CONTRO L’IMPERIALISMO DELLA PRECARIETÀ di
Pierpaolo Calonaci
Ossia
contro l’imperialismo della guerra. I
capitalisti sono mossi non dall’intento di produrre cose bensì da quello di
controllare persone, e la loro mega-macchina capitalistica esercita questo
potere con una efficienza, flessibilità e forza che gli antichi governanti non
potevano nemmeno immaginare. K.
H. Brodbeck La
violenza non è semplicemente la levatrice del capitalismo, il lato oscuro della
sua origine; è un meccanismo sempre all’opera, sempre presente come logica
intrinseca di questo modo di produzione e necessario all’accumulazione. M.
Turchetto, prefazione a: L’accumulazione del capitale di R. Luxemburg
A
Firenze, nel quartiere di Novoli, in un cantiere edile adibito alla
realizzazione dell'ennesimo supermercato, il 17 febbraio scorso cinque operai
sono stati uccisi. Uso questo verbo perché quando il lavoro è merce (il
fenomeno degli appalti prodotto da un sistema “nero” oramai incontrollato e incontrollabile
dei subappalti è la forma empirica di questa mega-macchina capitalistica) chi
lo compie diventa tale; chi lo organizza, lo promuove a livello giuridico,
istituzionale e economico a buon diritto occorre additarlo come colpevole (o
forse peggio). Speculare alla mercificazione del lavoro è il concetto di
imperialismo “inteso come intreccio aggressivo di politiche economiche e
militari che acuisce le disuguaglianze del mondo”. Il terzo elemento di questa
triade è necessariamente, per capirne funzionamento ed effetti sulla società,
il concetto di accumulazione del capitale che, detto in parole molto
povere, non è altro che l'espansione e riproduzione sociale dei mercati
affinché questi divorino uomini e risorse naturali e culturali per espandersi senza
fine appunto. E per produrre e riprodurre incessantemente in forme storiche
diverse e discontinue il plusvalore, ossia il denaro per il denaro,che
impingua i plutocrati e che impoverisce o uccide chi lavora. Com'era
prevedibile dell'assassinio dei cinque operai non se ne parla già più. Questo
poiché la “grande trasformazione” (Polany) che il lavoro ha subito, diventando
merce flessibile, producendo precarietà esistenziale nei lavoratori, èstata così ben dissimulata dal linguaggio
retorico di tutti gli attori istituzionali coinvolti (“per avere un mercato
competitivo e rilanciare l'occupazione occorre un lavoro flessibile”, “modernizzare
l'economia”, “le aziende non ce la fanno, abbassare i costi del lavoro”ecc.) che l'interiorizzazione dei suoi assunti da parte della vita pubblica
oramai sia totale e perciò tutto sommato non c'è niente da fare. Già, la vita
pubblica: oramai un sepolcro, terrorizzata dalla soppressione crescente di ogni
forma di dissenso, asservita ai diktat dei grandi partiti politici che
sono delle consorterie di briganti.
Per
non cadere in questo tranello “raffinato” ho dovuto rileggere un saggio del
sociologo Luciano Gallino, “Il lavoro non è una merce. Contro la
flessibilità” che insieme all'assioma sociologico - la precarietà è
dappertutto - del sociologo marxista francese Pierre Bourdieu rappresentano
una formidabile analisi strutturata e plurifattoriale delle cause che conducono
milioni di lavoratori ad essere sfruttati e uccisi da una data organizzazione
del lavoro. Quando si parla di lavoro si parla della condizione individuale e
collettiva dell'uomo, delle radici in cui egli può svilupparsi e emanciparsi
materialmente e spiritualmente oppure trovare morte. Quando si parla del lavoro
si parla della natura politica della democrazia in cui quello sviluppo è
promosso o meno. Bisogna quindi analizzare le cause della mercificazione del
lavoro e toccare le condizioni strutturali dell'organizzazione di questo quale
natura deformata e deformante delle democrazie liberali. Gridare al dramma,
alla morte, alla mancanza di sicurezza, addirittura alla “crisi della legalità”
serve a fare sì che questo linguaggio rappresenti un velo dei fattori
economici, sociali, culturali e giuridici che provocano e provocheranno indisturbati
l'omicidio della gente che lavora. La mentalità leguleia, istituzionalizzata,
si muove pensando ciò che l'autorità si aspetta di sentire.Molto più complesso e
scandaloso è analizzare come siano certi rapporti di forza tra le varie forze
storiche in campo (stato, organizzazione datoriali, sindacati, organizzazioni
economiche e finanziarie) a produrre leggi e normative che sanciscano come il
lavoro nelle democrazie liberali sia oggi caratterizzato e regolato.
