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lunedì 22 aprile 2024

FREUD A GAZA
di Daniela Scotto Di Fasano


 
Lo psicoanalista, un testimone auricolare.
 
Lo psicoanalista non può e non deve sottrarsi al (a volte impossibile) compito di pensare anche nelle condizioni più atroci. Disumanità, inumanità definiscono al ‘negativo’ la natura umana e si interrogano reciprocamente in relazione alla deumanizzazione delle barbarie sociali. Freud a Gaza, dunque, come testimone auricolare di un dramma a doppia faccia: quella della guerra tra Israele e Palestina. Mariano Horenstein, socio ordinario con funzioni di training della Cordoba Psychoanalytic Society e membro del gruppo di Studio internazionale Geografie della Psicoanalisi [1], sabato 24 febbraio al Collegio Ghislieri a Pavia ha riflettuto su tale drammatico avvenimento chiedendosi cos’è natura umana. Nel numero di Psiche Deumanizzazione (1/2006) Lorena Preta proponeva il termine poco usuale ‘deumanizzazione’ poiché evoca l’idea di un processo più che di uno stato. E proprio la domanda ‘cos’è umano’ è stata la bussola orientante tutti i contributi: quelli introduttivi degli psicoanalisti Marco Francesconi e Lorena Preta, quelli pomeridiani della filosofa Silvana Borutti, della grecista e studiosa delle tragedie greche Anna Beltrametti e dell’hispanista Paolo Pintacuda, quelli costituiti dalle domande del pubblico. In psicoanalisi il binomio umanizzazione-deumanizzazione costituisce, con Eros/Thanatos, una costante del processo di costruzione dell’immaginario sociale e individuale. In molte delle sue opere, in particolare nel carteggio con Einstein Perché la guerra? (1932), Freud ha riflettuto sull’inestricabile binomio vita-violenza, sul quale i relatori si sono interrogati, spingendosi, con Silvana Borutti, sull’orlo del baratro dell’Intestimoniabile. D’altronde, è d’obbligo entrare in contatto con una violenza inevitabile nel tentativo di renderla governabile.



“Lo sguardo psicoanalitico ‘binoculare’ di Mariano Horenstein è particolarmente adeguato a occuparsi dell’ascolto e del silenzio, che vanno profondamente differenziati dalle eccedenze di fusione empatica da un lato e del massiccio mettere a tacere denegatorio dall’altra. Sottotitolo di Freud a Gaza è Lo psicoanalista, un testimone auricolare. Sono sempre stato colpito dalla somiglianza di ‘auris’ orecchio e ‘aurum’ oro, che sottolinea che in psicoanalisti il ‘testimone auricolare’ ascolta per parlare, parla per ascoltare di nuovo (anche la propria voce, come nella lettura ad alta voce degli antichi Greci studiata da Svenbro e Bettini fra altri, e, comunque, nell’ascolto del proprio controtransfert), dialoga per riformulare i pensieri cambiando vertice, non solo per ‘esserci’ o ‘vedere’. Se accade troppo spesso, ieri e oggi, che si chiudano gli occhi di fronte a realtà paurose, più difficile risulta chiudere le orecchie, se concordiamo con John Cage quando diceva che ‘il silenzio non esiste’.”
Queste le parole introduttive di Marco Francesconi. Poi Horenstein, chiedendosi “Cos’è uno psicoanalista?”, ha detto: “Di fronte alla catastrofe, il nostro lavoro non è quello di un opinionista politico o di uno scienziato sociale, ma consiste piuttosto nell’ascolto e nella comprensione. Capire cosa? Le mentalità in gioco, ovvero il modo in cui le mentalità si configurano in base a ciò che accade, o viceversa: come la mappa di ciò che accade risponde a meccanismi non solo storici o geopolitici, ma anche psichici. E da quale posizione, allora, noi analisti ascolteremmo/capiremmo l’epoca? In un mondo in fiamme, credo che la posizione etica dell'analista debba essere dalla parte dei perseguitati.



