Il ritiro del Vate Prioria, Stanza del mascheraio, Stanza
del lebbroso, Corridoio della Via Crucis, Sala delle reliquie, Oratorio dalmata,
Scrittoio del monco, Corridoio del labirinto… sono alcuni dei nomi con cui
Gabriele D’Annunzio ha contrassegnato gli ambienti della sua villa a Gardone
Riviera sulla sponda bresciana del lago di Garda dove si era ritirato e dove si
farà anche seppellire. Quello che è più noto come Vittoriale degli Italiani è
un insieme di edifici distribuiti su quasi “nove ettari”, come ci spiegano i
documenti che lo riguardano, e che domina dall’alto di una luminosa collina il
sottostante lago. L’architetto Giancarlo Maroni che lo ha progettato ha fatto
le cose per bene e non c’è dubbio che i vari elementi che lo compongono (dagli
edifici al teatro all’aperto, dai giardini al monumento funebre e così via) non
lasciano il visitatore indifferente. Abeti, palme, cedri e altra vegetazione,
esaltano le tinte ocra e bianche degli edifici, e quando il sole vi si posa
tutto vi appare armonioso e perfetto: arcate, gradini, passaggi, colonne,
cortili…
E non sorprende che il poeta ne
fosse entusiasta: “Ho trovato qui sul Garda una vecchia
villa appartenuta al defunto dottor Thode. È piena di bei libri... Il giardino
è dolce, con le sue pergole e le sue terrazze in declivio. E la luce calda mi
fa sospirare verso quella di Roma” scrive alla moglie Maria in una lettera del
febbraio del 1921. Quel che farà di questo luogo e della sua casa, che
non poteva essere più sua, più maniacalmente personale, ce lo rivela
egli stesso: “Ho fatto di tutto me la mia casa; e l’amo in ogni parte. Se nel
mio linguaggio la interrogo, ella mi risponde nel mio linguaggio”. Raramente
casa e corpo, casa e committente, si sono fusi in maniera così simbiotica come
in questo caso. Non c’è elemento, oggetto, disposizione, nome, atmosfera,
simbolo, che non faccia parte della sua mitologia, del suo eccesso, della sua
stravaganza, delle sue contraddizioni, del suo esagerato narcisismo, del suo
finto sentimento religioso, del suo inganno, della sua voglia di stupire, di
sedurre.
Le stanze
sono irraccontabili: un caravanserraglio in cui preziose meraviglie, importanti
opere d’arte e il Kitsch più deteriore si mescolano
e convivono. Rispecchiano, in fondo, il D’Annunzio personaggio, l’attore
pubblico, ma forse anche l’anima oscura del suo sottofondo psichico. “Bisogna
convincersi che più ancora che poeta, che romanziere, che uomo di guerra, io
nel Vittoriale, ho dato prova di essere il più grande tappezziere del mondo”
confessa in una intervista. C’è, come in ogni sua postura, dell’esagerazione,
ma c’è anche del vero: bello e pessimo gusto vanno a braccetto in questo luogo
con la più disinvolta naturalezza. Come i simboli retorici e le frasi banali
distribuite a profusione. Battezza Prioria la stanza dove scrive e arriva a
definirsi frate Gabriel priore. Tiene una scultura con il volto di
Eleonora Duse sulla scrivania, ma le copre il viso con un velo affinché la
presenza della morta resti discreta e non lo distragga.
Nella Stanza del
lebbroso siamo al macabro ad imitazione del seicentismo gesuita: al centro è
posizionato addirittura il suo letto-bara. Un dipinto che raffigura san
Francesco che abbraccia un lebbroso dovrebbe giustificare il nome della stanza,
ma ci accorgiamo, in un incontenibile delirio di onnipotenza, che il santo non
è altro che lo stesso D’Annunzio. Quanto all’architrave della stanza denominata
Officina, il luogo dove prendeva corpo la sua creatività di artista, sistemato
in posizione molto bassa rispetto al corpo di un uomo, sono state fatte diverse
ipotesi. Qualcuno ha sostenuto che D’Annunzio lo abbia voluto perché chi vi
entrasse, inchinandosi tributasse un doveroso omaggio alla ricerca, allo
studio, al sapere. Un’altra ipotesi, ma ci pare una forzatura, per umiliare il
suo amico Duce obbligandolo a piegarsi durante la visita alla villa. Considerato
il personaggio, forse non è del tutto sbagliato credere che lo abbia concepito
come l’omaggio dei visitatori a sé stesso.