LA NATURA, LA COLLETTIVITÀ, LA PAROLA di
Pietro Civitareale
Qualche
tempo fa Papa Francesco, rivolgendosi ai fedeli presenti in piazza San Pietro,
ha affrontato il tema dell'inquinamento terrestre e della degradazione ambientale,
invitando tutti, capi di stato e comuni cittadini, ad avere un maggior rispetto
della natura e delle cose con cui siamo quotidianamente in contatto. Tema già
affrontato da altri, numerose volte, senza pervenire ad una soluzione; e non
solo nella nostra epoca, ma anche in passato, in un passato persino remoto se
già San Francesco d’Assisi (del quale, coincidenza non casuale, il Pontefice ha
assunto il nome) aveva cantato la bellezza del creato e delle sue creature,
ponendo implicitamente il tema della contemplazione e del rispetto delle cose
del mondo. Ma l’uomo, come sempre, chiuso nel suo desiderio di possesso della
realtà, ha fatto finta di niente, perdendo, in tal modo, il senso della
totalità dell’essere e del fatto che egli stesso è parte di questa totalità e
dimenticando che, comportandosi così come si comporta, corre il rischio di
precludersi la possibilità di un futuro. In
un remoto passato i cambiamenti ambientali e biologici, connessi alla
evoluzione e ai cicli astronomici, erano lentissimi. Poi è venuto l’uomo e, con
la sua capacità di modificare il mondo attraverso gli strumenti della tecnica,
tali cambiamenti sono diventati più rapidi. Oggi egli è in grado di sconvolgere
il volto del pianeta più di quanto facciano i vulcani e i venti messi insieme,
di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo delle acque e di
produrre, nell’atmosfera, l’aumento più marcato della quantità di gas serra
degli ultimi quindici milioni di anni. Homo sapienssapiens è
arrivato sul pianeta e lo ha marcato bene. Primo classificato nella corsa
evoluzionistica, mammifero con un cervello superdotato, industrioso e con il
pollice opponibile, sta devastando la natura e quant'altro lo circonda; e, a
mano a mano che gli habitat si restringono, le altre specie declinano,
costrette a vivere in ambiti sempre più ridotti, fino a precipitare nella lista
delle specie in estinzione. E, disinvolto ed egocentrico com’è, non ha ancora
capito (o fa finta di non capire) ciò che sta facendo, ma i suoi discendenti,
con un tempo infinitamente lungo per riflettere, lo capiranno fin troppo bene
quando magari sarà troppo tardi.
Stando
così le cose, si rende necessario un totale cambiamento di prospettiva e di
atteggiamento etico e culturale. Cosa non facile, date le premesse. È evidente,
infatti, che non la pensiamo tutti allo stesso modo, che ognuno di noi agisce
in base alle proprie necessità, alle proprie conoscenze e soprattutto alle
proprie convinzioni. Tuttavia, stiamo attraversando un momento storico in cui
ognuno deve sentire l'obbligo di uniformare la propria condotta al
raggiungimento di obiettivi comuni. Del resto, non apparteniamo tutti alla
stessa specie? Non respiriamo tutti la stessa aria? Non corriamo tutti lo
stesso pericolo? Inoltre, non si va mai avanti da soli; il progresso, i
cambiamenti riguardano tutti. Non i singoli paesi, non le singole nazioni, non
i singoli individui, ma l’umanità nel suo complesso. L’uomo deve agire, e agire
in un determinato modo, perché il suo destino individuale fa parte del destino
universale. Che provi l’ebbrezza di erigersi a punto culminante dell’universo è
una tentazione naturale e sotto certi aspetti necessaria. Tuttavia, egli rimane
assoggettato alle leggi della collettività. Senza la collettività, l’individualità
non è sufficiente per la vita, perché è la collettività che porta con sé i
segni del futuro. Ce lo insegnano gli stessi animali, smentendo la nostra
pretesa superiorità nell'ordine naturale delle specie viventi. Vi sono certi
scoiattoli, ad esempio, che vivono in gruppi e, per guardarsi dai predatori,
uno di loro agisce come guardiano. Se ne avvista qualcuno, dà l’allarme ai suoi
compagni che si nascondono, ma così facendo egli rischia di perdere la vita.