Lasciatemelo dire attraverso un antico commento rabbinico: «Si può trovare un caso in cui un uomo giusto perseguita un uomo giusto, e Dio è dalla parte del perseguitato; quando un malvagio perseguita un giusto, Dio è dalla parte del perseguitato; quando un uomo malvagio perseguita un uomo malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato, e persino quando un uomo giusto perseguita un uomo malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato. [2]». Credo che anche noi analisti dobbiamo stare sempre – come il Dio della storia – dalla parte dei perseguitati. Pensare dalla parte dei perseguitati. Il che equivale a pensare contro il potere. Perché se la psicoanalisi merita di continuare ad esistere, non è solo perché porta un notevole sollievo a chi vi si affida, e spesso un riposizionamento nella posizione soggettiva di chi soffre. Non solo perché offre un insieme di teorie che spiegano il funzionamento degli aspetti intimi dell’essere umano come nessun altro sapere. Sebbene entrambe le cose siano vere, ciò che giustifica la psicoanalisi come disciplina nei tempi contemporanei è che si tratta di una variante del pensiero critico, dove di solito prevale il pensiero unico. E in questo senso funziona – o dovrebbe funzionare – come una fabbrica artigianale di liberi pensatori.”. Il discorso sul pensiero unico – vera ‘figura odierna del potere’, come noterà in un intervento dal pubblico Agnese Grieco – è stato uno dei fili conduttori dell’incontro. Un pensiero unico che vieta i ‘perché’. Nota infatti Francesconi: “Ci sarebbero molte cose da dire, su questa coazione a ripetersi della Storia, su questi attacchi al legame che, con Bion, sembrano servire, confermando Primo Levi, a distruggere ed espellere i perché, il pensiero causale, dando anche morte all’angoscia per liberarsi dell’angoscia di morte [3]. Si sopprime così la concatenazione generativa differenziata (A genera B, che genera C ecc.) e la sostituisce con l’autogenerativa sequenza di A che genera A che genera A… eliminando ogni diversità: sorta di an-alfabetica mise en abîme di un Sé narcisistico autoconcluso”. Infatti, ancora Horenstein: “Chi sono i perseguitati in Medio Oriente? 



I palestinesi costretti a emigrare nel sud di Gaza per ordine dell’esercito israeliano prima che venga scatenata una grande offensiva, o i giovani israeliani che fuggono disperati dai terroristi di Hamas, quando solo pochi secondi prima ballavano al ritmo della musica elettronica? Gli ebrei della diaspora che sognavano di tornare in una terra sicura ed essere liberi dai pogrom avvenuti sul suolo europeo, o i palestinesi che, avendo vissuto per generazioni in quegli stessi luoghi, sono vessati sia dai coloni israeliani sia dai presunti fratelli arabi che chiudono loro le frontiere? I termini Shoah e Nakba possono essere usati nella stessa frase? Non ho mai creduto in un campionato di vittime, in una competizione per il numero di morti o per il numero di anni di oppressione. Ogni vittima conta, e credo che la psicoanalisi abbia un impegno etico nei confronti degli sconfitti della storia, come li chiamava Benjamin, un luogo in cui potremmo benissimo collocare sia ebrei che palestinesi.” Anche Beltrametti dirà: “All’universale umano si sostituiscono, e ora con maggiore urgenza, soggetti storicamente e geograficamente determinati e i perseguitati, i vinti della storia - nella definizione di Benjamin - e i dannati della terra - nella definizione di Fanon - si impongono allo psicoanalista consapevole del proprio compito. Mariano Horenstein insiste con competenza e partecipazione emotiva su questa necessità. La forza speciale del suo discorso sta qui, in questa volontà e in questa capacità di riconoscere i nuovi soggetti individuali e collettivi, con le loro nuove sofferenze, che l’analisi contemporanea non può permettersi di ignorare”.



