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mercoledì 18 settembre 2024
POETI
di Laura Margherita Volante
Incubo e vergogna
Fame…
arma di guerra
Un bambino
ha fame
Una donna incinta
ha fame
Un anziano annerito
ha fame
e la sua mano tremante
ha fame...
di pietà e giustizia.
Incubo e vergogna
non vanno più
insieme.
C’è incubo e non c’è vergogna.
Il mondo esulta… per gli
imperialisti!
Il silenzio non va d’accordo
con la vergogna.
La vergogna è la
vedova nera e
l’umanità non è in
lutto…
non piange e
non ha fame
Un tozzo di pane
è il fossile del
futuro… anteriore.
martedì 17 settembre 2024
SILENZIO
di Luigi Mazzella
Il silenzio degli aderenti
al partito più votato d’Italia: gli astensionisti.
L’invenzione fascista
degli anni Venti diretta a consentire a
una minoranza di esagitati di impossessarsi del governo del Paese con un
sistema elettorale truffaldino, ripresa prima dal “leghista” Calderoli negli
anni Berlusconiani pur con l’idea chiara e denunciata che si trattasse di una
“porcata”, e poi negli anni successivi dal “democratico” Rosati, e ritenuta utile, da entrambi, per mettere a tacere la
maggioranza divisa degli Italiani dissenzienti dai fanatismi ideologici
filo-fascisti o filo-comunisti, ha compiuto, dopo la conversione di tutti
(proprio tutti, da destra a sinistra, passando per il centro) i partiti
politici all’atlantismo guerrafondaio della Nato(diretta sostanzialmente dai
militari Anglo-Americani) e al finto e servile Europeismo, gestito da Vicerè filo-statunitensi, controllati come sopra, ha
compiuto la “magìa” di fare scomparire dalla nostra scena politica ogni voce di
dissenso anti-americano (in versione pacifista) e anti- europeo (in versione
riformista), confinando gli uomini veramente liberi e non soggetti a fideismi
religiosi giudaico-cristiani o a fanatismi ideologici post-hegeliani di destra
o di sinistra nel novero degli “astensionisti”, facendone il partito-fantasma
più votato d’Italia.
Il danno per le sorti del
Bel Paese è di tutta evidenza. È probabile che tra gli esclusi dal dibattito
sulle scelte politiche da fare per la ripresa economica degli Italiani vi siano
di quelli che non credono che gli Stati Uniti abbiano pensato ad altro che ai
propri interessi nella loro gestione “coloniale” del Vecchio Continente (da cui
non a caso la Gran Bretagna, con la Brexit,
ha pensato bene di tenersi lontana) e ricordano che l’Italia, pur
sconfitta in guerra e distrutta dalle bombe anglo-americane, era stata capace di
imporsi al mondo con un boom economico (il cosiddetto “Miracolo italiano”) che
allarmò i vincitori della seconda guerra mondiale che avevano imposto in una
clausola del Trattato di pace il blocco della nostra crescita economica. Checché
ne pensino l’Harris
ridens, l’ineffabile Draghi
amato a Wall Street anche più che a Bruxelles per gli indebitamenti che ci
suggerisce, gli esperti di rapporti internazionali non ancora abbastanza delusi
da decenni di politiche sbagliate, gli eterni “dipendenti” dai favori dello zio
Sam sempre impauriti dagli abbandoni da lui minacciati, un’Europa restituita a
sé stessa, libera di muoversi nelle direzioni ad essa più favorevoli, con
servizi di intelligence sottratti al governo sotterraneo della CIA e
dell’MI6, libera di applicare una politica non limitata, fiscalmente, a una
flat-tax per poveri e, socialmente, alle elemosine consentite dal partito
democratico americano (bonus, sussidi, redditi di varia denominazione) potrebbe
riprendersi e sottrarsi al pericolo di scivolare, restando sul percorso
inclinato sul quale l’Occidente gestito dagli Anglosassoni si è,
irrimediabilmente, posto.
