
Da
allora le discussioni su questo tema si sono intensificate e soprattutto con la
definizione di lavoro di “cura” (Sorge/care) si intendono oggi non solo i
lavori casalinghi senza retribuzione, ma tutte le attività sottopagate nel
campo della cura di anziani, malati, bambini, disabili e nel settore delle
pulizie. Il lavoro di cura viene considerato come “ancorato” al carattere
precipuo della donna di essere portata naturalmente al sacrificio, disponibile
in modo naturale alla cura come un fattore immanente, per il quale non c’è
bisogno di remunerazione. Ancora oggi esso viene affidato ad una mano d’opera
femminile, spesso straniera, e, non trovando riscontro nel PIL, viene reso
quasi invisibile pur venendo svolto da miliardi di donne e producendo miliardi
di introiti. L’organizzazione del lavoro di cura ha oggi una dimensione globale
e rafforza anche le differenze sociali tra le donne che ne usufruiscono e quelle
che lo svolgono sia per l’origine etnica, per l’appartenenza ad una determinata
classe, per la diversa nazionalità e lo status migratorio. Con il termine global
care chains si vuole sottolineare la dimensione transnazionale di questi
lavori, affidati principalmente a donne migranti e donne of colour. L’outsourcing
di queste energie è divenuto fondamentale sia per l’aumento della popolazione
anziana, sia per la maggior presenza di italiane sul mercato del lavoro. Le
prime donne, reclutate in Italia e chiamate badanti o colf, venivano dalle
Isole di Capoverde e dalle Filippine. Le prime di lingua madre portoghese per
una maggior facilità nella comunicazione in lingua italiana, le asiatiche per
il carattere mansueto e responsabile. Solo più tardi sono arrivate le donne
dall’Est, europeo grazie all’abbattimento della “cortina di ferro”. Attraverso
le global care chains il sistema patriarcale e la suddivisione eteronormativa
del lavoro rimangono invariati. Sussistono inoltre altri gravi problemi nei
paesi di partenza, come ad esempio scompensi psichici nei bambini e negli
adolescenti rimasti a casa in compagnia o solo del padre o dei nonni. D’altro
lato soffrono anche le madri, che, allontanandosi dai loro figli sono spesso
afflitte da sensi di colpa e sindromi depressive. Nonostante lo sviluppo dei
mezzi di comunicazione, che permetterebbero contatti veloci e giornalieri, il
lavoro nel paese d’arrivo non lascia molto tempo alla cura valida di affetti
così lontani. Il narrativo sulle badanti da parte delle famiglie datrici di
lavoro è spesso in netto contrasto con quello delle badanti stesse, partite con
ottimismo dall’Est, nella speranza di trovare lavoro per un paio d’anni e
tornare poi in patria con gruzzoletto di risparmi, volto ad un miglioramento
economico e sociale nel paese di partenza, dando ai figli la possibilità di un
avanzamento sia nel settore scolastico, che in quello occupazionale. In fondo
la realizzazione del sogno nel cassetto di ogni emigrante. Diversi sono spesso i
commenti delle famiglie, i cui anziani vengono affidati alle badanti, ma per
fortuna, oggi, questo lavoro è regolamentato dalla legge e non più solo in nero
come all’inizio. La società patriarcale si attendeva e ancora spesso si attende
da queste persone un’abnegazione perfetta, facendo leva appunto sulle qualità femminili
per eccellenza come il senso del sacrificio, la pazienza e simili, tramandate
ormai da secoli.
Un
altro fattore importante e portatore di ulteriori squilibri è il care drain,
vale a dire la fuga di personale medico e assistenziale dai paesi d’origine,
che viene in Europa accontentandosi di venir sottopagato nella speranza, comunque,
di un miglioramento totale delle proprie condizioni di vita. Le conseguenze per
i paesi terzi coinvolti sono spesso disastrose venendo a mancare loro una forza
lavoro importante e preparata, mentre nei paesi d’arrivo assistiamo alla
svalutazione di queste professioni soprattutto per le donne. Ricordiamo il
fenomeno molto conosciuto delle infermiere sudcoreane venute in Germania negli
anni 80, preparatissime, ma reclutate negli ospedali tedeschi con mansioni dequalificanti
e mal pagate. L’outsourcing mostra quanto ancora sia impari la distribuzione di
questo lavoro tra uomini e donne, soprattutto perché le attività di cura, affidate
a migranti, favoriscono il patriarcato, perché si tratta quasi sempre di
personale femminile duttile e malleabile. In Germania l’attuale congedo
parentale e la flessibilità lavorativa permettono ai maschi un maggior
coinvolgimento nel lavoro di cura, almeno per quel che riguarda il rapporto
genitore/ figli.
