IL MODELLO COREANO di Alessandro Pascolini- Università
di Padova
Settant’anni fa, nell’aprile
1954 iniziava a Ginevra la conferenza “per l'unificazione e la pacificazione della
penisola coreana” a concludere la guerra in Corea, iniziata il 25 giugno 1950
con l'invasione della Corea del Sud (ROK) da parte della Corea del Nord (DPRK)
con truppe “volontarie” cinesi. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite condannò
l’azione della DPRK e autorizzò l’invio di forze armate in Corea per respingere
l’invasione sotto un “Comando delle Nazioni unite” (a guida nordamericana). Un
anno dopo il fronte si era stabilizzato attorno al 38mo parallelo, che divideva
la DPRK dalla ROK prima dell'invasione a seguito dell’accordo fra URSS e USA
sulla linea di demarcazione delle zone ove le due potenze avrebbero raccolto la
resa dei giapponesi. La situazione di stallo indusse i comandi militari delle
forze combattenti a iniziare negoziati per un armistizio, che venne firmato il
26 aprile 1953. Alla conferenza di Ginevra, dopo delicati e complessi negoziati
diplomatici sulle modalità formali e procedurali, parteciparono i 16 paesi
delle forze internazionali combattenti e l’URSS, la Cina “popolare” e la DPRK;
la conferenza si svolse sotto la presidenza alternata dei ministri degli esteri
inglese (Antony Eden), russo (Vyacheslav MikhaylovichMolotov) e Tailandese (il
principe Wa) e si concluse il 20 luglio con un nulla di fatto, per l’irriducibile
volontà di entrambe le parti di assicurarsi il controllo totale del paese. Mentre
la conferenza ginevrina è fallita e persiste formalmente lo stato di guerra
(tanto che il Giappone continua tuttora a mantenere sette basi di supporto a
disposizione delle forze ONU che avessero ad impegnarsi in operazioni belliche
in Corea), l’armistizio rimane di fatto tutt’oggi in vigore e nel corso degli
anni ha permesso a ROK e DPRK di convivere senza una guerra maggiore in un’alternanza
di forme di rapporti e prospettive. Negli ultimi tempi da più parti si sentono
voci di una possibile “coreanizzazione” del presente conflitto ucraino; per
comprendere fino a che punto l’armistizio coreano possa ispirare azioni nella
presente situazione e cosa esattamente esso comporti, una sua rilettura si
rende necessaria.
L’armistizio militare coreano I colloqui faccia a faccia per l’armistizio iniziarono il
10 luglio 1951 a Kaesong, una città della Corea del Nord vicino al (precedente)
confine con la ROK. I due principali negoziatori furono il generale Nam Il, capo
di stato maggiore dell'esercito nordcoreano, e il viceammiraglio statunitense
Charles Turner Joy. 159 sessioni plenarie e oltre 500 riunioni a livello
operativo si resero necessarie per sciogliere le tre questioni principali: 1. individuazione
della linea di demarcazione militare e la definizione di una zona
demilitarizzata; 2. accordi specifici per il cessate il fuoco e la creazione
un’organizzazione per la supervisione dei termini dell’armistizio; 3. il
rilascio e il rimpatrio dei prigionieri di guerra. L’“accordo tra il comandante
in capo del Comando delle Nazioni unite, da un lato, e il comandante supremo
dell'esercito popolare coreano e il comandante dei volontari del popolo cinese,
dall’altro, riguardante un armistizio militare in Corea” fu infine firmato da
Kim Il Sung e Mark W. Clark e divenne operativo il 27 luglio 1953. Il documento finale, in 93
punti per una quarantina di pagine, comprende un sintetico preambolo e cinque
articoli oltre a un annesso con “termini di riferimento per la Commissione
delle nazioni neutrali per il rimpatrio” e un “accordo temporaneo supplementare all’accordo di armistizio”. Nel preambolo si precisa che i comandanti dei due eserciti “nell’interesse di fermare il conflitto coreano, con il suo
grande tributo di sofferenza e spargimento di sangue da entrambe le parti, e
con l’obiettivo di stabilire un armistizio che assicuri la completa cessazione
delle ostilità e di tutti gli atti di forza armata in Corea fino al
raggiungimento di una soluzione pacifica finale, convengono individualmente,
