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giovedì 15 febbraio 2024

LA NATURA, LA COLLETTIVITÀ, LA PAROLA
di Pietro Civitareale


                 
Qualche tempo fa Papa Francesco, rivolgendosi ai fedeli presenti in piazza San Pietro, ha affrontato il tema dell'inquinamento terrestre e della degradazione ambientale, invitando tutti, capi di stato e comuni cittadini, ad avere un maggior rispetto della natura e delle cose con cui siamo quotidianamente in contatto. Tema già affrontato da altri, numerose volte, senza pervenire ad una soluzione; e non solo nella nostra epoca, ma anche in passato, in un passato persino remoto se già San Francesco d’Assisi (del quale, coincidenza non casuale, il Pontefice ha assunto il nome) aveva cantato la bellezza del creato e delle sue creature, ponendo implicitamente il tema della contemplazione e del rispetto delle cose del mondo. Ma l’uomo, come sempre, chiuso nel suo desiderio di possesso della realtà, ha fatto finta di niente, perdendo, in tal modo, il senso della totalità dell’essere e del fatto che egli stesso è parte di questa totalità e dimenticando che, comportandosi così come si comporta, corre il rischio di precludersi la possibilità di un futuro.
In un remoto passato i cambiamenti ambientali e biologici, connessi alla evoluzione e ai cicli astronomici, erano lentissimi. Poi è venuto l’uomo e, con la sua capacità di modificare il mondo attraverso gli strumenti della tecnica, tali cambiamenti sono diventati più rapidi. Oggi egli è in grado di sconvolgere il volto del pianeta più di quanto facciano i vulcani e i venti messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo delle acque e di produrre, nell’atmosfera, l’aumento più marcato della quantità di gas serra degli ultimi quindici milioni di anni. Homo sapiens sapiens è arrivato sul pianeta e lo ha marcato bene. Primo classificato nella corsa evoluzionistica, mammifero con un cervello superdotato, industrioso e con il pollice opponibile, sta devastando la natura e quant'altro lo circonda; e, a mano a mano che gli habitat si restringono, le altre specie declinano, costrette a vivere in ambiti sempre più ridotti, fino a precipitare nella lista delle specie in estinzione. E, disinvolto ed egocentrico com’è, non ha ancora capito (o fa finta di non capire) ciò che sta facendo, ma i suoi discendenti, con un tempo infinitamente lungo per riflettere, lo capiranno fin troppo bene quando magari sarà troppo tardi.


 
Stando così le cose, si rende necessario un totale cambiamento di prospettiva e di atteggiamento etico e culturale. Cosa non facile, date le premesse. È evidente, infatti, che non la pensiamo tutti allo stesso modo, che ognuno di noi agisce in base alle proprie necessità, alle proprie conoscenze e soprattutto alle proprie convinzioni. Tuttavia, stiamo attraversando un momento storico in cui ognuno deve sentire l'obbligo di uniformare la propria condotta al raggiungimento di obiettivi comuni. Del resto, non apparteniamo tutti alla stessa specie? Non respiriamo tutti la stessa aria? Non corriamo tutti lo stesso pericolo? Inoltre, non si va mai avanti da soli; il progresso, i cambiamenti riguardano tutti. Non i singoli paesi, non le singole nazioni, non i singoli individui, ma l’umanità nel suo complesso. L’uomo deve agire, e agire in un determinato modo, perché il suo destino individuale fa parte del destino universale. Che provi l’ebbrezza di erigersi a punto culminante dell’universo è una tentazione naturale e sotto certi aspetti necessaria. Tuttavia, egli rimane assoggettato alle leggi della collettività. Senza la collettività, l’individualità non è sufficiente per la vita, perché è la collettività che porta con sé i segni del futuro. Ce lo insegnano gli stessi animali, smentendo la nostra pretesa superiorità nell'ordine naturale delle specie viventi. Vi sono certi scoiattoli, ad esempio, che vivono in gruppi e, per guardarsi dai predatori, uno di loro agisce come guardiano. Se ne avvista qualcuno, dà l’allarme ai suoi compagni che si nascondono, ma così facendo egli rischia di perdere la vita. Non è questo un chiaro esempio di come l’azione del singolo sia subordinata alla sopravvivenza della comunità e forse anche di tutta la specie? Insomma, la salvaguardia della totalità ha la precedenza su quella del singolo. Bisogna credere dunque nell’umanità, oltre che in sé stessi, se non si vuole disperare.



