La storia ha visto diverse lingue
‘internazionali’. Per secoli il latino è stato l’idioma comune che univa le
classi ‘colte’ europee, indipendentemente dalla lingua materna. Il francese poi
è stato la lingua ‘della diplomazia’, utilizzata nelle relazioni formali tra
gli stati, mentre il tedesco è stato per un periodo la lingua ‘della scienza’,
particolarmente nei campi della fisica e della chimica. Questi idiomi
sono stati sostanzialmente spodestati dall’inglese, una lingua diventata
velocemente ‘egemone’ nei rapporti internazionali e - questa è la novità - anche
in molti rapporti quotidiani. È ormai la ‘seconda lingua’ del pianeta, parlata
forse da un miliardo e mezzo di persone secondo stime necessariamente imprecise.
Non è immediatamente ovvio che doveva andare così. L’inglese non è la ‘prima’
lingua del pianeta. Con circa 375 milioni di ‘native speakers’ concentrati
soprattutto in sei democrazie ‘avanzate’ (l’Australia, il Canada, l’Irlanda, la Nuova Zelanda, il Regno
Unito e gli USA), è solo
al terzo posto, superata dal cinese e dallo spagnolo. L’estensione planetaria
dell’inglese parte con l’ormai scomparso Impero Britannico. Riceve una spinta
dalla vittoria dell'alleanza anglosassone nella Seconda guerra mondiale e poi
dalla conseguente ‘Pax americana’ che ora sembra svolgere alla
fine. Da allora la sua forza motrice parrebbe perlopiù economica. I sei paesi
anglosassoni generano nell’insieme all’incirca il 33% dell’intero GDP del
mondo. L’inglese è favorito inoltre da alcuni vantaggi di tipo ‘strutturale’.
Come lo spagnolo, utilizza l’alfabeto romano, mentre gli ideogrammi orientali
non sono direttamente ‘alfabetizzabili’. È complessa l’organizzazione di un
dizionario, di un’enciclopedia o di un elenco telefonico senza ricorrere
all’ordine alfabetico. Rispetto poi alle lingue ‘latine’, l’inglese presenta
anche l’utile semplificazione di fare a meno del ‘gender’ grammaticale. Comincia ora a
nascere una sorta di opposizione culturale alla dominanza dell’idioma
anglosassone, una tendenza che si chiama “linguistic justice”. È
suggestiva che, per essere propagandata nel mondo, si deve utilizzare proprio
l’idioma incriminato. La ‘ingiustizia’ consisterebbe nel fatto che chi nasce
con quella lingua ‘in bocca’ non deve affrontare la fatica e il costo di
impararla. È già pronto a comunicare con il mondo e, pertanto, tende a
guadagnare di più. In Germania, per esempio, si calcola che chi sa parlare pure
l’inglese porti a casa mediamente uno stipendio del 13% maggiore rispetto a
quello del collega mono-lingua. I proponenti della ‘giustizia’ suggeriscono,
tra l’altro, di creare un sistema di tassazione internazionale per far pagare
agli stati dove la lingua corrente è l’inglese le spese sostenute per il suo
insegnamento come ‘lingua straniera’ nei paesi meno linguisticamente fortunati.
Altri ancora propongono la riduzione d’ufficio della durata dei brevetti
rilasciati in inglese di modo che i paesi non-anglofoni possano accedere prima
allo sfruttamento delle invenzioni coperte senza pagare i diritti… *James Hansen cura la settimanale “Nota Diplomatica” ed
è consulente di grandi aziende italiane per le relazioni internazionali.
Arrivato in Italia dagli Stati Uniti negli anni Settanta, è stato diplomatico, corrispondente,
capoufficio stampa di Olivetti, Fininvest e Telecom Italia e direttore della
rivista di geopolitica East.”