L’ADDIO ALLA
COSTITUZIONE REPUBBLICANA di Franco Astengo
La votazione sull’autonomia differenziata ha rappresentato un
ulteriore passo d'addio alla Costituzione Repubblicana, già mutilata in passato
per ragioni di mera convenienza tattica da parte delle forze politiche (titolo
V, riduzione del numero dei parlamentari).Per
una mera casualità questo atto proditorio verso la democrazia è stato compiuto
in coincidenza con l'anniversario delle elezioni del 20 giugno 1976,
quarantotto anni fa.In quel giorno si
sublimava la "Repubblica dei partiti" (cfr. Pietro Scoppola) e di
conseguenza quella centralità del parlamento che si sta cercando di affossare
definitivamente. In quel 20 giugno
1976: Gli aventi diritto al
voto iscritti nelle liste elettorali assommavano a 40.426.658 unità (non
esisteva ancora la possibilità del voto all'estero). I partecipanti che si
recarono ai seggi furono: 37.755.090 pari al 93,39% (la percentuale dei votanti
si manteneva costante al di sopra del 90% a partire dalle elezioni per la prima
legislatura il 18 aprile del 1948). I voti ritenuti
validi assommarono a: 36.707.578, con 596.541 schede bianche e 1.047.512 schede
nulle. I due più grandi
partiti di massa, la DC e il PCI ottennero rispettivamente 14.209.519 voti lo
scudo crociato e 12.614.650 voti i comunisti per un totale di 26.824.169 voti
pari al 73,08% sul totale dei voti validi e al 66,35% sul totale degli aventi
diritto. Se alla DC e al PCI
aggiungiamo i 3.540.309 voti totalizzati dal PSI (risultato giudicato molto deludente
che determinò un vero e proprio cataclisma all'interno del partito con
l'avvento di Craxi alla segreteria) registriamo che i 3 grandi partiti di massa
disponevano di 30.364. 478 voti pari all'82,71% dei voti validi e al 75,11% del
totale degli iscritti. Per arrivare a quel
risultato le due formazioni maggiori si erano trovate in situazioni
completamente difformi. Il PCI aveva
conseguito un eccezionale risultato nelle amministrative del 15 giugno 1975, grazie
al quale aveva esteso la propria capacità di governo locale in situazioni nelle
quali tradizionalmente si era sempre trovato in minoranza. Un risultato quello
del 20 giugno 1976 per il PCI frutto di un'ondata "lunga" di forte
pressione sociale per un rinnovamento del Paese che aveva avuto al suo centro
le lotte sindacali dell'autunno caldo del 1969, il progredire dell'estensione
dei diritti dei lavoratori(fino al punto unico di scala mobile) e di quelli
sociali, la grande vittoria nel referendum sul divorzio che aveva segnato il
momento fondamentale nella modernizzazione anche culturale del Paese, il
procedere di una forma di distensione nella logica dei blocchi a livello
internazionale, la sconfitta degli USA in Vietnam, la fine delle dittature
fasciste nella penisola iberica, la decolonizzazione in Africa segnata in
particolare dalla liberazione dell'Algeria.
Vietnam e Algeria:
fatti che avevano fatto segnare, nelle nuove generazioni, una crescita
importante di un sentimento internazionalista. Il PCI era stato in
grado, considerato il suo radicamento nelle fabbriche e nei territori, di
capitalizzare questo forte movimento progressista senza assumerne l'avanguardia
e riuscendo anche a marginalizzare, almeno sul piano elettorale, il complesso
dei gruppi formatisi alla sua sinistra che, in quel 20 giugno, avevano formato
il cartello elettorale di Democrazia Proletaria arrestatosi ai 555.890 voti
pari all'1,5%. Una situazione che in
condizioni estreme avrebbe poi avuto conseguenze non secondarie nella stagione
del terrorismo sia al riguardo della "zona grigia" presente
nell'intellettualità e nelle fabbriche, sia dal punto di vista della
"prima linea" militante (e ancora sugli orientamenti mobilitanti di
quello che poi sarebbe stato definito "movimento del '77"). La DC aveva invece
attraversato l'inizio degli anni'70 in una fase di declino: aggredita a destra
dal MSI (rivolta di Reggio Calabria), assunta una funzione da "legge e
ordine" dopo l'attentato di Piazza Fontana, scivolata nel primo governo
Andreotti appoggiato dal PLI, verificato l'esaurimento della prima formula di
centro sinistra (alle elezioni del 1976 si andò sulla base di un articolo
apparso sull'Avanti e firmato dal segretario socialista De Martino nel quale si
affermava come il PSI non avrebbe più partecipato a governi senza i comunisti) la
DC aveva subito una dura sconfitta nel referendum sul divorzio nel quale si era
allineata con la parte cattolica più retriva e con i neo-fascisti. Sostituito
Fanfani con Zaccagnini alla segreteria e Moro alla presidenza, nell'occasione
delle elezioni del 20 giugno la DC aveva usufruito di importanti appoggi da
destra (Montanelli "turatevi il naso e votate DC", la
"maggioranza silenziosa" di Degli Occhi e Rossi di Montelera,
Comunione e Liberazione che nel 1976 elesse il suo primo deputato Mazzarino De
Petro in Liguria) recuperando il tonfo delle amministrative soltanto attraverso
il prosciugamento degli alleati centristi e in particolare del PLI, rientrato
in parlamento per un soffio (quorum per 400 voti a Torino). Insomma: per essere
precisi nella ricostruzione, alla vigilia del 20 giugno nella DC non appariva
delineata quella linea di "terza fase" in seguito attribuita a Moro
quasi come marcia d'avvicinamento verso il PCI. Anzi, al 20 giugno la
DC era arrivata con professioni di moderatismo e parole d'ordine anticomuniste.
