Pagine

sabato 3 agosto 2024

GIOVANNA ZANGRANDI
di Anna Lina Molteni


 
La vita vera dell’autrice de I giorni veri
 
È stato un destino beffardo quello della scrittrice Giovanna Zangrandi (1910 – 1988), ultimo atto di un’esistenza difficile, seppure ricchissima e per certi versi ineguagliabile. Una di quelle vite che affascinano nei romanzi, e incantano quando le si sentono raccontare, ma con le quali è difficile venire a patti nella realtà.
Negli anni in cui i suoi libri ottengono buoni riconoscimenti dalla critica (tra gli altri, il Premio Grazia Deledda e il Premio Bagutta), è pubblicata da Mondadori e il pubblico di lettori si allarga, facendola uscire dal duplice cliché di scrittrice di montagna e di memorialista, si ammala. Una malattia neurodegenerativa le impedisce il controllo motorio, precludendole le due cose che davano un senso alla sua vita: la scrittura e l’alpinismo. “È diventata montanara e ha fatto la scelta di vivere in montagna e di scrivere storie della gente” ha scritto Mario Rigoni Stern nella prefazione a una ristampa de I giorni veri. Isolata nella casa di Borca di Cadore, inizia l’oblio che durerà decenni.



Alma Bevilacqua, il vero nome di Giovanna Zangrandi, nasce a Galliera il 13 giugno 1910 in una famiglia agiata e di idee liberali. Il padre è veterinario condotto, gli zii paterni conducono una grande tenuta, la Palua, che ritorna spesso nei suoi racconti, come il luogo di un’infanzia felice e libera, a contatto con la natura e gli animali. Si laurea in Chimica a Bologna e diventa assistente alla facoltà di Geologia, ma la città le sta stretta, sogna gli spazi aperti e una vita tra le montagne. Nel ’37 va ad abitare a Cortina dove ha trovato un impiego come insegnante di scienze naturali in una scuola privata. È sola, con due grandi lutti alle spalle. Il padre si è suicidato quando lei aveva tredici anni, la madre muore un mese prima del trasferimento a Cortina.
L’Ampezzo e il Cadore diventano la sua terra promessa: arrampica, scia, è istruttrice di una squadra femminile di sci, scrive i suoi primi articoli per riviste locali: Atesia Augusta, Cadore, Cortina. È la routine di un’insegnante borghese, sicuramente anticonformista e indipendente, ma senza scosse particolari e soprattutto condotta in una dimensione privata, lontana dalla politica.



Poi arriva l’8 settembre 1943 ed è lo spartiacque della sua vita. La provincia di Belluno, con quella di Trento e di Bolzano, sono comprese nell’Alpenvorland sotto la giurisdizione del Reich, il confine sud con la RSI è riportato a quello antecedente al 1918, Dogana Vecchia, Cortina è occupata dai nazisti. Per Alma (Giovanna Zangrandi è ancora di là da venire) è una sorta di brusco risveglio che la porta a una veloce consapevolezza e maturazione. Potrebbe starsene in disparte, continuare a insegnare in attesa che la guerra finisca. È sola al mondo, non ha un fratello o un fidanzato sbandato da nascondere o un padre braccato dai repubblichini; inoltre l’ambiente ampezzano è difficile, numerosi oriundi hanno accolto i tedeschi come liberatori. Ritenendo l’Ampezzo un luogo sicuro, molti gerarchi fascisti vi hanno trasferito le famiglie, tra questi Alessandro Pavolini, il cui figlio frequenta la scuola dove insegna. Invece, dopo un’iniziale collaborazione con una rete che aiuta i soldati sbandati e come staffetta tra Cortina (Alpenvorland) e Pieve di Cadore (RSI) - la scuola ha sede in entrambi i paesi e Alma può passare più volte la settimana il confine senza destare sospetti - scrive una lettera al comandante della brigata garibaldina Pier Fortunato Calvi, offrendo la propria collaborazione, che viene accettata. 



