Quando nel numero di Odissea (https://libertariam.blogspot.com/2023/04/attraverso-i-balcani-da-sarajevo-gramsh.html) iniziai a raccontare il viaggio attraverso la
terra e la storia dei Balcani cominciai opponendo al mezzo dello star system
turistico tanto in voga (quello di girare i video e poi subito postarli) quello
del racconto costruito fidando sulla capacità di osservazione. Credo che una
funzione pedagogica che Odissea possa svolgere criticamente nei confronti dello
stato attuale del pensiero, ossia il pervertimento della corruptio optimi
pessima, sia dare possibilità all'osservatore di relazionarsi all'oggetto
osservato, idea e ideato, con cui manifestare quel desiderio dialettico che
coglie dalla strada la vita nella propria nuda sofferenza, nella propria poesia
umana sempre lacerata, nell'utopia che in quella forza dialettica si possa
riconciliare la sofferenza umana, oggi più che mai alienata dalla conoscenza di
sé, più che mai in cerca di un oggetto “nemico” su cui vomitare il proprio odio
represso. Affinché il pensiero cerchi l'errore, sintomo di umanità, la
dialettica soggetto-oggetto, la sua razionalità, sono la via di pace che
prepara la pace. Iniziai perciò un resoconto, una specie di fotogramma a parole
formatesi lungo il viaggio circa la natura della subalternità e del dominio. La
prima parte terminò con l'affermazione che la guerra dei Balcani fu una guerra
di religione. Debbo precisare che la categoria “guerra di religione” la
utilizzo cum grano salis, solo quindi se funge da rivelatore di
determinati interessi economici e politici legati ad una forza egemonica su
un'altra ben più fragile. Non uso quella categoria come false flags, che
deformano la storia.
Entrare a Mostar suscita quel tipico effetto
della familiarità: la piana che la precede, circondata da colline e montagne, è
come vuole l'architettura dello spazio sociale dell'area produttiva
occidentale, uno spazio “artigianale” che di artigianale non ha ovviamente
nulla: l'organizzazione produttiva del lavoro industrializzato ha oramai perso
la relazione estetica coll'oggetto prodotto. Infatti, a guisa di consolazione
c’è pure il McDonald’s, spazio artigianale per eccellenza! Non è un paradosso
in quanto è questo contrasto che cancella il contrasto tra regimi produttivi
storicamente diversi e leggi di lavoro e economiche siffatte. Lo schiaffo
letteralmente emotivo, fisico arriva lasciata la zona artigianale e i suoi significati
eterodossi. Poiché entrare nella piccola Mostar attraverso l'unica direttrice
significa piombare nel baratro che la guerra portò con sé: edifici tutt'oggi
pericolanti perché allora bombardati vicino a case abitate, palazzi anneriti
dalle bombe vicino a negozi, muri tenuti su da vecchi ponteggi e puntelli che
tengono ancora vivo il segno che in Mostar la guerra fu fratricida, intestina
come in tutti i Balcani. Questa è la zona mussulmana. Avevo fermato la
motocicletta a lato della strada per chiedere un'informazione (voglio che mi
rimanga sconosciuta l'intelligenza artificiale di Google maps e le sue
conseguenze sulla capacità di orientamento...) e il palazzo sovrastante cadeva
a pezzi (pareva fossero lasciati lì a monito). Questa direttrice di entrata,
che da Ovest punta a Est verso Sarajevo, corre parallela alla strada che è per
antonomasia quella dei negozi turistici. La distanza tra le due è di poche
decine di metri ma la distanza, qui davvero paradossale e incolmabile, risiede
nel fatto che lungo la prima ci sono tutt'oggi evidenti segni di ciò sotto cui
la vita dovette cadere, nella seconda regna l'ordine a cui adesso la vita è
risorta, respirando un ossigeno non suo. Nella strada del commercio, dei
ristoranti, dei bazar, sovrastata dall'imponenza storica del ponte di Mostar
(ricostruito), tutto si svolge come se in quel piccolo spazio il ricordo della
guerra sia lontanissimo; in realtà all'inizio dei due accesi del ponte sono
poste in basso due pietre su cui è scritto: per non dimenticare.