Infatti, prosegue Horenstein, “Oggi entrambi i popoli si stanno massacrando a vicenda per un luogo. La nostra specie è capace di distruggersi per un luogo. Un luogo che si distingue più per il vuoto che lo abita che per ciò che possiede [4].Il compito della psicoanalisi è tentare di pensare dalla parte dei perseguitati, anche se questo significa perdere la tutela di ogni forma di correttezza politica. Pensare a partire dalla psicoanalisi non implica farlo in termini bonari o caritatevoli, poiché la psicoanalisi non prospera tra i benpensanti e si ferma, nella sua incessante ricerca, solo ai limiti di una verità scomoda. Ma, in verità, non dovrebbe essere difficile per lo psicoanalista pensare dalla parte dei perseguitati, poiché egli stesso è sempre stato oggetto di polemiche o di condanne: la psicoanalisi era considerata scienza borghese dai comunisti, oscenità dalla Chiesa cattolica, scienza ebrea e bolscevica dai nazisti, scienza boche dai francesi, scienza latina dai nordici o scienza cristiana dai nuovi sostenitori dello scientismo [5]. Mettersi dalla parte dei perseguitati implica pungolare l’altro e estraniarsi dal consenso, diventare estranei ogni volta che un’identificazione minaccia di unirci in un conforto collettivo. È una posizione evidentemente scomoda, ma solo così la psicoanalisi può diventare ogni volta contemporanea.”.  Analogamente, Beltrametti: “Forse ripensare la tragedia antica non più nella forzata e abusata chiave neoclassica della ricomposizione e della compensazione catartica, forse ripensare la tragedia per quello spettacolo molesto che i testi ancora ci trasmettono, ripensarla per i turbamenti e gli straniamenti che poteva e voleva provocare sul suo pubblico e che ancora ci provoca, ripensarla nei termini aristotelici, negli effetti complementari di paura, phobos, che fa regredire gli spettatori in sé e di compassione, eleos, che li reintegra nella comunità”.
Horenstein invita a “immaginare Gaza come un’eterotopia [6] e a ripensare la psicoanalisi partendo da lì e tornando alla domanda iniziale: come identificare i perseguitati? Confondere i perseguitati con Hamas è altrettanto osceno quanto confondere i persecutori con Israele. 



I perseguitati sono i bambini israeliani rapiti o uccisi, le adolescenti violentate, gli anziani condannati a rivivere la minaccia di un olocausto che non finisce mai, così come le famiglie palestinesi costrette a spostarsi da un luogo all'altro o a vedere il loro futuro delimitato, le perdite di vite umane considerate solo danni collaterali. Il lato dei persecutori non riconosce le differenze di fede, e i fondamentalisti di entrambe le parti si incontrano senza problemi, gli unici ad avere la meglio in un'escalation di violenza senza fine. È facile cadere nell'osceno. Osceno significa uscire di scena. Dalla scena umana”. A tali questioni si collega Silvana Borutti, che, evocando Agamben di Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, afferma che “I sommersi, sono i testimoni che non potranno testimoniare (nel cui conto parleranno i sopravvissuti), ma sono loro paradossalmente i veri testimoni, perché sono i testimoni impossibili dell’intestimoniabile, dell’indicibile, dell’irrappresentabile [7]”. Un irrappresentabile, una Gorgone, un’alterità non pensabile ai quali Borutti risponde mediante Sebald, che, con la scrittura, tenta – come ci ha invitato a fare Horenstein – di affrontare il tema del testimoniare l’intestimoniabile, l’indicibile, l’irrappresentabile.
 
[Pavia, Collegio Ghislieri, 24 febbraio 2024]



Note

1. Coordinato dal 2008 da Lorena Preta.

2. Rabbi Huna, nel nome di Rabbi Joseph in un antico midrash, salvato da Pierre Vidal-Naquet in Gli assassini della memoria, Siglo Veintiuno, Messico, 1994

3. Francesconi M., Scotto di Fasano D., 2023, Angoscia di morte o morte dell’angoscia? in Preta L., 2023, a cura di, Still life. Ai confini tra il vivere e il morire, Mimesis, Milano.

4. È interessante pensare che le Crociate possano essere state intraprese dietro una tomba vuota, o il modo in cui i luoghi sacri sono abitati dall'assenza. A un'assenza rimanda anche il Muro del Pianto, residuo delle mura di contenimento della spianata dove un tempo sorgeva il Tempio ebraico e oggi due moschee. La sacralità che abita quella spianata è legata alla propensione al sacrificio – di Isacco o di Ismaele, a seconda della tradizione che lo racconta – da cui sembra che non ci siamo ancora liberati.

5. Roudinesco, E., Pourquoi tant de haine? - Anatomie du livre noir de la psychanalyse, Navarin, Parigi, 2005.

6. Foucault, M., Des espaces autres, Architecture, Mouvement, Continuité, n. 5, ottobre 1984, pp. 46-49 (traduzione in spagnolo di Luis Gayo Pérez Bueno, pubblicata sulla rivista Astrágalo, n. 7, settembre 1997).

7. Agamben, analizzando «la relazione tra impossibilità e possibilità di dire che costituisce la testimonianza» in quanto testimonianza di eventi senza testimoni, offre argomenti per affrontare il tema aporetico della non coincidenza tra fatti e verità. (Quel che resta di Auschwitz, Einaudi, Torino 1998. p. 146)