Si sa benissimo che esistono nell’opinione pubblica, e tra gli stessi addetti ai lavori, delle minoranze che non credono che l’azione umana possa, allo stato attuale delle cose, costituire una minaccia per la salute del Terra. Oggi, ma domani? Sarà l’uomo in grado di agire in modo da non alterare gli equilibri dell’ambiente in cui vive? Sarà così saggio da non pretendere troppo dalla realtà naturale che lo circonda? In ogni caso, non sarebbe meglio intervenire ora, finché si è in tempo, piuttosto che farlo quando magari è troppo tardi? L’aumento dei gas nocivi nell’aria, il depauperamento dei boschi, l’inquinamento delle acque, l’estinzione di diverse specie di animali e altri crimini perpetrati per avidità, ignoranza o incuria, sono sotto gli occhi di tutti; e non si può essere così ingenui o ipocriti da pensare che tali fenomeni siano reversibili senza un adeguato intervento.   
Il senso estetico e quello morale sono strettamente collegati. Sia la bellezza della natura che quella dell’ambiente culturale creato dall’uomo sono necessarie per mantenere l’uomo fisicamente e spiritualmente sano. La cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che nella nostra epoca dilaga ovunque, costituisce una sorta di malattia mentale che non va sottovalutata, se non altro perché va di pari passo con l’insensibilità verso ciò che è moralmente condannabile. Ciò nonostante le istituzioni politiche ad ogni livello sono d’accordo nel ritenere che non valga la pena di fare sacrifici economici e tanto meno politici per difendere la bellezza e la salute dell’ambiente in cui viviamo; e ciò è incomprensibile, anche tenendo conto degli enormi interessi in ballo, dell’avidità insaziabile dell’uomo, del suo egoismo e della sua cecità spirituale. Ma, c’è da chiedersi, cosa lascerà alle generazioni future? È un buon padre colui che lascia ai propri figli una casa disastrata, un ambiente disagevole o addirittura invivibile? Oppure ognuno pensa al proprio presente disinteressandosi allegramente di ciò che sarà domani? Si è fatta così precaria l’esistenza umana da prevalere in ognuno di noi un invincibile senso della fine, una totale mancanza di interesse per il futuro? Deve essere così perché mai come oggi, nella considerazione dell’uomo, la sacralità della morte è scesa ad un livello così basso.



Ricordo che una volta la morte era temuta, rispettata, se ne parlava con discrezione: esisteva un pudore della morte. Oggi la morte è diventata un bene di consumo come il pane, un vestito, un paio di scarpe. Ha una sua spettacolarità, un suo valore commerciale, è una fonte di guadagno. Tutti speculano su di essa: la scienza, i mass-media, gli stati, la politica, lo sport, ecc. È vero che la morte va guardata e sentita come parte della vita. Ma prenderla in simpatia, metterle un braccio sulle spalle come si fa con una cara amica, mi sembra troppo. È pura incoscienza o pura disperazione.
Di fronte a ciò, di fronte alla diserzione delle istituzioni e alla indifferenza di chi è preposto alla salvaguardia dell'ambiente, deve sentirsi obbligato ad agire colui che non ha alcun potere; e utilizzando l’unico strumento di lotta a sua disposizione: cioè la parola. Riconosco che le parole non hanno mai fermato la mano di chi vuole colpire, di chi vuole sopraffare, corrompere, distruggere. Tuttavia, non si può tacere. Lo dobbiamo a tutti coloro che soffrono ingiustamente e lo dobbiamo anche a noi stessi, se vogliamo continuare ad avere il coraggio di vivere. Senza contare che tacendo diventiamo moralmente complici di coloro che sono inadempienti o praticano l’ingiustizia come norma di vita.                                                  
 
[Firenze, Febbraio 2024]