Ma è tale
l'ordine economico che adesso fa funzionare quello spazio che spesso si vedono
turisti che si fanno foto sorridenti vicino a quelle pietre che, anche se
fossero d'inciampo, quell'ordine ne ha reso così naturale il messaggio (che
avrebbe dovuto essere di rompere definitivamente con la logica della legge del
taglione) tanto da cancellare il suo monito in futuro. Il ponte di Mostar fu
tirato giù non da eserciti stranieri ma dai combattimenti delle due etnie
contendenti il controllo della città (quella croata e quella mussulmana); che
si esplodevano colpi da un muro ad un altro, da una casa verso l'altra, da una
sponda del fiume verso quella opposta. A pensarci bene all'inizio della guerra
il nemico comune di quelle due etnie era l'esercito regolare di Serbia, che
puntava alla grande Serbia quale erede dell'Urss appena caduto; una volta che
quel progetto anacronistico fu sconfitto il seme della divisione e del
nazionalismo che da decenni dominava nel cuore della gente di Mostar “fiorì”, e
la sponda destra (quella a tutt'oggi croata, per inciso quella più ordinata,
più benestante...ops cristiana) s'incapricciò contro la rivale sinistra (a
tutt'oggi quella di cui sopra ne ho descritto lo stato... ahi, mussulmana). Qui
si potrebbe cadere vittima della false flag. Francamente la tentazione
di cedere a questa semplificazione di come i fatti si svolsero è forte; e la
perplessità tanto quanto il disgusto crescono davanti a quella enorme croce
(come se il contenuto metafisico di questa stesse nella potenza, detto digrignando
i denti...) eretta sul fianco di una collina che sovrasta il quartiere croato.
La parte mussulmana è disseminata di moschee. Se uno volesse esser cattivo,
apologeta del marcio dappertutto, le costruzioni religiose sembra siano
orientate l'una contro l'altra ostilmente, toponimi di una guerra che non si è
affatto spenta.
Occorre quindi non cedere a questa lettura
ideologica dei fatti. Ricordare invece, questo è il punto dirimente, il ruolo
della comunità internazionale (Usa in testa) e dei suoi interessi egemonici -
Fondo monetario internazionale, banche, indebitamento dei paesi poveri grazie
alla guerra, risorse da sfruttare, modelli culturali alloctoni da implementare
rispetto ad un'organizzazione della cultura storicamente impregnata da polisemia
religiosa e politica, commercio sempiterno di armi e tecnologie correlate,
sistemi di produzione del lavoro omologhi al modello imperante, sistema
educativo da irregimentare al regime di verità occidentale, turismo - quando,
nella prima fase di attacco dell'esercito regolare di Serbia, invece di
sanzionarne il tentativo di occupazione di Mostar come di tutta la Bosnia, ne
convalidò l'oppressione. Niente di nuovo: fare si che che il popolo si spacchi
e si odi con una lotta armata e nel frattempo preparare la base per il dominio
futuro (“pace” di Dayton). La classica ipocrisia dell'equazione esportata dai
sedicenti piani di pace occidentali; che poggiava (poggia) quindi sul
denominatore, la pace, che deve essere frazionato in svariati numeratori in cui
la storia di ogni popolo divenga aliena da questo, affinché questo non possa
rivendicare nessuna autodeterminazione. Laddove la storia è frazionata a suon
di colpi di pace (imposta) dal dominio occidentale, che tutto rappresenta meno
che unità e identità (è quello che succede tutt'oggi in Bosnia Erzegovina), la
vita reale è dissanguata dal di dentro. La pulizia etnica che subì la
popolazione bosniaca fu il precursore della subalternità alla politica Usa di
tutta l'Europa dell'Est.
Al di fuori di questa strada turistica c'è la
vita vera, fatta da palazzi con alcuni grandi disegni colorati che cercano di
dare armonia; sono dipinti dei fiori, dei volti, dei segni di amore che
evocano, forse, il senso di legame umano reciso dalla guerra. Fatta da caffè
dove i bosniaci ti guardano incuriositi e forse ancora in modo spaesato. Lungo
queste strade non c'è ombra di turisti, non hanno nessun souvenir da
offrire ma percorrendole mostrano quanta enorme difficoltà Mostar abbia
tutt'oggi a ridefinire un senso di appartenenza con sé e col mondo, che allora
l'abbandonò. Due giorni dopo il nostro arrivo lasciammo Mostar e il suo
ponte affollato dallo sradicamento che l'industria turistica sa compiere. Da
quella cittadina a Sarajevo si percorre una strada che s'incunea tra le
montagne e che costeggia sempre la Neretva. Una strada sinuosa accompagnata
dalle acque fredde di un blu intenso. Sarajevo è la, in mezzo alle montagne, in
una piana a 550 metri sul livello del mare.