collettivamente e reciprocamente di accettare e di essere vincolati e governati
dalle condizioni e dai termini dell’armistizio stabiliti nei seguenti articoli
e paragrafi, che intendono essere puramente militari e riguardare
esclusivamente i belligeranti in Corea”, sottolineando quindi l’estraneità delle autorità politiche al
raggiungimento e alla regolamentazione dell’armistizio. Il primo articolo fissa
la linea di demarcazione militare e stabilisce una zona demilitarizzata ampia 4
km fra le opposte forze, “come zona cuscinetto per evitare il verificarsi di
incidenti che potrebbero portare alla ripresa delle ostilità”. Vengono definite
le norme di comportamento e le responsabilità nella zona demilitarizzata,
preclusa anche ad attività civili. La linea di demarcazione, lunga circa 248 km,
taglia la penisola da mare a mare; è prossima al 38mo parallelo, ma non segue confini
amministrativi politici o storici, basandosi solo sulle caratteristiche geografiche
e orografiche di rilevanza militare. Il secondo articolo sulle
“disposizioni concrete per il cessate-il-fuoco e l’armistizio” fissa i tempi
per la cessazione delle ostilità, il ritiro delle forze, armamenti e materiali
dalla zona demilitarizzata, e presenti sull’“altro lato”; individua le autorità
per le amministrazioni civili e la gestione dei cimiteri; impone la cessazione
di invio in Corea di rinforzi e nuove armi di ogni tipo, a parte rotazione e
turnazioni.
Vengono costituite una
Commissione militare d'armistizio (composta di 5 alti ufficiali di ciascuna
delle due parti) con “la missione generale di supervisionare l'attuazione del
presente Accordo di armistizio e di risolvere per via negoziale eventuali
violazioni”, e una Commissione di supervisione di nazioni neutrali (composta da
4 ufficiali “senior” di Svezia, Svizzera, Polonia e Cecoslovacchia), con il
compito di “svolgere le funzioni di supervisione, osservazione, ispezione e
indagine, e di riferire i risultati alla Commissione militare di armistizio.”
L'articolo precisa funzioni, privilegi, regole, sedi, procedure e norme
operative delle due commissioni. L’articolo III “arrangiamenti
relativi ai prigionieri di guerra” presenta “le disposizioni concordate da
entrambe le parti per il rimpatrio di tutti i prigionieri di guerra tenuti in custodia
da ciascuna parte”. La questione dei prigionieri di guerra si rivelò
particolarmente delicata: la Cina e la DPRK insistevano per il rimpatrio di
tutti i prigionieri di guerra. Le interviste americane e alleate ai prigionieri
di guerra cinesi e nordcoreani rivelarono che la maggior parte di essi non
voleva essere rimpatriata, creando un dilemma pratico ed etico sul rimpatrio
forzato. L’articolo prevede che “entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del
presente Accordo, ciascuna delle due parti dovrà, senza opporre alcun ostacolo,
rimpatriare direttamente e consegnare in gruppi tutti i prigionieri di guerra
sotto la propria custodia che insistono per il rimpatrio alla parte a cui
appartenevano al momento della cattura”. Per il coordinamento e la supervisione dei piani specifici di entrambe le
parti per il rimpatrio dei prigionieri di guerra viene creato un Comitato ad
hoc; squadre congiunte della Croce rossa composte da rappresentanti delle
Società nazionali della Croce rossa dei paesi coinvolti sono chiamate ad “assistere
l’una e l’altra parte, mediante l’esecuzione di servizi umanitari necessari e
desiderabili per il benessere dei prigionieri di guerra”. Per garantire che tutti i prigionieri di guerra avessero la possibilità di
esercitare il loro diritto al rimpatrio, venne istituita una Commissione di
nazioni neutrali per il rimpatrio (di cinque membri nominati dai governi di Svezia,
Svizzera, Polonia, Cecoslovacchia e India e diretta dal generale indiano K.S.
Thimayya) cui affidare la custodia in Corea dei prigionieri di guerra che,
mentre erano sotto la custodia delle potenze detentrici, non hanno esercitato
il loro diritto al rimpatrio, “per la loro disposizione in conformità con i
criteri dell’allegato”.
