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sabato 1 giugno 2024

STUFI DELL’INGLESE
di James Hansen*


James Hansen
 
La storia ha visto diverse lingue ‘internazionali’. Per secoli il latino è stato l’idioma comune che univa le classi ‘colte’ europee, indipendentemente dalla lingua materna. Il francese poi è stato la lingua ‘della diplomazia’, utilizzata nelle relazioni formali tra gli stati, mentre il tedesco è stato per un periodo la lingua ‘della scienza’, particolarmente nei campi della fisica e della chimica.
Questi idiomi sono stati sostanzialmente spodestati dall’inglese, una lingua diventata velocemente ‘egemone’ nei rapporti internazionali e - questa è la novità - anche in molti rapporti quotidiani. È ormai la ‘seconda lingua’ del pianeta, parlata forse da un miliardo e mezzo di persone secondo stime necessariamente imprecise. Non è immediatamente ovvio che doveva andare così. L’inglese non è la ‘prima’ lingua del pianeta. Con circa 375 milioni di ‘native speakers’ concentrati soprattutto in sei democrazie ‘avanzate’ (l’Australia, il Canada, l’Irlanda, la Nuova Zelanda, il Regno Unito e gli USA), è solo al terzo posto, superata dal cinese e dallo spagnolo. L’estensione planetaria dell’inglese parte con l’ormai scomparso Impero Britannico. Riceve una spinta dalla vittoria dell'alleanza anglosassone nella Seconda guerra mondiale e poi dalla conseguente ‘Pax americana’ che ora sembra svolgere alla fine. Da allora la sua forza motrice parrebbe perlopiù economica. I sei paesi anglosassoni generano nell’insieme all’incirca il 33% dell’intero GDP del mondo. L’inglese è favorito inoltre da alcuni vantaggi di tipo strutturale’. Come lo spagnolo, utilizza l’alfabeto romano, mentre gli ideogrammi orientali non sono direttamente ‘alfabetizzabili’. È complessa l’organizzazione di un dizionario, di un’enciclopedia o di un elenco telefonico senza ricorrere all’ordine alfabetico. Rispetto poi alle lingue ‘latine’, l’inglese presenta anche l’utile semplificazione di fare a meno del ‘gender’ grammaticale. 
Comincia ora a nascere una sorta di opposizione culturale alla dominanza dell’idioma anglosassone, una tendenza che si chiama “linguistic justice”. È suggestiva che, per essere propagandata nel mondo, si deve utilizzare proprio l’idioma incriminato. La ‘ingiustizia’ consisterebbe nel fatto che chi nasce con quella lingua ‘in bocca’ non deve affrontare la fatica e il costo di impararla. È già pronto a comunicare con il mondo e, pertanto, tende a guadagnare di più. In Germania, per esempio, si calcola che chi sa parlare pure l’inglese porti a casa mediamente uno stipendio del 13% maggiore rispetto a quello del collega mono-lingua. I proponenti della ‘giustizia’ suggeriscono, tra l’altro, di creare un sistema di tassazione internazionale per far pagare agli stati dove la lingua corrente è l’inglese le spese sostenute per il suo insegnamento come ‘lingua straniera’ nei paesi meno linguisticamente fortunati. Altri ancora propongono la riduzione d’ufficio della durata dei brevetti rilasciati in inglese di modo che i paesi non-anglofoni possano accedere prima allo sfruttamento delle invenzioni coperte senza pagare i diritti…
 
*James Hansen cura la settimanale “Nota Diplomatica” ed è consulente di grandi aziende italiane per le relazioni internazionali. Arrivato in Italia dagli Stati Uniti negli anni Settanta, è stato diplomatico, corrispondente, capoufficio stampa di Olivetti, Fininvest e Telecom Italia e direttore della rivista di geopolitica East.”