Pierre Bourdieu
Di
Bourdieu riportai (https://libertariam.blogspot.com/2023/12/la-correttezza-e-lo-sciopero-generale.html?m=1) il principio
organizzatore dell'attuale vita lavorativa e produttiva. Di Gallino mi accingo
a schematizzare i punti salienti della sua opera citata. Di Clelia Bartoli (Razzisti
per legge) mi servo per smontare l'idea che le leggi siano
inequivocabilmente a tutela dei lavoratori. Nella prospettiva della sociologia
del dominio esse invece fungono da legittimazione di codesto. Vado per ordine. Quando
Bourdieu parla del concetto di violenza simbolica lo correla alla domanda che
potrebbe qualificare tutta la sua analisi sociologica sul dominio: un ordine
sociale nitidamente basato sull'ingiustizia come può continuare a riprodursi e
a mantenersi in vita? Come mai la questione della legittimità di quell'ordine
stesso viene così facilmente accettata e affermata? A cosa si deve la
sorprendente facilità con cui i dominati accettano l'ordine dei dominanti,
imponendo loro dominio e morte? Detto brutalmente, la violenza simbolica si
regge sulla condizione che il dominante accorda e riconosce al potere che il
dominato esercita e organizza, legittimandolo del tutto. Laddove masse di
lavoratori accettano le condizioni di sfruttamento, ossia la mercificazione
costante, sempre in fieri, da cui nasce un rapporto di lavoro flessibile
(interinale, co co co, mobilità, delocalizzato, a chiamata, in affitto rispondono
tutti al flusso frenetico, sempre produttivo, del modellojust in time ossia frenesia produttiva
tale che il flusso stesso non debba mai interrompersi ma che impregna senza
sosta la psiche del lavoratore) significa che la violenza simbolica (oltre a
quella palesemente materiale) agisce oramai indisturbata a tutti i livelli. Da
quello psichico individuale, che conduce il dominante al riconoscimento
dell'autorità di chi esercita il dominio, a quello della costruzione di modelli
sociali che fanno funzionare una data forma produttiva in cui il senso e
l'esercizio del dominio da parte di codesta autorità è abilmente nascosto. Ecco
la difficoltà empirica di parlare delle cause di morte del lavoro se non
riusciamo a riconoscere come funziona dentro e fuori di noi l'esercizio
politico della violenza simbolica che, peraltro, è così abilmente utilizzato
dall'economia classica e dai suoi difensori.
Quando
Gallino afferma che il lavoro non è una merce (la cui caratteristica è la non
separazione tra la prestazione e colui/colei che la realizza) parte dalla
Dichiarazione di Filadelfia del 1944, “concernente le finalità e il proposito
dell'Organizzazione internazionale del lavoro” (organizzazione in cui i tre
attori principali interagivano, governi, sindacati e imprese). In Italia la sua
matura recezione si ebbe con la legge 20 maggio del 1970, la famosa 300 nota
come Statuto dei lavoratori. Sono anni quelli dalla fine del secondo conflitto
mondiale sino agli anni Settanta dove l'architettura del lavoro rispetta appieno
lo spirito della Dichiarazione secondo cui il lavoro non è un elemento
accessorio del soggetto che lo presta ma è costitutivo dell'interezza
identitaria della persona quale stima di sé, davanti alla comunità e davanti
alla qualità delle relazioni familiari. In sintesi, l'idillio (non che le cose
siano andate lisce, sia chiaro) termina proprio negli anni Settanta quando
storicamente torna ad affermarsi, sotto forma di economia neoliberista, il
capitalismo dell'economia del mercato autoregolantesi. Io ero un bambino quando
la Thatcher mandò un messaggio chiaro alla classe proletaria: sottomissione
allo sfruttamento sistemico delle condizioni produttive del lavoro neoliberista
sintetizzata dalla dittatura del “è così”. Seguendo la disamina che l'ordinamento
giuridico italiano dagli anni Novanta, Gallino, non può fare altro che
affermare empiricamente che tutti gli interventi da allora in poi assicurano
alle imprese il via libero legale alla flessibilità-precarietà del lavoro (e di
tutta la vita). Da buon sociologo definisce quindi l'oggetto dell'indagine
stilando alcune tappe di questo processo con cui la legge legittima lo
sfruttamento del lavoro:
*23
luglio 1993: protocollo d'intesa tra governo, sindacati e organizzazione
datoriali che apre la strada a leggi e decreti che di fatto implementano la
flessibilità del lavoro. *Legge
24 giugno 1997, n. 196 in attuazione a codesto protocollo e dove si introduce
il lavoro interinale ossia il contratto di fornitura di lavoro temporaneo. Un
lavoratore viene assunto da una ditta “fornitrice” però opera presso una ditta
denominata “utilizzatrice”. Si capisce al volo che si ha a che fare con due
realtà distinte e questo mina la sicurezza del lavoro che si ritrova ad essere
sbattuto tra situazioni di lavoro molto differenti, spesso con richieste molto
differenti. Per tornare al dramma di Firenze, il sistema dei subappalti si
serve della stessa logica. Questa potrebbe spiegare il motivo per cui la
Regione Toscana nel 2017 di fatto chiuse l'Ufficio deputato al controllo della
sicurezza sul lavoro, incorporandolo in un altro dipartimento, poiché sarebbe
impossibile praticamente eseguire efficaci azioni di prevenzioni quando le
condizioni di incertezza sono strutturate così. Ma ancora questa legge
rappresentava un argine all'uso liberticida e omicida del lavoro quale la
flessibilità persegue perché stabiliva un tetto molto stretto all'uso da parte
delle imprese di contratti flessibili. *D.L.