POETI
di Cataldo Russo
Quando trovi un buon ministro…
Quando hai la fortuna di trovare
un ministro alla cultura
con un pedigree così altisonante
baci per terra, ringrazi il Signore
gli metti il guinzaglio
e te lo tieni stretto,
stretto al petto come un neonato che
ha bisogno del buffetto e la poppata.
Quando hai la fortuna di trovarlo
è come avere in mano un tesoretto
e allora difenderlo dovrai con
carta bollata e spada sguainata anche
quando fa una gaffe o ne spara una
delle sue che lascia senza parole
e senza fiato.
Perché è giusto che un ministro
dica, non dica e poi ritratti tutto,
che sappia essere compunto
e allegro nello stesso tempo
e non disdegni le raccomandazioni
le dolci compagnie di donne avvenenti
e i viaggi a carico dell’ente.
Quando trovi un ministro di siffatta
levatura allora ti rivolgi al Signore
e invochi lunga vita con salute
per poi destinarlo al museo delle
cere, della disonestà e delle papere
insieme alla Santanché, a Lollobrigida,
la buonanima del cavaliere e il
professorone che ama le pecore
e odia le capre per via delle
corna attorcigliate.
Quando trovi un ministro
di così grande statura fisica e morale
ti penti di non avergli messo
la museruola perché più ciancia
e più si manifesta essere soltanto
un piccolo puffetto che ama le pose
del gigante e fare karakiri
davanti la “boccia” inebriante.
lunedì 16 settembre 2024
LA MILANO DEI NON MILANESI
Gaccione
alla Biblioteca Chiesa Rossa
Via San Domenico Savio 3 – piazzale
Abbiategrasso, Milano
Capolinea MM2/Verde – tram 3 e 15. Ingresso libero.
Giovedì
26 settembre 2024 alle ore 18
Presentazione del libro di Angelo
Gaccione
La mia Milano
Meravigli Ed. Milano 2023
Dialogano con l’autore
Nino Di Paolo
Giuseppe Langella
Adam Vaccaro
Maria Carla Baroni
POLITICI E MAGISTRATI
di Franco Astengo
Salvini e Toti
Vantaggi elettorali e supplenza della magistratura.
L’intreccio tra il "caso Toti" e quello
"Salvini" (pur ben diversi tra loro) rappresenta ancora una volta il
ruolo di supplenza che la magistratura esercita ormai da molto tempo sul
fragile sistema politico italiano.
Al riguardo del tema degli equilibri e dei rapporti di forza il
punto rimane quello degli effetti sulla partecipazione al voto in costante
discesa ed è prevedibile che il fenomeno si ripeterà, nonostante l'attenzione
dei media, anche nelle prossime elezioni regionali in Liguria.
Il fenomeno della “supplenza” che la magistratura ha esercitato,
in Italia, nei confronti della politica risale ormai a quarant'anni fa ben in
anticipo di rispetto a "Tangentopoli": se pensiamo, ad esempio, al
“caso Teardo” scoppiato in Liguria nel 1983 (diverso fu il caso, contemporaneo,
di Torino, perché in quel frangente fu il sindaco Diego Novelli ad attivare il
percorso giudiziario, e quindi fu la politica a “investire” la magistratura).
Guai a chi pensa di trarne vantaggi elettorali!
Un ruolo di “supplenza” che non è stato esercitato soltanto nei
confronti del classico rapporto tra “questione morale” e “questione politica”,
quella delle tangenti tanto per intenderci (nel frattempo mutata di segno, come
hanno dimostrato i casi più recenti) ma sull’insieme delle contraddizioni
sociali più rilevanti, pensiamo, tanto per fare un esempio al conflitto (un
orrore chiamarlo così e mi scuso di usare un termine meramente giornalistico)
tra ambiente e lavoro, nel caso
dell’Ilva di Taranto e dei migranti.