Da ultimo si istituisce un Comitato per l'assistenza al ritorno dei
civili sfollati, “responsabile, sotto la supervisione e la direzione generale
della Commissione militare di armistizio, del coordinamento dei piani specifici
di entrambe le parti per l’assistenza ai suddetti civili e della supervisione
dell’esecuzione da parte di entrambe le parti di tutte le disposizioni del
presente Accordo relative al ritorno dei suddetti civili”. Prima delle disposizioni finali, l’articolo IV contiene “raccomandazioni ai
governi interessati di entrambe le parti”; gli Stati Uniti, sebbene avrebbero
preferito che l’armistizio si occupasse esclusivamente di questioni militari,
acconsentirono all’insistenza cinese e nordcoreana per una conferenza politica,
insistenza motivata forse per ottenere legittimità in un momento in cui gli
Stati Uniti e le Nazioni unite consideravano ancora la Cina nazionalista come
unica rappresentante della popolazione cinese. “Al fine di assicurare la soluzione pacifica della questione coreana, i comandanti
militari di entrambe le parti raccomandano ai governi dei paesi interessati che, entro tre mesi
dalla firma e dall’entrata in vigore dell'Accordo di armistizio, si tenga una
conferenza politica di livello superiore con la partecipazione di
rappresentanti nominati da
entrambe le parti, per risolvere per via negoziale le questioni del ritiro di
tutte le forze straniere dalla Corea, della soluzione pacifica della questione
coreana, ecc.” Si può quasi vedere nell’“ecc.” l’impazienza degli ufficiali militari di
non impantanarsi nella diplomazia dopo aver lavorato così a lungo per risolvere
gli elementi militari dell’armistizio: l’“eccetera” avrebbe dovuto venir
risolto in seguito. L’Accordo è un unicum diplomatico perché, pur essendo firmato dai soli comandanti
militari e non ufficialmente riconosciuto dalle autorità politiche dei paesi
coinvolti, è stato formalmente adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 28
agosto 1953 e rimane l’unico meccanismo giuridicamente vincolante che mantenga
la pace, seppur precaria, nella penisola, come riconosciuto nell’Accordo sulla
riconciliazione, non-aggressione, scambi e cooperazione, raggiunto nel 1991 fra
le due Coree.
Una possibile opzione per la guerra in Ucraina? I due conflitti hanno effettivamente elementi analoghi:
anche quello ucraino comporta certamente un “grande tributo di sofferenza e spargimento di sangue da
entrambe le parti” e
gravissime distruzioni di beni e mezzi di produzione civili, con un enorme
numero di profughi e persone dislocate. Inoltre, dopo più di due anni
di combattimenti, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è arenata in
un’impasse sanguinosa. Entrambi i paesi continuano a spendere ingenti risorse
per guadagnare territorio, ma i loro progressi sono diventati rari e di piccola
entità e spesso vengono rapidamente annullati. Nessuna delle due parti sembra
avere le risorse per ottenere una vittoria decisiva sul campo di battaglia ed entrambe
subiscono ogni giorno pesanti perdite. Spesso situazioni come queste favoriscono le condizioni
che inducono le parti a negoziare. Se gli attori in guerra non hanno i mezzi
per modificare la traiettoria del conflitto e si trovano di fronte a una
situazione di stallo sempre più costosa e indefinita, ripensano a quanto
possono ottenere con la forza e iniziano a prendere in considerazione uno
spazio di contrattazione, disponibili a concessioni in precedenza
inaccettabili. Di fatto sono stati irresolutivi i cinque incontri intergovernativi
svolti nella primissima fase del conflitto: il primo tenuto quattro giorni dopo
l’inizio dell’invasione, il 28 febbraio 2022, in Bielorussia; un secondo e un
terzo ciclo di colloqui svolti il 3 e il 7 marzo 2022, al confine tra
Bielorussia e Ucraina, in una località non rivelata della regione di Gomel; un
quarto e un quinto ciclo con l’intermediazione della Turchia rispettivamente il
10 e il 14 marzo ad Antalya, in Turchia. Ancora oggi per i governi di entrambi i paesi continuare
a combattere appare preferibile a trovare un accordo, essendosi troppo esposti
con i propri cittadini per obiettivi “irrinunciabili” e “vitali” in una
narrazione divenuta sempre più ideologica. Gli ucraini non possono
semplicemente cedere i territori che Mosca vuole annettere (da cui provenivano
prima della guerra circa due terzi del PIL dell’Ucraina) esponendo milioni di
cittadini alla sottomissione russa (una delle richieste centrali di Mosca)
mentre possono ancora difenderli combattendo. La determinazione del paese si è
