Chissà
se verificheremo un completo smarrimento della memoria ignorando la ricorrenza
dell’invasione di Praga (21 agosto) da parte delle truppe del Patto di Varsavia
e l’implicanza di quei fatti sull’allora movimento comunista internazionale e
sul complesso delle relazioni internazionali all’epoca e nei tempi a venire? È
probabile che ciò avvenga e di conseguenza una ragione di più per cercare di
ricostruire (molto parzialmente) quello che era il clima politico dell’epoca
contrassegnato dalla logica dei blocchi che stavano irrigidendosi, dalla guerra
del VietNam che stava inasprendosi, dal conflitto israelo-palestinese, dall’emergere
di forti contraddizioni nel processo di decolonizzazione, dalla scissione
russo/cinese e dalla fase successiva alla rivoluzione culturale maoista: il
tutto nell’anno dei portenti, pochi mesi dopo il maggio parigino e tutto il
mondo giovanile, da Berkeley a Dakar, in grande fermento. In
questo contesto il tentativo della “primavera di
Praga” iniziò coltivando l’ipotesi che fosse possibile andare oltre le diagnosi
e i rimedi proposti dal XX congresso del PCUS nel 1956, utilizzando lo spazio
aperto dalla nuova politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev che in
quel '68 era già arretrata dentro la normalizzazione brezneviana.
L’idea di “andare oltre” il XX congresso pur essendo presente come
corrente all’interno dei partiti comunisti in tutto l’ambito del Patto di
Varsavia, ebbe effettivamente una funzione politica decisiva soltanto in due
casi: in Ungheria e in Cecoslovacchia.La Cecoslovacchia era
il paese dove più forte era il consenso e la partecipazione della classe
operaia in un paese fortemente e modernamente industrializzato almeno nella
parte boema e morava. Di fronte alla politica di “normalizzazione” seguita ai fatti
ungheresi del 1956 in Cecoslovacchia si era aperta, fin dall’inizio degli anni ’60
per poi prendere corpo nel corso del decennio, l’idea di un nuovo sistema
politico. Questa idea fu al centro dei più franchi dibattiti pubblici che
ebbero luogo nei Paesi dell’Est, tra il gennaio e l’agosto del 1968.
Nella sinistra in cui i comunisti lavoravano in direzione
dell’emancipazione politica delle forze sociali, c’era una traccia
autenticamente pluralista. Nel loro programma c’era anche, e veniva apertamente affermato da
alcuni teorici del movimento, uno sforzo per cambiare i rapporti tra stato e
società civile. A posteriori, si può vedere in questo passaggio un primo accenno a
una strategia che, più tardi, sarebbe stata applicata in Polonia: basare la
lotta per le riforme su un movimento sociale esterno al Partito.Ma
in Cecoslovacchia questa ipotesi fu prospettata solo quando il movimento della
“primavera” era ormai sulla difensiva.Dopo
l’aprile del 1969 il tentativo di riforma, nel senso tradizionale del termine,
non costituì più un’opzione praticabile, ma le conclusioni da trarre dalla
sconfitta non erano per nulla ovvie. Al PCI, alla sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere
compiendo uno sforzoper alimentare e
organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa della classe
operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente
anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in
modificazioni reali dell’economia, dello Stato, delle forme di organizzazione,
così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non
nel cielo della politica, o all’interno delle coscienze, e soprattutto potesse
via, via, vivere come dato materiale.
Per far questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti
del blocco sovietico un atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo
atto che ormai era senza senso pensare a un’autoriforma del sistema.Solo
la crescita di un conflitto politico reale, di un’opposizione cui dar vita dall’interno
del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire un’alternativa. La posizione del quotidiano “il Manifesto” restò sostanzialmente
isolata sia sul piano internazionale (spaventoso il ritardo del PCF in rotta
con gli intellettuali e del tutto sordo al 68 studentesco), sia all’interno del
sistema politico italiano con il PCI non ancoraattrezzato ad affrontare il tema del centralismo democratico (nonostante
un dibattito interno “aperto” almeno fin dal convegno del Gramsci del ’62 sulle
tendenze del capitalismo e poi proseguito nell’XI congresso), il PSI impigliato
nelle spire dell’esito negativo delle riunificazione socialdemocratica
(nonostante alcuni seri tentativi della sinistra interna) e lo PSIUP la cui
maggioranza si era allineata alle posizioni dei “carristi” perdendo quelle
posizioni di originalità che pure potevano trasformarlo in un soggetto critico
e dialettico nell'ambito della sinistra italiana.
In seguito Rossana Rossanda introducendo, dieci anni dopo, a
Venezia un convegno su “potere e opposizione nelle società post-rivoluzionarie”
organizzato dal PdUP-Manifesto e al quale parteciparono per la prima volta di
persona dissidenti dell’Est russi, polacchi, cecoslovacchi, sostenne che si era
smarrita in quel frangente l’idea del socialismo, non come generica
aspirazione, ma come “teoria di una società”, modo diverso degli uomini di
organizzare la loro esistenza. Ricordare gli elementi fondativi della primavera di Praga, oggi di
fronte al fallimento epocale dell’ipotesi capitalistica seguita alla caduta dei
blocchi e all’affermazione di un solo modello di egemonia sociale fondato sull’iper-liberismo
e sull’assolutismo della finanza su cui si è basato fino al 2008 il modello di
globalizzazione potrebbe rappresentare ancora esercizio utile se partiamo
proprio dall’idea di non abbandonare l’obiettivo di una società “altra” fondata
sull’eguaglianza e sulla fine dello sfruttamento indiscriminato sul genere
umano e sulla natura, che erano rimastele aspirazioni di fondo anche di coloro
che condussero, sconfitti, quel drammatico frangente dell’Agosto 1968.