Non è questo un chiaro esempio di come l’azione del singolo sia subordinata
alla sopravvivenza della comunità e forse anche di tutta la specie? Insomma, la
salvaguardia della totalità ha la precedenza su quella del singolo. Bisogna
credere dunque nell’umanità, oltre che in sé stessi, se non si vuole disperare.
Si
sa benissimo che esistono nell’opinione pubblica, e tra gli stessi addetti ai
lavori, delle minoranze che non credono che l’azione umana possa, allo stato
attuale delle cose, costituire una minaccia per la salute del Terra. Oggi, ma
domani? Sarà l’uomo in grado di agire in modo da non alterare gli equilibri
dell’ambiente in cui vive? Sarà così saggio da non pretendere troppo dalla
realtà naturale che lo circonda? In ogni caso, non sarebbe meglio intervenire
ora, finché si è in tempo, piuttosto che farlo quando magari è troppo tardi? L’aumento
dei gas nocivi nell’aria, il depauperamento dei boschi, l’inquinamento delle
acque, l’estinzione di diverse specie di animali e altri crimini perpetrati per
avidità, ignoranza o incuria, sono sotto gli occhi di tutti; e non si può
essere così ingenui o ipocriti da pensare che tali fenomeni siano reversibili
senza un adeguato intervento. Il
senso estetico e quello morale sono strettamente collegati. Sia la bellezza
della natura che quella dell’ambiente culturale creato dall’uomo sono
necessarie per mantenere l’uomo fisicamente e spiritualmente sano. La cecità
psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che nella nostra epoca
dilaga ovunque, costituisce una sorta di malattia mentale che non va sottovalutata,
se non altro perché va di pari passo con l’insensibilità verso ciò che è
moralmente condannabile. Ciò nonostante le istituzioni politiche ad ogni
livello sono d’accordo nel ritenere che non valga la pena di fare sacrifici
economici e tanto meno politici per difendere la bellezza e la salute
dell’ambiente in cui viviamo; e ciò è incomprensibile, anche tenendo conto
degli enormi interessi in ballo, dell’avidità insaziabile dell’uomo, del suo
egoismo e della sua cecità spirituale. Ma, c’è da chiedersi, cosa lascerà alle
generazioni future? È un buon padre colui che lascia ai propri figli una casa
disastrata, un ambiente disagevole o addirittura invivibile? Oppure ognuno
pensa al proprio presente disinteressandosi allegramente di ciò che sarà
domani? Si è fatta così precaria l’esistenza umana da prevalere in ognuno di
noi un invincibile senso della fine, una totale mancanza di interesse per il
futuro? Deve essere così perché mai come oggi, nella considerazione dell’uomo,
la sacralità della morte è scesa ad un livello così basso.
Ricordo
che una volta la morte era temuta, rispettata, se ne parlava con discrezione:
esisteva un pudore della morte. Oggi la morte è diventata un bene di consumo
come il pane, un vestito, un paio di scarpe. Ha una sua spettacolarità, un suo
valore commerciale, è una fonte di guadagno. Tutti speculano su di essa: la
scienza, i mass-media, gli stati, la politica, lo sport, ecc. È vero che la
morte va guardata e sentita come parte della vita. Ma prenderla in simpatia,
metterle un braccio sulle spalle come si fa con una cara amica, mi sembra
troppo. È pura incoscienza o pura disperazione. Di
fronte a ciò, di fronte alla diserzione delle istituzioni e alla indifferenza
di chi è preposto alla salvaguardia dell'ambiente, deve sentirsi obbligato ad
agire colui che non ha alcun potere; e utilizzando l’unico strumento di lotta a
sua disposizione: cioè la parola. Riconosco che le parole non hanno mai fermato
la mano di chi vuole colpire, di chi vuole sopraffare, corrompere, distruggere.
Tuttavia, non si può tacere. Lo dobbiamo a tutti coloro che soffrono
ingiustamente e lo dobbiamo anche a noi stessi, se vogliamo continuare ad avere
il coraggio di vivere. Senza contare che tacendo diventiamo moralmente complici
di coloro che sono inadempienti o praticano l’ingiustizia come norma di
vita. [Firenze,
Febbraio 2024]