rafforzata ulteriormente quando, nell’estate e nell’autunno del 2022, ha
lanciato controffensive che hanno costretto i russi a ritirarsi dalla provincia
di Kharkiv e dalla città di Kherson, vittorie che spinsero addirittura Kiev ad
aumentare le proprie ambizioni: il governo ha promesso a gran voce di liberare
tutto il territorio ucraino, comprese le terre occupate dalla Russia nel 2014,
e di imporre risarcimenti per i danni materiali causati dalla guerra. Anche la
Russia non può rinunciare alle motivazioni che l’ha condotta all’invasione,
come ripetutamente affermato dal presidente Vladimir Putin (in particolare nel
messaggio del 21 febbraio 2022): l’Ucraina è un’“inalienabile parte della
nostra propria storia, cultura e spazio spirituale”, tanto che la sua
occupazione non può configurarsi come guerra fra stati (e quindi regolata dalle
convenzioni internazionali) ma un “operazione militare speciale” per eliminare
un governo corrotto, impedirne il passaggio a uno “spazio spirituale” diverso e
ostile, ma ripristinare i corretti rapporti con la “madrepatria”. Per questo la
Russia ha sacrificato centinaia e migliaia di persone – morti, feriti ed espatriati
– e orientato l’attività economica e la produzione industriale al solo sforzo
bellico. In piena sintonia con il governo, il patriarcato della chiesa
ortodossa russa, lo scorso marzo, ha aggiunto una dimensione spirituale e
teologica al conflitto, affermando che la Russia sta combattendo una vera
“guerra santa” per creare una patria per “tutte” le popolazioni russe, dove la
loro cultura e spiritualità saranno onorate e per difendersi dal “globalismo e
satanismo” che attanagliano l’Occidente. Appare evidente, sulla base delle
attuali posizioni dei due governi, che un negoziato di pace, o anche un
armistizio, è impossibile da raggiungere (e neppure affrontare) senza un
cambiamento fondamentale nel sistema politico di (almeno) uno dei due regimi al
potere, prospettiva che sembra oggi impensabile.
Un armistizio dei militari? E qui potrebbe entrare in gioco l’opzione “coreana”,
ossia passare la mano ai militari. Non è pensabile che possa esserci
un’iniziativa “autonoma” dei militari, che non hanno il controllo effettivo dei
paesi come era in Corea (in questa guerra la strategia militare appare “politica” in natura, e considerazioni e assunzioni
politiche regnano supreme sulla logica militare e una visione razionale della
guerra) ma i politici potrebbero delegare ai comandi militari di negoziare
quello che loro mai potrebbero ammettere, in modo da ottenere i benefici
sociali ed economici di un armistizio senza dover apertamente rinunciare alle
loro pretese politiche massimali. Un cessate-il-fuoco sostenuto da un armistizio concordato a
mio avviso porterebbe dei significativi vantaggi a entrambe le parti.
All’Ucraina permetterebbe di risparmiare alla popolazione civile l’esposizione
ai continui attacchi russi e la distruzione sistematica delle proprie
capacità produttive; evitare il sacrificio di un’intera generazione di giovani
(di questi giorni l’abbassamento dell’età di coscrizione a 25 anni); iniziare
il ritorno alla vita civile e dare inizio alla ricostruzione di larga parte del
paese; aderire a uno stile di vita pienamente occidentale; costruire un sistema
di sicurezza integrato in un contesto europeo. Per la Russia sembra meno
cogente una conclusione della “operazione militare speciale” senza aver
raggiunto gli obiettivi promessi al paese, anche per l’assenza di un’effettiva
opposizione intenta a sindacare i costi sociali del conflitto. Tuttavia un
armistizio permetterebbe di risparmiare la vita ai propri soldati e di
ricostruire le proprie forze armate dalle perdite sostenute (in particolare di personale
esperto); alleviare gli enormi costi economici (sia pure sostenuti da buon
andamento dell’economia russa) previsti assorbire nel 2024 il 6% del PIL e il 40%
dell’intero bilancio della Federazione; disporre di risorse finanziarie per
investimenti produttivi nei settori economici e industriali, nonché per il miglioramento
dei servizi pubblici; infine, il “congelamento” della questione ucraina
potrebbe riconquistarle i mercati europei e alleggerire le sanzioni economiche
impostole, e le permetterebbe di riprendere i necessari rapporti con i paesi
occidentali in una “cooperazione pragmatica” (come indicato nel documento del
31 marzo 2023 sui concetti della politica estera della Federazione russa);
infine darebbe spazio alla ripresa della politica del controllo degli armamenti
e per la stabilità strategica, elementi cruciali per la sicurezza di ogni
stato, Russia inclusa.
