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domenica 4 agosto 2024

L’UMORISMO CORROSIVO DI TALARICO
di Angelo Gaccione


Vincenzo Talarico

Ripubblicato a distanza di 92 anni da Hortusacri il libro di esordio dello scrittore e uomo di cinema Vincenzo TalaricoIl libro sarà presentato mercoledì 7 agosto 2024 nella città di Acri, luogo di nascita dello scrittore. 

 

La copertina del libro
 
  

Cominciamo con qualche dato necessario. Vincenzo Talarico fu scrittore e giornalista con la passione per questo mestiere nel sangue. Collaboratore e inviato speciale di prestigiosi quotidiani e riviste, tra cui “Il resto del Carlino”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “L’Europeo”, “Epoca”, “Il Messaggero”, “La Stampa”, “La Gazzetta del Popolo”, “Settimo Giorno”, “Il Travaso” e soprattutto il “Momento Sera”. Nel 1952 divenne direttore del settimanale umoristico “Cantachiaro”. Nel 1943 pubblica Vita di Scanderbeg, nel 1944 Splendori e Miserie delle Sorelle Petacci, usando lo pseudonimo Mercutio e Mussolini in pantofole. Del 1965 è Otto settembre, letterati in fuga, considerato il suo libro migliore, e del 1967 I passi Perduti. Oltre a questi, vanno ricordati: Pasquino insanguinato, Claretta Petacci, fiore del mio giardino, Le escursioni degli intellettuali, Il caffè Aragno a Roma. Chi legge questi libri – scrive Giovanni Russo – “si rende conto di come Talarico fosse molto più di un cronista mondano, uno scrittore che sapeva cogliere gli aspetti della realtà con un umorismo che lo avvicina ad Ennio Flaiano”. Fece parte attiva della vita intellettuale romana frequentando intellettuali, artisti, letterati come Patti, De Feo, Steno, Pannunzio, Flaiano, Russo, Brancati, Mazzacurati, Guttuso, Savinio, e prese parte come giurato al Premio Strega di Maria Bellonci. Nel 1963 gli fu assegnato il Premio Saint Vincent per il giornalismo. Un posto non secondario Talarico occupa anche nel campo della filmografia. Il suo esordio nel cinema risale al 1940, come sceneggiatore del film Senza cielo, diretto da Alfredo Guarini. Nel 1953 scrisse la sceneggiatura di Anni facili di Luigi Zampa, che gli valse l’attribuzione di un “Nastro d’argento”. Altri film che lo videro attore sono: Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani, Dov’è la libertà? (1954) di Roberto Rossellini, Il vigile (1960) di Luigi Zampa, Un giorno in pretura (1953), Un americano a Roma (1954) di Alberto Sordi, Il mattatore (1960) di Dino Risi. Numerose le sceneggiature da lui scritte per tanti film, tra cui Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti, Mare chiaro (1949) di Giorgio Ferroni, Totò cerca pace (1954), Pane, amore e gelosia (1954), Il bigamo (1956) di Luciano Emmer. Si è spento a Fiuggi (Roma), il 16 agosto 1972. Acri, sua città natale, gli ha dedicato una via nel rione Padìa, e così Roma, sua città di elezione. 


Talarico e amici intellettuali

In letteratura aveva esordito giovanissimo con la raccolta di novelle: Vita romanzata di mio nonno. Sono passati novantadue anni dalla pubblicazione di quel libro, era il 1932, X anniversario dell’era fascista, come si può leggere nel frontespizio del libretto pubblicato nella Collana Romantica curata da Mario Gastaldi della Casa Editrice denominata “Quaderni di Poesia” di Emo Cavalleri, e che aveva il doppio recapito geografico tra Milano e Como. Otto novelle in tutto comprese sotto il titolo dell’omonimo racconto Vita romanzata di mio nonno che apre la raccolta. L’autore aveva all’epoca 23 anni, essendo nato ad Acri il 28 aprile del 1909. Un libro d’esordio dunque, di un giovane con la passione dello studio e della scrittura, e che si era certamente cimentato precocemente con sonetti e tentato la via della prosa. Nella lunga ed ironica prefazione al libretto, Talarico stesso ci informa che già diciassettenne aveva scritto “più sonetti” del poeta di Riva Ligure, Francesco Pastonghi, e “più novelle” di Lucio D’Ambra, lo scrittore romano il cui vero nome era Renato Manganella. Non sappiamo che fine abbia fatto tutta quella copiosa produzione; se se ne sia deliberatamente disfatto negli anni successivi giudicandola debole e imperfetta; se invece ne sono rimaste tracce da qualche parte, conservate come affettuose acerbe prove di apprendistato necessario e doveroso per una parabola più alta e matura. Ad ogni modo, quel che è certo è che al momento della pubblicazione di queste otto novelle, Talarico si era impadronito di una disinvolta abilità di narratore e rivelava un occhio acuto nel cogliere non solo la superficie dei suoi personaggi. Risorse con le quali avrebbe dato fondo al suo estro spigliato e brioso per condire una fantasia fervida, spiazzante, ribollente.

