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mercoledì 10 gennaio 2024

PATRIARCATO, UNA DEFINIZIONE NECESSARIA           
di Gabriella Galzio


Ho provato profonda gratitudine verso Silvia Vegetti Finzi per aver scritto un magnifico articolo “La parola pace. Al femminile” (Corriere della Sera, 5 gennaio 2024) che illumina la maternità in tutta la sua ampiezza evidenziandone l’intimo orientamento alla pace. E le sono grata per aver concluso il suo articolo con una mia preghiera in versi alla madre (archetipica), avendone colto sin da subito il senso profondo che a questo abbraccio universale della maternità mi riconnette. Ed è in questo spirito materno e pacifico che mi siedo a scrivere per affrontare una materia tanto vasta e complessa, quanto sfuggente, su cui mi è stato chiesto di esprimermi: il patriarcato. In questo recente dibattito massmediatico ho ascoltato le più varie affermazioni, di cui riporto a memoria alcuni brandelli: “Non vedo patriarcato, ma maschilismo” (Marco Travaglio), “Il patriarcato è finito duecento anni fa” (Massimo Cacciari), “Il patriarcato è finito cinquanta anni fa” (Diego Fusaro), “Non sono nata in una famiglia patriarcale” (Antonella Viola) e così via. Ora, però, nella loro sarabanda, tutte queste opinioni avevano in comune una caratteristica per me stupefacente: l’assenza di una definizione di patriarcato. Ovvero l’assenza di un approccio metodologico in una materia che è pur sempre oggetto di scienze umane (come la sociologia, l’antropologia, la psicologia…). Col risultato che in questa parola-recipiente poteva esservi riversata la qualunque proiezione dei propri fantasmi o desideri, fino a farne un vaso di Pandora (traboccante di ogni male, nella versione classica del mito, prodigo di ogni ricchezza, nella versione preclassica). Ora, tentare di tracciare una definizione di patriarcato, è impresa ardua, ma forse vale la pena di tentarla, per cercare di offrire un punto di partenza per una riflessione comune. Va da sé che non sono l’oracolo di Delfi e che la mia è solo un’ipotesi di lavoro per quanti desiderino avviare un’analisi intellettualmente onesta tenendo a bada i propri demoni. E dirò subito che il patriarcato ben lungi dal ridursi a una mera mentalità, ossia a una questione culturale, costituisce una vera e propria forma di civiltà. Nella quale dunque abitiamo tutti, uomini e donne, consenzienti e dissenzienti.


Rifacendomi al lavoro di ricerca di Heide Göttner-Abendroth uscito di recente (2023) per le edizioni Mimesis (Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato), ho provato a risalire alle origini di questa forma di civiltà che, a seconda delle diverse aree geografiche in cui si è manifestata, è nata a partire dall’età del bronzo (dai 4000 ai 5000 anni fa). La storica delle civiltà distingue tre grandi periodi: un primo patriarcato dei re guerrieri, un patriarcato classico, ovvero quello degli “imperi mondiali” militari (vedi quello romano), e un patriarcato moderno o patriarcato capitalistico, laddove quest’ultimo affianca alle armi il danaro. Fondamentalmente nasce e rimane una civiltà fondata sul dominio (anche nelle democrazie formali). Non solo come dominio sulle donne, ma anche come dominio sulla maggioranza degli uomini, sulle popolazioni straniere e sulla natura. Vero è che sin dal primo patriarcato, abbiamo una combinazione di guerra, istaurazione di gruppi di comando e dominio, proprietà privata del bestiame, dominio sulle donne e sulle culture sottomesse, associata alla superiorità delle divinità maschili del cielo e della guerra. Più precisamente - avvalendoci di un’analisi strutturale a livello economico, sociale, culturale e religioso - queste culture guerriere scavalcarono le precedenti regole comunitarie e diedero l’avvio alla proprietà privata; sostituirono la preesistente forma sociale ugualitaria con una società gerarchica; e anche le donne divennero una proprietà degli uomini al potere, che aveva lo scopo di generare i loro figli legittimi, che ne avrebbero poi ereditato i beni. Pertanto, le mogli dovevano osservare una rigida monogamia, da cui si sviluppò la società patrilineare e patrilocale, con la conseguente nascita del diritto paterno che sanciva il potere di vita e di morte su donne e bambini. A livello culturale e religioso, prevalse un dualismo gerarchico che derivava dal diritto del più forte. A ben vedere ciò dura fino ai giorni nostri, se anche la nascita del nostro diritto internazionale trae la sua legittimità dalla volontà egemone di quelle che allora erano le grandi potenze, il ché spiega anche perché oggi esso venga così platealmente calpestato (cfr. Perry Anderson, “La vera storia del diritto internazionale”, in “Limes” n. 10/2023). Dunque, dualismo dei sessi e dualismo economico (l’agricoltura “inferiore” alle donne, l’allevamento e la guerra “nobile” agli uomini). Così la stessa gerarchia duale si manifesta anche nelle divinità, dove padri divini del cielo e dei della guerra prendono il sopravvento sulle dee depositarie dei misteri della vita e della morte considerati ormai residuali.
 


Ma se questo riguarda le origini, e il patriarcato in quanto forma di civiltà attraversa storicamente diverse fasi evolutive, oggi, a valle di questi 4000-5000 anni di storia, con quale volto si presenta? Tentiamo anche qui un’analisi strutturale sia pur sommaria. A livello economico siamo entrati nella fase della globalizzazione turboliberista (dove Cina e USA si contendono il mercato delle auto elettriche e l’UE perde terreno); a livello sociale, nasciamo ancora nella famiglia patriarcale monogamica (un costrutto storico-antropologico in crisi che pure viene detto “naturale”); a livello politico siamo contesi tra democrazie sempre meno rappresentative e autocrazie sempre più arroganti (altro che nuovo Rinascimento, piuttosto un nuovo Medioevo); a livello religioso e culturale, sono dominanti le religioni monoteistiche abramitiche, nelle forme più reazionarie (vedi l’Iran) o regressive (in alcuni paesi europei). In sintesi, centinaia di miliardi spesi in armamenti, una settantina di conflitti sparsi per il mondo, per tenere in piedi una civiltà che nasce guerriera e rischia di perire del suo stesso Armageddon. E qui vorrei fare un inciso: se è ormai più che evidente che nella società patriarcale le donne sono state concepite come subalterne, confinate al ruolo di dispensatrici di piacere o di figli, ciò che dovrebbe essere altrettanto evidente è che gli uomini sono stati ridotti a schiavi, forza lavoro da sfruttare, o a carne da macello per la guerra. E allora perché gli uomini non sentono l’urgenza di uscirne? Perché non chiamano questa civiltà con il suo nome? Perché non colgono l’intreccio sistemico che esiste tra dimensione economica, sociale, politica e religiosa? Perché i più illuminati combattono il capitalismo e il fascismo, ma si tengono stretta la famiglia e la teologia patriarcale? Perché hanno una visione dimidiata? E perché ormai anche tante donne patriarcalizzate (ovvero che hanno introiettato valori di dominio) si danno all’arrampicata? C’è una perdita secca di pensiero critico, ma soprattutto è venuta meno una visione d’insieme, antropologica, di civiltà. C’è bisogno di donne che abbiano mantenuto un contatto profondo col materno e di uomini sensibili che abbiano conservato il materno dentro di sé per ripensare l’intero, perché per uscire dalla guerra bisogna uscire dal dominio, in tutte le sue forme.