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giovedì 22 agosto 2024

NON RICORDARE PRAGA INVANO
di Franco Astengo


 

Chissà se verificheremo un completo smarrimento della memoria ignorando la ricorrenza dell’invasione di Praga (21 agosto) da parte delle truppe del Patto di Varsavia e l’implicanza di quei fatti sull’allora movimento comunista internazionale e sul complesso delle relazioni internazionali all’epoca e nei tempi a venire? È probabile che ciò avvenga e di conseguenza una ragione di più per cercare di ricostruire (molto parzialmente) quello che era il clima politico dell’epoca contrassegnato dalla logica dei blocchi che stavano irrigidendosi, dalla guerra del VietNam che stava inasprendosi, dal conflitto israelo-palestinese, dall’emergere di forti contraddizioni nel processo di decolonizzazione, dalla scissione russo/cinese e dalla fase successiva alla rivoluzione culturale maoista: il tutto nell’anno dei portenti, pochi mesi dopo il maggio parigino e tutto il mondo giovanile, da Berkeley a Dakar, in grande fermento.
In questo contesto il tentativo della “primavera di Praga” iniziò coltivando l’ipotesi che fosse possibile andare oltre le diagnosi e i rimedi proposti dal XX congresso del PCUS nel 1956, utilizzando lo spazio aperto dalla nuova politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev che in quel '68 era già arretrata dentro la normalizzazione brezneviana.



L’idea di “andare oltre” il XX congresso pur essendo presente come corrente all’interno dei partiti comunisti in tutto l’ambito del Patto di Varsavia, ebbe effettivamente una funzione politica decisiva soltanto in due casi: in Ungheria e in Cecoslovacchia. La Cecoslovacchia era il paese dove più forte era il consenso e la partecipazione della classe operaia in un paese fortemente e modernamente industrializzato almeno nella parte boema e morava.
Di fronte alla politica di “normalizzazione” seguita ai fatti ungheresi del 1956 in Cecoslovacchia si era aperta, fin dall’inizio degli anni ’60 per poi prendere corpo nel corso del decennio, l’idea di un nuovo sistema politico.
Questa idea fu al centro dei più franchi dibattiti pubblici che ebbero luogo nei Paesi dell’Est, tra il gennaio e l’agosto del 1968.



Nella sinistra in cui i comunisti lavoravano in direzione dell’emancipazione politica delle forze sociali, c’era una traccia autenticamente pluralista.
Nel loro programma c’era anche, e veniva apertamente affermato da alcuni teorici del movimento, uno sforzo per cambiare i rapporti tra stato e società civile.
A posteriori, si può vedere in questo passaggio un primo accenno a una strategia che, più tardi, sarebbe stata applicata in Polonia: basare la lotta per le riforme su un movimento sociale esterno al Partito. Ma in Cecoslovacchia questa ipotesi fu prospettata solo quando il movimento della “primavera” era ormai sulla difensiva. Dopo l’aprile del 1969 il tentativo di riforma, nel senso tradizionale del termine, non costituì più un’opzione praticabile, ma le conclusioni da trarre dalla sconfitta non erano per nulla ovvie.
Al PCI, alla sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere compiendo uno sforzo  per alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in modificazioni reali dell’economia, dello Stato, delle forme di organizzazione, così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non nel cielo della politica, o all’interno delle coscienze, e soprattutto potesse via, via, vivere come dato materiale.



Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema. Solo la crescita di un conflitto politico reale, di un’opposizione cui dar vita dall’interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un’alternativa.
La posizione del quotidiano “il Manifesto” restò sostanzialmente isolata sia sul piano internazionale (spaventoso il ritardo del PCF in rotta con gli intellettuali e del tutto sordo al 68 studentesco), sia all’interno del sistema politico italiano con il PCI non ancora  attrezzato ad affrontare il tema del centralismo democratico (nonostante un dibattito interno “aperto” almeno fin dal convegno del Gramsci del ’62 sulle tendenze del capitalismo e poi proseguito nell’XI congresso), il PSI impigliato nelle spire dell’esito negativo delle riunificazione socialdemocratica (nonostante alcuni seri tentativi della sinistra interna) e lo PSIUP la cui maggioranza si era allineata alle posizioni dei “carristi” perdendo quelle posizioni di originalità che pure potevano trasformarlo in un soggetto critico e dialettico nell'ambito della sinistra italiana.



In seguito Rossana Rossanda introducendo, dieci anni dopo, a Venezia un convegno su “potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie” organizzato dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono per la prima volta di persona dissidenti dell’Est russi, polacchi, cecoslovacchi, sostenne che si era smarrita in quel frangente l’idea del socialismo, non come generica aspirazione, ma come “teoria di una società”, modo diverso degli uomini di organizzare la loro esistenza.
Ricordare gli elementi fondativi della primavera di Praga, oggi di fronte al fallimento epocale dell’ipotesi capitalistica seguita alla caduta dei blocchi e all’affermazione di un solo modello di egemonia sociale fondato sull’iper-liberismo e sull’assolutismo della finanza su cui si è basato fino al 2008 il modello di globalizzazione potrebbe rappresentare ancora esercizio utile se partiamo proprio dall’idea di non abbandonare l’obiettivo di una società “altra” fondata sull’eguaglianza e sulla fine dello sfruttamento indiscriminato sul genere umano e sulla natura, che erano rimastele aspirazioni di fondo anche di coloro che condussero, sconfitti, quel drammatico frangente dell’Agosto 1968.