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lunedì 27 maggio 2024

TACCUINI
di Angelo Gaccione


 
La via più corta di Milano
 
La via più lunga di Milano è la via Giuseppe Ripamonti. La via dedicata allo storico e presbitero tanto apprezzato da Alessandro Manzoni: «Noi crediamo far cosa opportuna traducendo quel poco dal bel latino di quello scrittore poco conosciuto, e che meriterebbe certamente di esserlo più di tanti altri...» (Alessandro Manzoni in Fermo e Lucia). Del resto don Lisander gli doveva molto avendo attinto non poco da: La peste di Milano del 1630. Ma qual è, invece, la via più corta? Ce n’è una? Di sicuro non lo è quella dove abito io, la via Giancarlo Passeroni nel quartiere di Porta Romana che di numeri civici ne ha appena tre. E non è nemmeno via degli Omenoni, ancora più corta della mia e che di numeri civici ne ha solo due. È corta ma è una via blasonata non solo perché c’è il celeberrimo palazzo degli Omenoni, ma perché immette nella bella piazza Belgioioso dove c’è la casa di Manzoni, ora Centro Studi di rilievo internazionale. La via più corta in assoluto è la via privata Perugia, una “rientranza” della via Conservatorio in un’area che comprende i nomi di musicisti come Mascagni, Donizetti, Bellini. In pratica si tratta di un arco che immette in un breve viale privo di cortile stretto fra due muri. Quel che si sente entrandovi sono i gorgheggi dei cantanti e le note degli strumentisti del vicino Conservatorio. In verità, si fa notare molto di più l’Istituto Vittoria Colonna, il singolare edificio neogotico del numero 4 che gli sta accanto, per la stazza soprattutto, e che i più confondono con una chiesa.


Lodovico Belgiojoso
col figlio Alberico
 
Via Perugia cela un condominio importante – e che andrebbe segnalato in una mappa doverosa e da approntare prima possibile – della Milano antifascista medaglia d’oro della Resistenza. È qui, infatti, sopravvissuta miracolosamente ai bombardamenti del 1943, la casa di Lodovico Barbiano di Belgiojoso, l’architetto e designer antifascista deportato nel campo di concentramento di Mauthausen, e dal quale altrettanto miracolosamente si salvò. Le bombe anglo-americane avevano incendiato il Conservatorio, e la stessa sorte avrebbe potuto toccare all’abitazione di “Lodo” che all’istituto musicale è quasi attaccata. Non era andata altrettanto bene al suo amico Gian Luigi Banfi, uno dei quattro architetti con cui Belgiojoso aveva intrapreso l’eccitante avventura dello studio BBPR, lettere delle iniziali dei cognomi: Belgiojoso, Banfi, Peressutti, Rogers.
 

Veduta della Torre Velasca

Le vicende di questi giovani architetti che si troveranno prestissimo a collidere con il regime fascista e a diventarne fieri avversari, sono state di recente raccontate da Gianni Biondillo nel romanzo Quello che noi non siamo pubblicato da Guanda e di cui abbiamo discusso alla Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani. A me sono diventati subito cari. Molti erano milanesi o lavoravano a Milano, e a Milano hanno lasciato la loro impronta e alcune icone: valga per tutte la Torre Velasca. Il grattacielo realizzato fra il 1955 e il 1957 svetta con i suoi 106 metri di altezza alle spalle di piazza Missori, a pochi passi dall’Hotel Cavalieri, dove mi ero impiegato per pagarmi gli studi presso la vicina Università Statale di via Festa del Perdono. Per anni ed anni la Torre Velasca è stata per me una vista quotidiana e continua. Ora, per vederla da casa mia, mi basta affacciarmi sul corso Lodi.