L’idea,
piuttosto balzana in un regime democratico, ma del tutto naturale in un clima
tirannico, di affidare allo Stato l’esclusiva dell’informazione da esercitare
per il tramite di una società concessionaria trova la sua fonte nel Regio
Decreto n.1067 dell’’8 febbraio 1923. Il regime fascista era preoccupato (dal
suo punto di vista, anche giustamente) che le notizie sulle iniziative e
attività di governo fossero comunicate e illustrate alla popolazione da
radioaudizioni circolari in mano a privati. Si preoccupò, quindi, di provvedere
adeguatamente al problema, dotando, altresì, ogni “Casa del Fascio” di un
apparato ricevente denominato “radio popolare”: seguirono “radio rurali” e
“radio Balilla”. Fu subito chiaro al Duce che, essendo connaturata a ogni
gestione del potere anche la necessità di una certa opera di “propaganda” (vale
a dire di un’azione intesa a conquistare il favore di un pubblico attraverso la
comunicazione di notizie, un messaggio di idee, di ideologie), occorreva
avvalersi, anche a tale fine, dello strumento radiofonico dato in concessione. L’idea
della propaganda, d’altronde, era stata concepita nel contesto religioso sin
dai tempi della Bibbia (per la chiesa cattolica, nei tempi moderni vi provvedeva
una congregatio de propaganda fide istituita ad hoc) e nessuno
trovò nulla da dire quando essa si era successivamente estesa agli Stati; e ciò
a partire, in forma palese, dalla prima guerra mondiale. Ovviamente
all’uso era subito subentrato l’abuso con l’utilizzo di informazioni
fuorvianti. L’Italia liberata, pur consapevole delle aberrazioni dell’EIAR (un
suo giornalista Mario Appelius terrorizzava i bambini italiani dicendo loro che
i Russi se li sarebbero mangiati come caramelle), dei falsi bollettini di
guerra dell’ente rimasto organo del regime anche nella Repubblica Sociale
Italiana di Salò, non trovava di meglio da fare che riaprire con decreto
legislativo luogotenenziale l’EIAR, senza pensare minimamente a liberalizzare
il mondo dell’informazione: vi fu una stampa libera ma un Ente Radiofonico
sempre governativo, che l’avvento della televisione divenne esteso anche a tale
mezzo. I
pionieri della RAI-Radio televisione Italiana istituita nel 1954 furono niente
altro che gli eredi di un sistema informativo-propagandistico maturato in
un’Europa dominata da autoritarismi di diversa specie ma tutti orientati a
combattere, in ogni sua forma, la libertà. C’è da meravigliarsi che con un tale
sistema i giornalisti televisivi siano stati democristiani con i governi del
“bianco fiore”, socialisti e comunisti con il raggiungimento di “equilibri più
avanzati” e fascisti con le pulzelle che imbracciano l’ascia di guerra e
fermano con efficienti maniglie d’allarme quei treni che Mussolini si vantava
di fare partire e giungere in orario? E c’è da stupirsi che tutti i giornalisti
anche se di diverso colore originario sono diventati progressivamente
filostatunitensi man mano che giungeva il tempo per i loro rispettivi leader di
visitare la patria dello zio Sam? Le alternative sono due: 1) O il popol
morto di carducciana memoria si sveglia per tempo e dà il “benservito” a
chi lo ha ridotto in questo stato, compresi i seguaci dei pionieri della RAI; 2)
O, come Leopardi temeva di non evitare la detestata soglia della vecchiezza,
così gli Italiani di oggi che temono di non potere evitare il declino del loro
Paese insieme a quello dell’intero Occidente, non hanno che da pentirsi “e
spesso” delle fraudolenze dei loro uomini politici dai molti colori cui non
sono riusciti ad opporsi e sconsolati a volgersi all’indietro.