Dalla
lettura del nuovo libro di Velio Abati, La
memoria delle piante (Manni, 2023), emerge una postura narrativa che
rimanda senz’altro al suo precedente romanzo storico del 2013, intitolato Domani (Manni): il linguaggio, le cesure
spaziali e temporali, i referenti sociali ed altro ancora. Come lì, anche qui
uno degli elementi di forza della narrazione è la coralità. Però – ed ecco la
principale differenza –, mentre in Domani,
sotto il profilo narratologico, si adottava un punto di vista diffuso e
collettivo, che partiva dal basso e si spostava in ragione dei personaggi e
degli ambienti, in La memoria delle
piante la scelta è diventata quella di un io narrante – che può essere
maschile o femminile e variare secondo i tempi e i luoghi – che si fa carico in
prima persona della storia degli sfruttati e degli oppressi di ogni epoca (dall’antichità
al tempo presente), in un movimento di immersione e riemersione che sembra
voler cercare, e laddove necessario ricucire, la fitta rete di legami e
connessioni (a cui allude il titolo per sottolinearne la solidità e la
pervasività) che si dipanano nel corso del tempo in un processo ricorrente di
presa di consapevolezza di sé da parte dei subalterni. Dopo
il carattere fortemente sperimentale di Domani,
si potrebbe pensare ad una sorta di iniziale ritorno all’ordine, ma non credo
sia così, anzi penso che Abati voglia proseguire la sua sperimentazione,
cercando nuove ed originali soluzioni narrative. Per capire meglio questo
passaggio dobbiamo tener presente il più recente volume di prose (racconti,
ritratti di personaggi, riflessioni di tipo saggistico) pubblicato dall’autore
nel 2020 e intitolato Fughe (Manni), dove,
per motivi legati alla particolare tipologia dei testi e delle circostanze
della loro scrittura, l’impianto narratologico aveva un’impronta più
tradizionale. La memoria delle piante
vuole, quindi, provare a guadagnare una nuova consapevolezza del punto di vista
narrativo, facendo una sintesi tra diverse forme del raccontare che consiste
nel mettere insieme, questa volta, un io narrante ed una narrazione collettiva.
Anche qui, come già in Domani, si richiede sempre, comunque,
una partecipazione attenta del lettore, chiamato a muoversi incessantemente tra
il cambio delle prospettive di osservazione e dei narratori, secondo un procedere
in cui la mancanza di cesure tra scene diverse e differenti livelli temporali
diventa una delle cifre stilistiche dell’autore, che è segno, però, non solo di
una scelta estetica, ma, soprattutto, di un’intenzione marcatamente etica e
pedagogica: chi legge deve sempre sorvegliare l’atto della lettura e deve
mutare costantemente il punto in cui collocarsi, perché chiamato di continuo a
prendere una posizione morale. Ma
chi è il protagonista di questa nuova modalità narrativa? Si tratta di un
protagonista collettivo: le classi subalterne, in prevalenza rurali, che fin
dalla notte dei tempi sono state sfruttate e umiliate, ma che non si sono mai
arrese e, attraverso i fili della memoria, hanno provato a prendere, via via,
coscienza di sé. I motivi di tale scelta – l’autore ha avuto modo di
ricordarcelo in tutta la sua produzione precedente – sono di natura
ideologico-culturale e poi, soprattutto per quel che riguarda il legame
viscerale con il mondo della campagna, biografici. Della
storia e della memoria di queste classi subalterne, come già osservato, si
occupa il narratore, che si assume la responsabilità, non senza una qualche
intrinseca contraddittorietà, di parlare per conto di chi non lo può fare.
Tuttavia, l’esigenza di salvare la memoria va oltre l’urgenza, abbastanza
scontata, di resistere all’eterno presente in cui siamo costretti a vivere e
punta, invece, in modo più sostanziale, alla realizzazione di legami profondi e
condivisi, costruiti sul riconoscimento di un fondamento comune e sulla
conseguente necessità della trasmissione intergenerazionale delle esperienze
passate, secondo una logica chiaramente pedagogica.
Anche in questo romanzo,
pertanto, ricompare uno dei leitmotiv
di tutta l’opera letteraria di Velio Abati, l’idea della continuità tra le
generazioni. In molti dei personaggi raccontati nelle prose di Fughe emergeva, per precise ragioni
storico-biografiche, un insistito e reiterato tentativo di rompere radicalmente
con la generazione dei padri e dei nonni per riuscire meglio a definirsi
compiutamente nella propria autonomia. L’esito, ad ogni buon conto, risultava
essere quello negativo dell’inautenticità e della sconfitta, che, al di là
della peculiare congiuntura storico-politica, diventava esistenziale. Per Abati
– e La memoria delle piante lo
riconferma – anche le rotture generazionali apparentemente più dure e radicali
si ricompongono nei tempi lunghi della storia e nei percorsi carsici della
memoria che creano un insieme di relazioni e di corrispondenze, che potremmo
definire antropologico, capace di riassorbire le contingenze storiche. Infine,
un’ultima considerazione sulla lingua. Nella prosa intensa e complessa del
libro osserviamo una molteplicità di stili e di registri linguistici (dal
lirico all’epico, dal solenne al popolare) che risulta funzionale alla varietà
dei personaggi e delle situazioni spaziali e temporali. A prevalere è l’uso del
dialetto toscano che, fuori da ogni bozzettismo – ricorrendo, da un lato, alla
tradizione letteraria, in particolare la Commedia
dantesca, e, dall’altro, alla memoria orale familiare –, recupera parole,
espressioni, modi di dire arcaici che nella loro precisione ed essenzialità,
insieme anche ad altre scelte espressive più o meno tradizionali o
sperimentali, non fanno altro che assecondare, sul piano linguistico, il lavoro
di scavo più ampio condotto intorno alla memoria delle classi subalterne.