Vi sono alcuni aspetti del conflitto che possono
agevolare un armistizio puramente militare, seguendo le linee del caso coreano:
il testo dello stesso Accordo del 1953 potrebbe servire di guida e venire
utilmente utilizzato. Intanto, come hanno osservato molti esperti militari,
nonostante le innovazioni tecnologiche impiegate – dai nuovi
tipi di droni ai terminali Starlink utilizzati per le comunicazioni sul campo di
battaglia – la guerra Russia-Ucraina è stata ampiamente combattuta con le
tradizionali capacità convenzionali del secolo scorso, potenziate o integrate
(ma non rimpiazzate) da nuovi sistemi, nuove forme di comunicazione e
ricognizione, seguendo strettamente i modelli storici di guerra prolungata su
larga scala, caratterizzati da periodi prolungati di combattimenti di
posizione, offensive e controffensive, assedi in territorio urbano, fasi
dominate da alti livelli di logoramento, e operazioni per sfondare difese
preparate. Quest’ultimo punto è particolarmente significativo: il
genio militare russo ha creato sui mille km di fronte una formidabile linea
difensiva fortificata in profondità, costituita da una vasta rete di trincee, campi di
mine antiuomo e anti-veicolo, filo spinato, terrapieni e denti di drago
(piramidi tronche di cemento armato per impedire la mobilità dei carri armati e
della fanteria meccanizzata) uno dei più estesi sistemi di opere
militari difensive mai visti al mondo da molti decenni. Anche l’esercito ucraino
sta lavorando attivamente alla costruzione di fortificazioni, lungo tutto il
fronte a formare tre linee di difesa in profondità, applicando i metodi più
moderni. Queste linee difensive fortificate delle due parti delimitano
di fatto una striscia di terra-di-nessuno ampia qualche km lungo tutti i mille
km del fronte, che corrisponde alla fascia demilitarizzata di interdizione prevista
dall’accordo di armistizio coreano. Entro questa fascia i negoziatori militari possono
ubicare la linea di demarcazione militarmente più adeguata; anche in questo
caso andrebbero evitati confini amministrativi, per non precostituire una
separazione politicamente significativa. Come in Corea, saranno necessarie una
Commissione militare ucraino-russa d’armistizio e una di osservatori neutrali a
implementare l’accordo e a dirimere eventuali problematiche, seguendo modalità
analoghe a quelle dell’articolo II. Per quanto è dato sapere, lo scambio dei prigionieri non
dovrebbe porre problemi analoghi a quelli coreani e quindi potrebbe svolgersi
senza difficoltà, con la collaborazione della Croce rossa dei paesi coinvolte e
senza la necessità di una Commissione neutrale. Gravissimo invece appare il problema del ritorno dei
civili sfollati o deportati e l’amministrazione civile dei territori occupati
dalla Russia. Una semplificazione potrebbe venire se la Russia creasse una
regione autonoma (del Donbass?), anziché incorporare formalmente la zona nella
Federazione russa. Probabilmente questo problema costituirebbe l’“ecc.”
dell’accordo militare dell’armistizio ucraino e resterebbe aperto per tempi
imprevedibili. Comunque, un cessate il fuoco duraturo, oltre agli
specifici vantaggi già considerati per i due paesi, aprirebbe la strada alla
risoluzione di almeno alcune delle controversie che hanno scatenato la guerra o
riguardare una serie di altre questioni non considerate così esistenziali, come
la sicurezza delle centrali nucleari, un fondo per la ricostruzione, il
commercio bilaterale, aspetti culturali e la libertà di movimento, con un ritorno
a un certo grado di relazioni “normali” tra gli ex belligeranti. Sia il governo russo che quello ucraino sarebbero
comunque insoddisfatti e non rinunceranno a cercar di raggiungere i loro
obiettivi politici, ma eviteranno di rimanere intrappolati in un estenuante conflitto
armato senza fine, o, ancor più grave, a una sua esiziale escalation a livelli
incontrollabili. [Padova, 5 aprile 2024]