Talarico in una scena del film
Un americano a Roma

Quanto all’umorismo, ne aveva in eccesso e lo sapeva condire nel migliore dei modi, e presto si rivelò la cifra del suo stile e del suo carattere. Quest’uomo, in parte misogino e in parte misantropo, come ironicamente si definisce lui stesso, dall’aria austera e nello stesso tempo dotato di un volto che più teatrale non si può; aristocratico per gusti, nostalgico e naufrago di un passato che declinava, ci consegnava sette brevi racconti più un atto unico (“Sunt lacrimae rerum”) intrisi di vis comica, parodia, eccesso, senso del grottesco, tenerezza, suscitandoci il buonumore, la scanzonata adesione, la complicità e la comprensione umana. Così avviene rileggendo in questa nuova benemerita edizione (Hortusacri 2024, pagine 158) che toglie le otto storie dall’oblio, la vicenda del furto in quel di Napoli dell’orologio d’oro a triplice cassa e a retrocarica con incise le iniziali del cognato di Napoleone Bonaparte, Gioacchino Murat, nel racconto di apertura. O nell’episodio delle fotografie con la Croce di Cavaliere appuntata sul lato sbagliato della giacca nello stesso racconto. E altrettanto avviene gustando il mosso e paradossale racconto intitolato “L’ultimo zio d’America”; quello dall’esito surreale e miracoloso di “Tragica avventura di bordo”; o quello compreso sotto il lungo titolo “Il barone usciva in quel momento dal gabinetto di toilette ed era accuratamente rasato…” che chiude la raccolta e che a me è parso il più riuscito ed il più disteso. In questa novella la parodia di Padre Leone di Bisignano, al secolo Leopoldo, bambino che il Beato Umile aveva guarito dalla risipola infantile preservandolo dalla morte, e che a seguito del miracolo entrerà nel convento francescano, scorre lungo tutta la narrazione in un crescendo fatto di esaltazione mistica, di tormento, di dubbio, di tentazioni, fino all’apoteosi finale. In convento c’era entrato a dieci anni e lì era rimasto fino alla consacrazione, quando aveva assunto il nome di frate Leone. Entrato imberbe e non essendosi mai rasato, con l’età matura frate Leone poteva esibire una fluente, solenne e ieratica barba che accentuava ancor più il suo prestigio di uomo di studio e di predicatore. Aveva portato quella barba in ogni dove, come aveva portato il suo eloquio e la sua facondia. I fedeli e gli auditori avevano potuto ammirarne la dottrina e nello stesso tempo incantarsi a quel trionfo di peli che contornavano il suo viso come una piccola foresta.



Il suo viso… già, ma qual era il suo viso? Frate Leone non lo aveva mai visto; per un tempo oramai divenuto lungo non aveva potuto scorgere che una massa di lunghi peli occupare ogni millimetro del suo volto, nient’altro. Non ne conosceva le fattezze e ignorava se sotto quei peli ne avesse uno; se c’era egli non lo conosceva. Ah se non fosse stata per quella mania tutta frivola e moderna di rasarsi il viso! Se non si fosse mai imbattuto quel sabato pomeriggio in quel giovinotto che usciva dal salone di barbiere appena sbarbato che si deliziava il viso scorrendovi soddisfatto il palmo ed il dorso! E soprattutto se non gli fosse rimasta inchiodata nel subconscio la frase di quel maledetto satanico libro che veniva ora sempre più prepotente a tormentarlo! “Il barone usciva, in quel momento, dal gabinetto di toilette ed era accuratamente raso…”.



Accuratamente raso! Ancora una volta quella frase prefigurava la sua rovina. Aveva finito per capitolare sotto il peso di quel verbo tremendo: raso; lui, padre Leone, un vero leone di dottrina e di rigore, si era dovuto arrendere ad una pulsione che non controllava più. “Anche padre leone da Bisignano, il panegirista elevato e compito, l’oratore formidabile, il polemista imbattibile, lo scrittore geniale e forbito, l’umorista fine e garbato, l’accanito flagellatore delle mollezze…” si era dimostrato debole, uomo tra uomini. Si era tolto il saio e rinunciato alla vita austera del convento. Indossato panni borghesi e secolari, Leopoldo si era introdotto nel salone del barbiere per farsi radere…  


 LA LOCANDINA


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