Assume il nome di battaglia di Anna, e Anna rimarrà per amici e conoscenti anche a guerra conclusa, e le sue attività si moltiplicano velocemente. Fa rilievi topografici che poi traduce in mappe, procura esplosivi, che maneggia con la perizia di un chimico, conosce le rocce e ne valuta la resistenza alle mine. La conoscenza dei luoghi la fa un’ottima guida per i partigiani provenienti da altre zone. Quando viene identificata, scampa per un soffio la cattura e, con una taglia di 50.000 Lire sulla testa, continua la sua “guerra” alla macchia. Astuta, intelligente, coraggiosa e con nervi d’acciaio la ricordano i compagni di lotta. 



La sua vita è un andare continuo, a piedi o sugli sci. Trasferimenti notturni a temperature bassissime, con il pericolo costante del congelamento e delle valanghe, rischiose discese in paese alla ricerca di cibo e per tenere i collegamenti con i recapiti sparsi tra i fienili e le case contadine, dove quelle che lei definirà le donne delle cucine tengono attiva una rete di supporto e di assistenza. Dopo il Proclama Alexander del 13 novembre 1944, trascorre l’inverno del ’44 all’addiaccio, alla Memora. A 1600 metri, sotto una roccia strabordante, che ripara una stretta cengia dalla neve e dalle slavine, e le cime dei larici a fare da schermo, vi si accampa con due giovani compagni fino alla primavera del ’45, quando riprendono le azioni. Scesa dalla Memora, pedala per chilometri lungo la valle del Piave – scalcinate soldatesse dei pedali, chiama le staffette – finché a guerra praticamente conclusa e con l’esercito tedesco in ritirata, un altro lutto allunga un’ombra sinistra sul suo futuro, e lo condizionerà pesantemente. 



Il 26 aprile l’ultimo comandante della brigata Calvi, Severino Rizzardi, viene ucciso in un agguato ad Auronzo. Con lui Anna, che ne era innamorata, aveva sognato un futuro condiviso come rifugisti in montagna, sulla sella di Pradonego, dove lei nel 1946 costruirà il rifugio Antelao. Aiutata da un gruppetto di operai, ma lavorando anche lei manualmente e aprendo una strada con la dinamite, che aveva imparato così bene a usare durante la Resistenza, erige questa specie di “tempio alla memoria” di Severino, lo gestisce in prima persona per qualche anno, ma poi è costretta a rinunciare e lo vende al CAI di Treviso, che ne è tuttora il proprietario e lo tiene aperto tutto l’anno.



Non ritorna più a insegnare e si arrabatta in mille lavori: cuoca, portatrice – si merita il soprannome di Anna sherpa – venditrice ambulante di corredi per la casa e pupazzi di peluche per i bambini. Contemporaneamente affitta la sua casa di Cortina ai villeggianti, fornendo un servizio che oggi si direbbe di bed&breakfast, ma nella “regina delle Dolomiti” il rapporto con gli ampezzani si è fatto difficile. Lei non riesce a dimenticare l’accoglienza entusiasta e la connivenza di tanti con i tedeschi, loro non le perdonano gli attacchi feroci, sovente usando il sarcasmo, dalle pagine del Val Boite, il giornale che Anna dirige nei primi mesi dopo la Liberazione.



Alla fine, se ne va. Vende la casa di Cortina e si costruisce una casetta a Borca di Cadore, di fronte al versante occidentale dell’Antelao. Ci va a vivere in compagnia di Attila, il pastore tedesco che darà il titolo alla sua raccolta di racconti Anni con Attila, pubblicata nel 1966 da Mondadori nella collana Il tornasole, diretta da Vittorio Sereni. A Borca Anna si è costruita la sua piccola Heimat, tra i suoi libri e le sue montagne ed è qui che nasce Giovanna Zangrandi, la scrittrice.



Dal 1953 in poi sarà un susseguirsi di titoli, fino al libro considerato il suo capolavoro, I giorni veri, pubblicato da Mondadori nel 1963. Osteggiato da Vittorini, che non amava Zangrandi, ma da molti considerato uno dei migliori libri sulla Resistenza, al pari di Una questione privata di Beppe Fenoglio e I piccoli maestri di Luigi Meneghello.
Un diario della Resistenza che merita un articolo a parte.