NON VOGLIO UNO STATO E NON L’HO MAI VOLUTO di Ameed Faleh*
Era l’inizio della primavera del 2017 e ero in fila per la routine
scolastica quotidiana. Abbiamo fatto la solita routine di alzarci in piedi per
ascoltare l’inno palestinese e il controllo obbligatorio delle unghie di inizio
settimana. L’ispettore ti colpirà le mani con un bastone di legno se non ti
tagli le unghie ogni settimana. Dopo la routine mattutina, abbiamo visto il
nostro insegnante di sport fare un annuncio: “A nome dell’amministrazione
scolastica, vorremmo presentare le nostre condoglianze a Kareem e a tutta la
sua famiglia per il martirio del cugino di Kareem, Ahmad, da parte delle forze
di occupazione israeliane. Coglieremo questo momento di silenzio per piangere e
recitare Fatiha sull’anima di Ahmad. Ero confuso e tremavo. Ho cercato Kareem
inutilmente; non è andato a scuola quel giorno. Tuttavia, ho recitato la Fatiha
sull’anima di Ahmad. L’insegnante di sport continuò: “Nonostante questa grande
perdita e tristezza, siamo radicati nella terra. Nonostante tutto, avremo uno
Stato palestinese con Gerusalemme come capitale e Abu Mazen come presidente”. Ho
sentito gli studenti ridacchiare in un miscuglio di confusione e tristezza. Un
insegnante improvvisamente rise. Tra le sue risate, ha detto: “Abu Mazen e il
suo stato sopravvivranno a tutti noi!” L’atmosfera addolorata del martirio è
stata improvvisamente sradicata e soppiantata dalle risatine degli studenti e
dai commenti a bassa voce dell’insegnante - tutto a causa di una frase relativa
a uno stato palestinese guidato da Mahmoud Abbas. “Uno Stato palestinese con
Gerusalemme [Est] come capitale” è un’affermazione che abbiamo sentito tante
volte: da parte di regimi arabi compradori corrotti e direttamente
complici del genocidio di Gaza, dalla leadership dell’Autorità Palestinese, da
paesi europei e persino da gli Stati Uniti. Esistono delle variazioni, con
alcuni che dicono “uno stato palestinese basato sui confini del 1967”, e altri
che sostituiscono Gerusalemme Est con Gerusalemme per infondere ambiguità nei
processi politici del periodo di Oslo che privano i palestinesi del loro
diritto all’intera Palestina. Sin dalla proclamazione dello Stato da parte di
Arafat il 15 novembre 1988 - considerata una festa ufficiale dall’Autorità
Palestinese e uno zimbello annuale per i palestinesi in Cisgiordania - il
“simbolico” ha sostituito il decoloniale.
La statualità ha sostituito la
liberazione nazionale. Abbiamo una “ricerca” per uno stato, un passaporto,
ministeri, ambasciate, forze di polizia - trascuriamo il fatto che arresta e
uccide i combattenti per amore di ottimismo - e persino il nostro seggio alle
Nazioni Unite come stato osservatore, semplicemente come il Vaticano! Abbiamo
anche insediamenti che dividono la Cisgiordania, posti di blocco il cui scopo è
ridurre la produttività palestinese attraverso arresti e lunghi tempi di
attesa, raid quotidiani che svuotano le città palestinesi delle persone
politicamente più attive, martiri ogni giorno, e una campagna genocida condotta
su Gaza. Qui la statualità crolla con la realtà. Ciò che ci rimane, essenzialmente,
è una delega che riduce gli obblighi di Israele nei confronti del governo
diretto della popolazione della Cisgiordania. Riceve denaro dai paesi donatori
e (a volte tardivamente) ottiene le tasse IVA apparentemente riscosse per suo
conto da Israele. Potrebbe costruire una o due scuole con una parte di quei
soldi! Potrebbe anche rinnovare una strada! La maggior parte di questo denaro,
tuttavia, andrà all’acquisto di proiettili, gas lacrimogeni e nuove fantasiose
attrezzature antisommossa da Israele. Cosa è successo alla costruzione degli
insediamenti, ai rifugiati e alla terra? Sono in attesa di future negoziazioni
sullo status.È fondamentale sottolineare la sostituzione simbolica del materiale; La
Spagna ci ha finalmente riconosciuto come Stato! La Colombia costruirà un’ambasciata
a Ramallah! È bastata un’ambiziosa operazione militare il 7 ottobre, e un
intero genocidio di Gaza da allora in poi, perché questi due paesi facessero le
loro mosse simboliche. Il riconoscimento di uno Stato palestinese - strappato
alla maggior parte del suo legittimo territorio, con i suoi rifugiati ignorati,
in base al “compromesso storico” dell’OLP - implica la fine della costruzione
di insediamenti? Influiscono sulla realtà materiale sul campo? Quali benefici
ottengono i palestinesi da queste mosse? In sostanza, siamo più vicini che mai
ad essere uno Stato ufficiale, ma paradossalmente anche molto lontani
dall’esserlo. Abbiamo bisogno di così tanti uffici? Tanti uomini d’affari
con permessi BMC (permessi rilasciati dall’entità sionista a stronzi ricchissimi,
che permettevano loro di recarsi nei territori colonizzati nel 1948 con la loro
macchina palestinese) e tanti politici?
Abbiamo
bisogno dello status di osservatore non membro delle Nazioni Unite? Cosa
ci ha portato sul campo tutto quanto citato? I primi avvertimenti di
Ghassan Kanafani sulla burocratizzazione della Rivoluzione Palestinese nel
valutare la condotta dell’OLP in Giordania dopo gli eventi di Settembre Nero
sono importanti note mentali da tenere in considerazione quando si articola il
motivo per cui i discorsi hanno sostituito le armi. Questo discorso sulla
statualità ha trasformato il combattente in un funzionario, e il munadel (in
arabo per la persona che lotta, letteralmente un lottatore, solitamente
riservato a combattenti e prigionieri) in un “attivista”. Il significato
del 7 ottobre sta nel fatto che ha rotto questo tabù, recuperando il lessico
palestinese da un ordine mondiale imperialista che cerca di confinare i
palestinesi nel discorso della “costruzione dello Stato”. Non voglio uno
Stato. Voglio la liberazione dai coloni in tutta la Palestina, e l’ultima
delle mie preoccupazioni è avere un ministero o una rappresentanza simbolica
alle Nazioni Unite. Mi importa se ho un passaporto o un ministero se la
mia città sta lentamente diventando un’enclave urbana circondata da coloni
assetati di sangue? Voglio la terra, non uno Stato palestinese dettato da
ciò che i nostri genocidari ritengono appropriato. *Collettivo
Buon Pastore ameed@goodshepherdcollective.org Traduzione
a cura di Parallelo Palestina