Il risultato del 20
giugno aveva così segnato quella situazione di "bipartitismo
imperfetto" coniata da Giorgio Galli: una DC di centro - destra e un PCI
egemone a sinistra, con "l'imperfetto" a significare l'impossibilità
di una alternanza. Impossibilità dovuta a un cumulo di ragioni tra le quali non
esaustiva quella riferita alla situazione internazionale e alla logica dei
blocchi perché presente anche una motivazione di assenza di progetto
d'alternativa da parte del PCI. Il PCI era fermo alla logica dell'arco
costituzionale espressione diretta della linea del "compromesso
storico" elaborato dal segretario Berlinguer nella convinzione
dell'impossibilità (e del rischio democratico) di un governo delle sinistre al
51%; linea del resto condivisa anche all'interno del PSI anche se non
completamente e contestata all'interno del PCI soltanto da Longo e Terracini e
a sinistra dal Pdup-Manifesto. Si determinò così una
situazione di sostanziale immobilismo, con la DC che mantenne un ruolo pivotale
pur non disponendo più di una maggioranza centrista.Una DC collocata al centro di un sistema che non avrebbe
saputo alla fine produrre altro che un monocolore del partito di maggioranza
relativa sostenuto dall'astensione della gran parte del Parlamento (Andreotti
ter, alla Camera 258 favorevoli, 44 contrari dei quali 33 fascisti come scrisse
il Manifesto, 303 astenuti). Il PCI non mosse
nulla sul piano della mobilitazione popolare, anzi la forza sindacale in quel
momento che era ancora di fortissima capacità di mobilitazione sociale si
rivolse alla fine contro la soluzione di governo. Ben prima della
tragica fase contrassegnata dal rapimento e dall'uccisione di Aldo Moro si può
ben affermare che si fosse già avviato un principio di distacco del quadro politico
da parti del Paese (in particolare del mondo del lavoro) che avevano fornito un
formidabile apporto al consolidarsi di un sistema fondato sui partiti di massa.
La classe operaia
pensava, nella sua grande maggioranza, che il sistema dei partiti avrebbe
favorito quella profonda modificazione dello stato di cose in atto che stava
nelle aspirazioni più alte di grandi masse di donne e uomini. La
"politica" aveva toccato proprio il 20 giugno 1976 il punto più alto
nella sua credibilità, autorevolezza, consenso diffuso: dall'esito di quelle
elezioni iniziò invece un declino del sistema nel suo complesso che trovò poi
il suo primo punto di caduta, nel post-rapimento Moro, con l'esito del
referendum dell'11 giugno 1978 su "legge Reale" e legge sul
finanziamento pubblico ai partiti: esito in cui si ravvisò una forte
disaffezione dell'elettorato rispetto alle indicazioni di voto fornite dalle
formazioni maggiori (in particolare sulla questione del finanziamento pubblico
ai partiti). Alle elezioni
anticipate del 1979 l'afflusso al voto registrò un calo del 3% conservando a
stento una quota superiore al 90%: la somma dei due maggiori partiti assommò a
25.700.000 voti, con un calo del PCI di quasi un milione e mezzo di voti
(1.475.419) e un balzo dei radicali, in quel momento caratterizzati come
partito anti- sistema, di 800.000 voti. L'esito di quel
lontano 20 giugno 1976 può oggi essere sintetizzato come quello di un avvio di
un declino del sistema fondato sui partiti di massa . Un declino che si
sarebbe rivelato nella sostanza irreversibile fino all'esplosione definitiva
avvenuta all'inizio del anni'90 a causa dei fenomeni concomitanti e convergenti
di Tangentopoli, della caduta del Muro di Berlino, della firma del trattato di
Maastricht. Un declino, in quel
momento, non avvertito a livello sistemico. I grandi partiti
ignorarono che si stava affermando una "logica della governabilità" e
si stava profondamente modificando il quadro delle relazioni sociali ed
emergevano nuovi fenomeni di costume. Così si manifestavano
tendenze individualistiche e di ripresa di fattori provocanti la crescita delle
disuguaglianze, in controtendenza con quanto era avvenuto negli anni '60-'70. Ci si avviava così
alla drammatica "festa" degli anni'80: quelli dei cancelli della Fiat
e della "Milano da bere".