Riprendendo il discorso interrotto, si ribadisce che quanto avviene in
natura ha valore di verità per il pastore. Coniando ἀληθής: vero,
sincero, equo, giusto, il pastore greco si avvale di
questa perifrasi: dallo sciogliere dal generare il crescere (ad indicare
l’accentuazione del grembo a causa del flusso gravidico), si genera il mancare
(come processo di formazione). Da questo enigmatico giro di parole dedusse gli
aggettivi sopra riportati, in quanto riscontrava che, nel processo di
formazione dell’essere, l’affermazione era vera. Anche i latini,
coniando l’aggettivo verus, vera, verum, dissero che è vera
la seguente affermazione: durante i nove mesi, la creatura resta legata alla
madre. Poi trasformarono in sostantivo il neutro verum, che tradussero: il
vero/la verità, così come da bonus ricavarono bonum: il
bene. Il pastore
greco s’inventa io so,coniando οῖδα: si
genera quello che ho dal mancare, che corrisponde al tempo aoristo,
che prescinde dai limiti del tempo: presente, imperfetto come
azione passata che è durata nel tempo, passato, come fatto
compiuto/perfetto, futuroche è ciò che manca, ma che
necessariamente deve nascere per come prestabilito, in quanto in natura
ogni mancare non solo è necessario, ma non può non essere. Il pastore,
in realtà, aveva asserito: ho una conoscenza che vale sempre, senza
limiti di tempo: ciò che è in natura si forma attraverso il
mancare/divenire: οῖδα: questo io so. Infatti, ὁρίζωsignificò: stabilisco
confini spaziali, che, poi, divennero anche quelli temporali. L’alfa
privativa, poi, anteposta all’aggettivo verbale di ὁρίζω, generò aoristo, che è ciò che non ha avuto confini di tempo,
quindi: prescinde dal tempo.
Definì σοφός: sapiente, colui che, nascendo il mancare (σοφ), si adopera a faticare (alla lettera ος si deve
rendere: lega). Con dei generativi logici, da σοφός dedusse σοφία, quindi: filosofo e filosofia. Anche
i latini si avvalsero, perlopiù, degli stessi simboli linguistici dei greci.
Quando elaborarono: scio (alla greca: σχίω) dissero: genera (ι) il passare (χ) il
mancare (delta assibilato in: σ): questo io so. Da scio dedussero sciente
(colui che possiede le conoscenze vere) e da sciente ricavarono scienza,
in quanto quel mancare, che è il divenire dell’essere, è stabilito ed è sempre
lo stesso. Quando ricavarono sapiente/ sapienza da sapio, dissero:
è colui chefadal mancare il generare. Il pastore
greco, come ho già detto, da (déo) δέω (è ciò che
si genera dal mancare) dedusse: manco, sono privo, mentre con δέομαι, che esprime il suo punto di vista, aveva, prima, ricavato: ho
bisogno, per cui il mancare è anche la molla che genera il tutto.
Con l’impersonale (dei) δεῖ aveva dedotto: bisogna, è necessario,
mentre con il neutro (deòn deontos) δεόνδεόντος(l’ho dentro
dal mancare, è ciò che faccio legando il tendere) ricavò i deverbali: bisogno,
necessità, obbligo, dovere, in quanto mutuò dal grembo questo
concetto: mentre la creatura manca, viene legata alla madre. Il legame con la
madre determina il fare per realizzare ciò che manca. Per il pastore
faticare per sopperire alle necessità diventa dovere, compito
deontologico. Anche con ἐθικός: abituale, consueto aveva fatto
riferimento alla dura fatica quotidiana. Questo aggettivo fu dedotto da ἔθοςἔθους: uso, abitudine, costume, che non solo è
abito/costume, ma costume di vita. Infatti, la perifrasi suona così: dal
crescere avviene il legame che genera il mancare come nascita: questo è quello
che avviene nel grembo.
I latini
coniarono mos moris: costume, usanza, abitudine,
avvalendosi di questa perifrasi: dal rimanere il crescere (come flusso
gravidico) va a scorrere il legare (come fatica abitudinaria per vincere
l’impellente necessità, così come per abitudine si porta il costume). Nasce la
filosofia morale! Filosofia che si sostanzia dell’obficium/officium,
come attività del pastore, vissuta come dovere, come obbligo morale. Il pastore
latino da facio, che è la metafora della realizzazione della creatura,
dedusse: de-ficio: manco, vengo meno, cesso, tramonto,
in quanto il verbo rimanda al venir meno del grembo: venir meno per stanchezza,
per tradimento (defezione), o per cessazione dell’opera, a causa della nascita.