Ultimamente si registra anche un aumento delle presenze
maschili nella cura sia in ambito pedagogico, tra educatori e insegnanti, ma
anche in case di riposo e ospedali, la robustezza maschile è di aiuto nel caso
di cura di persone allettate e non più in grado di muoversi con le proprie
forze. Esiste anche una nuova parola: “caring masculinities”, con cui si
intende il lato umano maschile più tenero e disponibile, diverso dallo
stereotipo classico di potere e di dominio. I maschi, che abbracciano questo
tipo di lavoro, risentono però di un’immagine sociale più bassa rispetto ad
altre professioni, in quanto con esse non si aumenta la produttività. Si tratta
di attività statiche, considerate inferiori e per questo con una minor
retribuzione. La filosofa americana Nancy Fraser ha proposto la variante
“earner- career model” cioè modello di cura e retribuzione, grazie al quale le
donne potrebbero fare carriera, occupandosi parzialmente di cura e con
possibilità di recupero professionale e i maschi dovrebbero poter lavorare
nella cura senza temere di venir vittime di stereotipi ricevendo una
retribuzione adeguata. In Germania la presenza di badanti è pressoché
inesistente e al massimo di breve durata con un ritmo di sostituzione delle
stesse dai tre ai sei mesi circa. La maggior parte degli anziani viene sistemata
in case di riposo gestite da enti privati, confessionali o comunali, che si differenziano
tra residenze protette, i cui utenti hanno ancora un buon grado di autonomia e
in quelle “di cura” per casi più gravi e bisognosi di cure.
A questo punto va
sottolineato che in Germania esiste un’assicurazione statale cosiddetta “assicurazione
di cura” prevista in caso di degenza. In molti casi però, quando pensione e
assicurazione di cura non bastano, lo stato richiede il sostegno finanziario ai
figli. La casa di riposo viene scelta dai più essendo la Germania un paese, in
cui la maggior parte della popolazione, soprattutto nelle città, non possiede
un appartamento di proprietà. Continuare a pagare l’affitto, sommandovi lo
stipendio di una badante non risulterebbe vantaggioso. I legami famigliari in
Germania sono sempre stati molto meno stretti dell’Italia, data la maggior
mobilità esistente da parecchio tempo nelle famiglie, separate dalle vicende
storico-politiche nel corso degli ultimi tre secoli. Proposte interessanti dal punto di vista urbanistico
sono state e vengono tuttora attuate soprattutto nelle città instaurando forme
di cohousing, cioè coabitazione tra persone anziane in appartamenti singoli
nello stesso stabile, oppure di appartamenti condivisi, come in gioventù.
Esistono anche esperimenti di immobili plurigenerazionali, dove giovani
famiglie coabitano, in appartamenti diversi, con anziani aiutandosi a vicenda e
supplendo così all’assenza dei nonni.
Queste forme moderne di cura reciproca
sono importanti anche dal punto di vista della salvaguardia del pianeta, perché
una politica di mercato ecologica e femminista sarebbe maggiormente in grado di
affrontare meglio i maggiori problemi del momento come il clima e la salute
pubblica. E questo non per l’innata attitudine delle donne alla cura, ma per la
loro competenza in campo ecologico ed economico. In tal modo si potrebbe
portare avanti una economia postcapitalista più giusta ed equa. Personalmente ho sempre nutrito una forte
avversione nei confronti della parola “cura”, perché la considero, sia per i
suoi risvolti pietistici, sia come lavoro non pagato o non retribuito a
sufficienza come uno degli strumenti più beceri del capitalismo e del
patriarcato per lo sfruttamento della forza lavoro femminile.