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mercoledì 15 maggio 2024

LA MIA CITTÀ 
di Dacia Maraini


 
Difficile per me raccontare la mia città, perché in realtà sono diverse le mie città: quella di nascita, Firenze, in cui ho abitato per 5 anni; Kyoto, dove ho conosciuto le favole raccontate dalla dolce voce di Okachan e l’amore per o grandi alberi abitati dagli spiriti gentili; Palermo che ho frequentato da adolescente e in cui ho studiato per otto anni. E infine Roma dove abito ormai da una vita.
Firenze mi ricorda il collegio della Santissima Annunziata: la bella villa medicea in cima al colle, proprio vicino a dove abitava mio nonno. E vicino anche all’antica casa di Galileo.  Era la città dell’Arno sulle cui rive andavamo in fila noi collegiali con la divisa grigia e il collettino bianco a respirare l’aria dantesca recitando a memoria alcune sue rime. È la città del mio momento religioso. Avevo una madonna dentro il banco e le portavo tutti i giorni dei fiori freschi. La notte prima di dormire, facevo una chiacchierata con il Gesù che pendeva dal mio capezzale, un corpo martoriato che cercavo di carezzare per rappacificarlo con la vita. Gli chiedevo che cos’è il dolore e come possiamo ingoiarlo e digerirlo. Firenze era la casa di mio nonno, non lontano dal collegio, dove crescevano i pini e i corbezzoli, le dalie e i limoni. Era la casa degli scalini di pietra, in cima a cui c’era la camera dove dormivo, accompagnata dal gocciolio dell’acqua che scorreva nei tubi; dove dalle   finestre aperte entravano in primavera certe farfalline gialle che si rincorrevano agitando, anzi frullando le piccole ali gialle.  Era anche la casa dove risuonavano le note di Bach e di Mozart e dove a ogni angolo ci si imbatteva nel ritratto in bianco e nero di mia nonna Yoi, la coraggiosa avventurosa, ragazza inglese che si metteva lo zaino in spalla e andava in giro per il mondo da sola negli anni 10 del secolo scorso.



Palermo è la città della mia adolescenza. Non felice perché l’educazione di Fosco e Topazia, fatta di libertà e responsabilità personale si scontrava le regole repressive di una società che ipocritamente nascondeva i suoi appetiti e la sua sensualità dietro interdizioni e divieti che rendeva pesanti le giornate. Nello stesso tempo rappresentava la gioia di un mare accogliente e sempre pulito in cui mi immergevo per pescare i ricci e mangiarli sulle rocce assieme agli amici. Era la città delle tante bellezze ma anche delle tante nuove bruttezze. Era la città in cui correvo in bicicletta, scrivevo i primi racconti e li pubblicavo sul giornale della scuola Garibaldi, mi innamoravo di un ragazzo bello e cinico, imparavo le prime schermaglie d’amore, e leggevo, leggevo fino a consumarmi gli occhi. I libri erano i miei compagni preferiti.



E veniamo a Roma, città che mi è stata ostica e misteriosa finché non l’ho conosciuta nelle sue radici. Ci vivevo con mio padre, dalle parti di piazza Bologna. Dalla finestra vedevo il cortile di una caserma, e mi svegliavo al suono della tromba militare. Roma è la scuola Mamiani, dove i giovani compagni di classe si preparavano in anticipo a saltare sul cavallo al galoppo della storia. E la città del Tevere e dei suoi segreti. Mi è sempre piaciuta l’acqua che scorre. Appena ho potuto mi sono trasferita vicino al fiume. Roma, quando ci sono arrivata, era stordita dalla guerra, ma i più avidi si stavano rimboccando le maniche per costruire, in barba a ogni legge protettiva della comunità, seguendo le sirene dell’abusivismo, enormi periferie senza regole né giardini. Roma è la città in cui ho fondato il teatro Centocelle, per dare voce a chi non l’aveva alla fine degli anni 60. Il quartiere era così povero e arretrato che quando andavo di porta in porta a raccontare della nascita di un teatro di cantina, la prima cosa che mi chiedevano era: Ma cosa vendete? Roma è stata la città dell’impegno, del teatro, della bulimia del conoscere, del desiderio spasmodico di cambiare il mondo e renderlo più giusto e umano. 
 
[Roma maggio 2024]