Abituati
ad ammirare ritratti di personaggi illustri, dove l’attenzione è richiamata, soprattutto,
dalla magnificenza del loro status sociale, del loro ruolo, della loro
autorità, (vedi monarchi, ecclesiastici e condottieri); qui, uno dei capolavori
della mostra è il ritratto d’un artigiano bergamasco del 1500. L’autore è
Giovan Battista Moroni (1521 – 1580), pittore del rinascimento lombardo, noto
appunto per la sua attività di eccellente ritrattista. I suoi soggetti sono
spesso persone comuni, borghesi, rappresentate in quelli che sono chiamati
“ritratti in azione” poiché fissano il soggetto in una posizione mai statica, frontale.
Invece, attraverso dettagli come gli accurati tratti fisiognomici,
l’abbigliamento e gli oggetti in scena, ne fissano l’azione cogliendone la
psicologia, quindi la personalità. Roberto Longhi scrive che quei ritratti,
fissati dallo sguardo penetrante del Moroni, apparivano così “veri, semplici,
documentarii da comunicarci addirittura la certezza d’aver conosciuto i
modelli.”
In
uno dei dipinti più noti e conclusivo della mostra, Il Sarto (1572) appunto, si vede un giovane uomo dalla barba ben
curata – un artigiano – che sembra sorpreso mentre sta lavorando. Tiene,
infatti, in una mano una forbice, nell’altra il pezzo di stoffa nera, segnata
dal gessetto, che sta tagliando. È abbigliato elegantemente e rivolge allo
spettatore uno sguardo d’intesa: lo sguardo di chi è fiero del proprio ruolo, ben
consapevole e orgoglioso della propria posizione sociale. Anche lo sfondo non è
neutro, uniforme, bensì attraversato da una luce morbida e mutevole. Un altro
dipinto di grande finezza, noto per il raffinato cromatismo, è il Ritratto di Giovanni Gerolamo Grumelli (Il
Cavaliere in Rosa), (1560). Il soggetto indossa un magnifico abito color
corallo dai particolari accuratissimi, come d’altra parte i lineamenti del
volto posto di tre quarti, mentre il suo sguardo ci osserva. Sullo sfondo
grigio su cui spicca la figura, si apre una finestra con un luminoso spicchio d’azzurro
cielo; sul pavimento vediamo, reclinato, un torso classico con altri frammenti
scultorei che rivelano gli interessi del personaggio effigiato.
Un
altro esempio che testimonia l’importanza dell’ambiente lo si nota nel Ritratto di M. A. Savelli, (1545/48)
dove quest’ultimo ci osserva mentre sta sfogliando un libro. Tuttavia, gran
parte dello spazio è occupato da una colonna mozza e una venere classica
mutilata. Dunque, rovine e reperti archeologici che, naturalmente, alludono
alla biografia del Savelli. Accanto alla cura per il set di posa dei dipinti
non si può trascurare la maestria nella rappresentazione d’una gran varietà di
cappelli, abiti di fogge e stoffe sontuose e accessori con merletti e ricami,
come anche nel ritratto della poetessa, Isotta Barbara Grumelli.
Una
cosa che mi ha particolarmente colpito visitando la mostra, oltre alla capacità
introspettiva nei modelli ritratti, è la mirabile sapienza sia coloristica, sia
nella resa di una spazialità aperta, atmosferica della scena dipinta; questo
non solo nella pittura del Moroni, ma anche in quella del Moretto, suo maestro;
come nei raffinati dipinti del Savoldo – ammirevole nel ritrarre stoffe e abiti
- altro rappresentante del rinascimento lombardo. In mostra, al loro fianco si
possono ammirare diversi capolavori del Veronese, di Tintoretto, Tiziano e
Lotto; la loro presenza stimola l’osservatore nel trovare debiti, differenze e affinità,
in particolare nella sottigliezza dell’analisi psicologica e nell’impianto
spaziale del dipinto, seppure risolti secondo le diverse personalità; si resta
tuttavia stupiti dalla ricchezza e varietà linguistica elaborata in quel
periodo aureo dell’arte italiana.
Non
molto tempo prima, avendo potuto vedere il Greco a Palazzo Reale, e pur tenendo
conto dei diversi ambiti sociali e temperie culturale, non ho potuto fare a
meno di paragonare gli esiti conseguiti dai pittori del rinascimento lombardo
(e, in generale, di quello italiano) da quelli coevi europei, seppur eccellenti,
notando una differenza sostanziale, sia nel trattamento dello spazio, sia
nell’analisi psicologia dei tratti del viso e dell’atteggiamento.
Del
Greco (1541 – 1614), che ha ben conosciuto la pittura italiana dell’epoca, è
interessante la foga quasi espressionista della pennellata fluida che delinea
le sue forme allungate traendole dallo sfondo spesso oscuro e tempestoso; si
tratta di nudi o figure avvolte in eccessivi e sontuosi panneggi dai colori
fiammanti, entro uno spazio affollato e quasi privo di profondità (vedi la
rappresentazione della fantasmatica veduta di Toledo in diverse opere). Si
sente l’influenza delle icone bizantine che ispira spesso i volti. Si tratta, credo
di soddisfare le esigenze di una pittura edificante e devozionale che – in una
temperie drammatica -, accanto a una fervente passione mistica comprende anche
l’orrore del peccato e della dannazione.
Nel
Rinascimento italiano, l’intima esigenza razionale di comprendere il reale,
spinge all’indagine fisionomica dei volti e dei corpi e dei moti dell’animo (un
nome per tutti, Leonardo); quindi apre lo spazio, sia quello naturale, sia
quello urbano e architettonico, lo spalanca. Cerca di dominarlo e di misurarlo,
anche se ha ben presente nella costruzione razionale della prospettiva
albertiana il concetto ambiguo e inafferrabile dell’infinito. Cui forse non è
azzardato pensare che risalgano i fondi oscuri di Caravaggio che, formato nella
stessa scuola di tradizione lombarda, entrerà sulla la scena poco tempo dopo.