Si tratta, quindi, di un altro mancare, non propriamente quello dei
greci. Infatti, il mancare come processo si riscontra in sum (manco,
quando nasco, avendo, per divenire, acquisito quanto prestabilito), in nec-esse,
che contestualizza il periodo della permanenza in grembo di colui che diviene,
di ciò che diviene. Il pastore
italico definisce che cos’è il mancare (da scrivere alla greca μαγχάω, come espansione logica di μαγ, radice di μάσσω): dal
rimanere il generare, è ciò che si genera dal passare, che, in modo
più chiaro, si può rendere: durante i nove mesi, mentre la creatura diviene, acquisisce
tutto quello che le manca. Anche per gli italici la perfezione si raggiunge
quando nulla manca, altrimenti: si è mancanti di. Quando il
pastore greco definisce χρόνος, si avvale
di questa perifrasi: è ciò che si riscontra dentro lo scorrere il passare,
mentre l’essere manca (diviene): ci vuole il tempo stabilito. Il pastore
latino, prima di elaborare fides e i verbi: fido, confido,
diffido, affido,quindi: diffidente ecc., pensa a fid-us,
mutuando il tutto da ciò che avviene nel grembo. Con la radice fid, il
pastore pensa; va a nascere il mancare, mentre con us dice: c’è uno
che lega. Per indicare una persona fedele, che non abbandona nel bisogno,
su cui si può sempre contare, il pastore latino si avvale di una metafora del
grembo: nel bisogno, quando la crescita smodata è incontenibile, la madre, veramente
fedele, lega a sé il figlio.
Il pastore
greco capisce che il mondo animale e quello vegetale sono necessari e indispensabili
nella sua vita, ma si rende conto che quei processi non possono non essere,
devono essere, in quanto tutto è preordinato. Sorge nella sua mente l’ἀνάγκη: necessità,
costrizione, legge di natura, forza maggiore, che, poi,
diventa Ἀνάγκη: Destino,
Fato. L’ἀνάγκη(ananche),
come estrema necessità, serve a giustificare la durezza della sua condizione di
vita. Per realizzare la creatura, è necessario che la crescita disordinata e
caotica del flusso spermatico si leghi alla madre per conseguire la creazione
dell’agnellino, essenziale per la sua esistenza. Il grembo materno, quindi,
diventa una metafora della vita dell’uomo. La creazione dell’agnellino diventa
metafora del fare, in funzione di una realizzazione, in condizioni dure e
penose per l’agnellino, condizioni di vita come quelle del pastore, che,
infaticabilmente e sotto ogni clima, deve portare al pascolo il suo gregge. Perché
l’agnellino si formi, sono necessari, all’incirca, 152 giorni, tempo fisso e
immutabile, come fisso e immutabile è ogni stadio del suo divenire. Da qui
sorge l’idea del determinismo meccanicistico, di leggi ferree e immutabili che
regolano la vita del cosmo e degli uomini. Pertanto, l’ἀνάγκη diventa Ἀνάγκη: Destino, Fato. Le leggi prestabilite e la
regolarità/necessarietà dei processi di formazione dell’agnellino diventano
(moira) μοῖρα/fatum. Parola molto simile a ἀνάγκη è χρεώχρεῦος: bisogno, necessità che
contestualizza, parimenti, la permanenza nel grembo per il periodo stabilito,
concetto espresso anche dal verbo impersonale (cre) χρή(la cui
perifrasi è: dal generare il passare dello scorrere): è necessario,
si deve e dal sostantivo neutro: (creon) χρέων: necessità, fato.