6 settembre 2001 n. 368 che spazza via quell'argine, recependo una direttiva
europea che implementava definitivamente i contratti di lavoro a termine o
subordinato. Ma è il linguaggio della violenza simbolica di cui il dominante,
l'imprenditore o dirigente aziendale, può servirsi grazie alla legge che va
osservato quando si dice che questo tipo di contratti sono consentiti laddove
esistano “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo”. Significa che le ragioni della produzione hanno il via libera
sulla vita personale e sociale dei lavoratori.
Rosa Luxemburg
*Legge
30 del 2003 dove si sancisce che il lavoratore è privato di ogni capacità di
negoziazione con la ditta che lo utilizza. Il lavoratore deve cedere il proprio
lavoro. Nei confronti dei lavoratori immigrati, il cui problema della lingua è
quello maggiore, possiamo immaginare gli effetti sullo sfruttamento e
invisibilità che questa legge produce. *D.L.
276/2003 dove si apre la via alle agenzie di somministrazione del lavoro e così
viene abbattuto il tetto di contenimento, all'interno di un'azienda, di
contratti di lavoro atipici; i quali possono costituirsi grazie a codeste
agenzie che li rivendono (il lavoro come merce) all'azienda. *Infine
Gallino segnala che nel 2006 viene costituito il Libro verde (certo, se gli
omicidi sul lavoro sono “bianchi”, il verde li può contrastare!) della
Commissione europea col fine di fare evolvere il diritto del lavoro tanto da
sostenere gli obiettivi di Lisbona. Incidentalmente la strategia di Lisbona
apre la strada alla scuola della competizione, della produttività del migliore,
perseguendo l'idea che ogni studente debba cominciare a pensarsi in nuce già
flessibile quando entrerà nel mercato del lavoro quale “risorsa umana”. In
termini pedagogici questa strategia è quella che permette alla scuola di
stigmatizzare tutti coloro che non tengono il passo produttivo attivando, a
spese delle famiglie, la certificazione medica DSA (disagio specifico
dell'apprendimento). Di fatto, la managerializzazione della scuola e la
conseguente medicalizzazione di milioni di studenti che non riescono, loro
malgrado, a seguire il flusso produttivo del just in time in versione
apprendimento. È uno dei fili rossi che legano la morte sul lavoro alla morte,
ossia la marginalizzazione, che la scuola promuove. *Legge
183 del 2014, cosiddetto Job Act, riforma e rilancio del mercato del
lavoro tramite la flessibilizzazione. Non c'è altro da aggiungere se non il
depotenziamento dello Statuto dei lavoratori quale strumento di lotta contro il
licenziamento senza giusta causa.
Da
Gallino al costrutto sociologico di “razzismo istituzionale” di Clelia Bartoli
il passo è brevissimo. Solo un esempio. La Bossi-Fini criminalizza
l'immigrazione permettendo che quella massa di “esercito industriale di
riserva” (Marx) possa essere sfruttata a piacimento delle aziende e dell'industria,
ottenendo la rottura insanabile dell'unità sindacale. La legge diventa lievito
che nella pancia della gente fa fermentare il razzismo. Ricordo che il tipo
d'uomo Eichmann, un carnefice, ne La banalità del male era un uomo
civilizzato e fedele alla legge. Peraltro invocare il diritto alla
sicurezza che secondo la vulgata dovrebbe attenuare o fermare le uccisioni sul
lavoro è sufficiente dire che la sicurezza è già condensata nella flessibilità.
Quindi può solo svolgere un effetto anestetico ma di certo non colpisce le
cause di morte sul lavoro. Per
fare fronte a questa guerra che sfrutta e uccide la gente che lavora si è
indetta una manifestazione di qualche ora invece che uno sciopero intransigente
e ad oltranza. Sarebbe dovuta ancora esistere la classe proletaria e la sua
dittatura educate alla scuola di partito. Di contro Palazzo Vecchio vorrebbe
creare un giardino al posto del supermercato; come la strategia degli Usa
durante il Vietnam che distribuiva alle famiglie dei resistenti rossi uccisi vettovaglie
per non farle morire di fame. Invece di pensare a politiche del lavoro
lungimiranti che spezzino il vortice di morte da cui i lavoratori sono
grandemente minacciati ci dobbiamo sorbire questa retorica dominante. Prudono
le mani, il sangue ribolle, il cuore si gonfia e la ragione non perde il senno.
Anzi, con le parole della Luxemburg, si rafforza il pensiero che sa soltanto
come si è umani.