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lunedì 5 febbraio 2024

LA MEMORIA DELLE PIANTE
di Walter Lorenzoni
 

Dalla lettura del nuovo libro di Velio Abati, La memoria delle piante (Manni, 2023), emerge una postura narrativa che rimanda senz’altro al suo precedente romanzo storico del 2013, intitolato Domani (Manni): il linguaggio, le cesure spaziali e temporali, i referenti sociali ed altro ancora. Come lì, anche qui uno degli elementi di forza della narrazione è la coralità. Però – ed ecco la principale differenza –, mentre in Domani, sotto il profilo narratologico, si adottava un punto di vista diffuso e collettivo, che partiva dal basso e si spostava in ragione dei personaggi e degli ambienti, in La memoria delle piante la scelta è diventata quella di un io narrante – che può essere maschile o femminile e variare secondo i tempi e i luoghi – che si fa carico in prima persona della storia degli sfruttati e degli oppressi di ogni epoca (dall’antichità al tempo presente), in un movimento di immersione e riemersione che sembra voler cercare, e laddove necessario ricucire, la fitta rete di legami e connessioni (a cui allude il titolo per sottolinearne la solidità e la pervasività) che si dipanano nel corso del tempo in un processo ricorrente di presa di consapevolezza di sé da parte dei subalterni.
Dopo il carattere fortemente sperimentale di Domani, si potrebbe pensare ad una sorta di iniziale ritorno all’ordine, ma non credo sia così, anzi penso che Abati voglia proseguire la sua sperimentazione, cercando nuove ed originali soluzioni narrative. Per capire meglio questo passaggio dobbiamo tener presente il più recente volume di prose (racconti, ritratti di personaggi, riflessioni di tipo saggistico) pubblicato dall’autore nel 2020 e intitolato Fughe (Manni), dove, per motivi legati alla particolare tipologia dei testi e delle circostanze della loro scrittura, l’impianto narratologico aveva un’impronta più tradizionale. La memoria delle piante vuole, quindi, provare a guadagnare una nuova consapevolezza del punto di vista narrativo, facendo una sintesi tra diverse forme del raccontare che consiste nel mettere insieme, questa volta, un io narrante ed una narrazione collettiva.


 
Anche qui, come già in Domani, si richiede sempre, comunque, una partecipazione attenta del lettore, chiamato a muoversi incessantemente tra il cambio delle prospettive di osservazione e dei narratori, secondo un procedere in cui la mancanza di cesure tra scene diverse e differenti livelli temporali diventa una delle cifre stilistiche dell’autore, che è segno, però, non solo di una scelta estetica, ma, soprattutto, di un’intenzione marcatamente etica e pedagogica: chi legge deve sempre sorvegliare l’atto della lettura e deve mutare costantemente il punto in cui collocarsi, perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale.
Ma chi è il protagonista di questa nuova modalità narrativa? Si tratta di un protagonista collettivo: le classi subalterne, in prevalenza rurali, che fin dalla notte dei tempi sono state sfruttate e umiliate, ma che non si sono mai arrese e, attraverso i fili della memoria, hanno provato a prendere, via via, coscienza di sé. I motivi di tale scelta – l’autore ha avuto modo di ricordarcelo in tutta la sua produzione precedente – sono di natura ideologico-culturale e poi, soprattutto per quel che riguarda il legame viscerale con il mondo della campagna, biografici.
Della storia e della memoria di queste classi subalterne, come già osservato, si occupa il narratore, che si assume la responsabilità, non senza una qualche intrinseca contraddittorietà, di parlare per conto di chi non lo può fare. Tuttavia, l’esigenza di salvare la memoria va oltre l’urgenza, abbastanza scontata, di resistere all’eterno presente in cui siamo costretti a vivere e punta, invece, in modo più sostanziale, alla realizzazione di legami profondi e condivisi, costruiti sul riconoscimento di un fondamento comune e sulla conseguente necessità della trasmissione intergenerazionale delle esperienze passate, secondo una logica chiaramente pedagogica.


 
Anche in questo romanzo, pertanto, ricompare uno dei leitmotiv di tutta l’opera letteraria di Velio Abati, l’idea della continuità tra le generazioni. In molti dei personaggi raccontati nelle prose di Fughe emergeva, per precise ragioni storico-biografiche, un insistito e reiterato tentativo di rompere radicalmente con la generazione dei padri e dei nonni per riuscire meglio a definirsi compiutamente nella propria autonomia. L’esito, ad ogni buon conto, risultava essere quello negativo dell’inautenticità e della sconfitta, che, al di là della peculiare congiuntura storico-politica, diventava esistenziale. Per Abati – e La memoria delle piante lo riconferma – anche le rotture generazionali apparentemente più dure e radicali si ricompongono nei tempi lunghi della storia e nei percorsi carsici della memoria che creano un insieme di relazioni e di corrispondenze, che potremmo definire antropologico, capace di riassorbire le contingenze storiche.
Infine, un’ultima considerazione sulla lingua. Nella prosa intensa e complessa del libro osserviamo una molteplicità di stili e di registri linguistici (dal lirico all’epico, dal solenne al popolare) che risulta funzionale alla varietà dei personaggi e delle situazioni spaziali e temporali. A prevalere è l’uso del dialetto toscano che, fuori da ogni bozzettismo – ricorrendo, da un lato, alla tradizione letteraria, in particolare la Commedia dantesca, e, dall’altro, alla memoria orale familiare –, recupera parole, espressioni, modi di dire arcaici che nella loro precisione ed essenzialità, insieme anche ad altre scelte espressive più o meno tradizionali o sperimentali, non fanno altro che assecondare, sul piano linguistico, il lavoro di scavo più ampio condotto intorno alla memoria delle classi subalterne.