Inoltre, il
processo formativo dell’essere rispetta sempre le sequenze, per cui quello che
avverrà nel grembo deve necessariamente avvenire. Da (lyo) λύω: sciolgo, i greci pensarono a (lytéos) λυτέος, aggettivo verbale II, con il significato di: si deve sciogliere,
in quanto in natura ciò che è in formazione deve nascere, mentre i latini da solvo,con lo stesso processo logico, parimenti, dissero: solvendus: si
deve sciogliere/non può non sciogliersi. I greci,
inoltre, per esprimere il futuro (quello che avverrà), si avvalsero di un sigma
con il significato di mancare, per cui da λυ-ω (io sciolgo)
formularono λυ-σω
(scioglierò), in quanto il futuro è il risultato di un divenire, prestabilito,
e, quindi, di ciò che nascerà, trattandosi di un mancare necessario e
ineluttabile. Mi piace ricordare che, nei dialetti dei territori della
Magna-Grecia, il futuro, così come si forma in italiano, non c’è; infatti, per
dire: mangerò, si usa l’espressione: aggia mangià (devo
mangiare), perché nei processi formativi tutto è prestabilito, per cui il
futuro si attualizza come accadimento necessario. Anche questo è cultura
filosofica del pastore! Voglio
puntualizzare che φύω: nasco dei
greci, non è proprio lo stesso fuo, a cui i latini attribuirono il
significato di: essere, per cui si deve pensare che dev’essere scritto
secondo la maniera greca: φουω, da
tradurre: è ciò che consegue dal nascere. Si deve anche pensare che futurus,
colui che sta per essere, e futurum, ciò che nascerà,
devono essere scritti con grafia greca: φουθουρος/φουθουρομ, le cui perifrasi suonano così: quando nasce l’abbozzo del grembo,
durante la gestazione, avviene il mancare come divenire (futuro) e/o come
imminenza della nascita.
I latini, per
esprimere il participio passato, si avvalsero di us con il significato
di mancare, per indicare ciò che è passato. Pertanto, in chi ama si
genera (dal crescere il mancare), dal punto di vista temporale, colui
che ha amato/colui che è stato amato (amatus). Poi, molti nomi della
quarta declinazione, in latino, furono dedotti dai participi passati, per cui
in colei che ha partorito, in latino parta, si genera il parto (partus
partus), in chi è stato osservato (aspectus) si deduce l’aspetto (da aspicio),
da deficio/defectum (manco/ mancato) fu ricavato defectus
defectus: il difetto, in chi/in ciò che è stato sentito
(sentio/sensum) si dedussero i sensi ecc. C’è da
aggiungere che tutta la mitologia si originò dal tentativo dei greci di dare
spiegazione all’origine della creazione, per cui si avvalsero di osservazioni
attente dei processi di formazione del mondo animale e vegetale. La Teogonia/
Cosmogonia di Esiodo ha come modelli il grembo materno e la terra: il mondo
anche delle tenebre e della luce. Per Esiodo l’inseminazione ha bisogno del caos
con la minuscola e con la maiuscola. Il caos (in greco: χάοςχάους), la cui perifrasi si può rendere così: genera il
passare il legare, dall’ho il mancare, che è il vuoto/l’abisso del
grembo, che accoglie il mancare del seme cui consegue la crescita disordinata
e confusa (τυρβή). Il grembo,
pertanto, è il mondo della notte e delle tenebre, che prefigura l’Erebo
dei greci e gli Inferi dei latini; questi ultimi furono dedotti (come metafora
di una realtà di cui avevano un minimo di conoscenza) da fero, che è,
propriamente, il portare in grembo. Inoltre, greci e latini
considerarono sacro e inviolabile il grembo materno, per cui ναός, templum, fanum rappresentano luoghi in cui alberga la
divinità e sono, pertanto, metafore del grembo.
La parola κόσμος: ordine, buon ordine, onore, gloria, cosmo,
mondo, terra è parimenti metafora del grembo, in quanto si
traduce: dal generare il legare (come creazione di tutto e come ordine
sequenziale) nasce/viene creato ciò che rimane. Pertanto, dal caos si
genera, legando, il cosmo, che è cielo e terra e, quindi, anche
il regno della luce. Per i greci il cielo fu denominato etere,
dedotto, da αἴθω: accendo,
ardo, brucio, mentre la terra divenne γῆγῆς: che è colei che genera legando. Inoltre, il
pastore greco fa sorprendenti deduzioni, da (fyo) φύω: nasco genera il deverbale (da scrivere senza assibilazioni: φυθιδφυθεωδ) φύσιςφύσεωςcon tante
valenze di significato: natura, qualità costitutive, temperamento,
indole, disposizione naturale, struttura fisica, taglia,
nascita, generazione/stirpe. La deduzione più logica sarebbe
stata: nascita e, invece, si avvalora il concetto di processo, sì,
sempre uguale, ma spontaneo ed automatico, con caratteristiche proprie che
connotano ogni essere, anche della stessa specie. Da φύσιςfu dedotto
l’aggettivo fis-ico, con il significato di: naturale, innato,
congenito, ma anche ad indicare chi/ciò che studia la natura. Anche
i latini seguirono lo stesso processo logico: nascor/natus/nat-ura/nat-uralis,
ad indicare, se ce ne fosse ancora bisogno, che la cultura agro-pastorale dei
greci e quella dei latini è la stessa, se i processi formativi della lingua
sono comuni.