Nel frattempo che la magistratura svolgeva questo compito,
deperivano, via, via, i soggetti politici ridotti a espressione di mera
“geografia elettorale” (tanto per sintetizzare con una sola battuta) del tutto
subalterni, anche a sinistra, ai meccanismi della personalizzazione e alle
sirene del movimentismo.
A Sinistra la questione non è stata affrontata dal punto di vista
riguardante le “fratture” sulle quali agire politicamente prospettando
un’alternativa che non sia di “governo”, ma di società e di sistema, ma
soltanto sotto l'aspetto della ricerca di artifizi che consentissero la
"governabilità" in un quadro di successivo aggravarsi del fenomeno
della "fragilità del sistema".
Salvini e Toti |
GUERRA AL DIRITTO, GUERRA ALL’UMANITÀ
Scempi di pace, disastri di guerra
Tromba d'aria a Piombino
Scempi di pace
Segnali
inquietanti nella città del rigassificatore, Piombino: ripetute trombe d’aria
sul porto, incendio su un traghetto. Dov’è il piano
di evacuazione per 33.000 abitanti? Chilometri di
scavi ingenti in corso nel sottosuolo della città d’arte alluvionata nel 1966.
A luglio 2023
i Vigili del Fuoco denunciano: si scava senza un piano di emergenza.
A luglio 2023
un’audizione urgente su questa e altre gravi falle del progetto viene chiesta
in Commissione ambiente della Regione: mai accordata, nonostante i solleciti.
Dove sono le
misure di protezione di decine di migliaia di abitanti e visitatori?
Possono Giunta
e Consiglio regionale della Toscana dormire sonni tranquilli?
Disastri di guerra
Tromba d'aria a Piombino |
Dal Regno Unito la minaccia di missili a
lunga gittata con cui armare l’esercito ucraino nel conflitto con la
Federazione russa
Verso un
epilogo nucleare? Non in nostro nome!
Regno Unito,
per piacere ripensaci!
Guerra al diritto, guerra all’umanità: un solo
codice?
Martedì 17
settembre l’associazione fiorentina Idra
propone informazione alla cittadinanza: alle ore 12 davanti al Consiglio regionale
della Toscana, Via Cavour 4; alle ore 15
davanti al British Institute of Florence, Lungarno Guicciardini 9, sede della rappresentanza culturale del
Regno Unito nel capoluogo toscano.
Associazione Idra
- Firenze
venerdì 13 settembre 2024
IL DON JUAN
DI BYRON
di Angelo Gaccione
È stato un vero peccato
che Giuliano Dego non abbia potuto tradurre tutto intero il Don Juan di
Byron. Ma forse, come scrive egli stesso a conclusione dell’introduzione al
Canto I dell’edizione tascabile Bur di Rizzoli, uscita nel maggio del 1992, ci
sarebbero voluti decenni fra il tempo della traduzione e quello della stampa
dei XVI canti completi e dei frammenti del XVII, rimasto incompiuto per la
morte prematura del poeta inglese avvenuta ad appena 36 anni: una vita breve
come una meteora. Peccato, perché Dego aveva le carte in regola non solo per la
sua lunga attività letteraria e di insegnamento in Inghilterra (ben 23 anni),
ma perché in quanto egli stesso poeta, si era costruito in proprio una robusta
e solida bottega sull’uso dell’ottava, dedicando più di un ventennio alla sua
vasta parabola storica dal titolo: La storia in rima. Si trattava di ben
1.014 ottave comprese in dieci capitoli per un totale di 8.112 versi. Dego aveva
tradotto solo il Primo dei canti del Don Juan, quello che il poeta stesso
considerava già completo in sé, anche se nell’ottava numero 221, Lord Byron,
prendendo concedo dal lettore, lo definiva un assaggio, e sperava che questo
commiato poetico non fosse un addio.
Giuliano Dego
Fu
questo, di Giovanni, il primo cozzo.
Ma se
ancor narrerò le sue avventure
dipenderà
dal plauso, o predicozzo,
del
pubblico, le cui punzonature
sono
bizze. Per contro un barilozzo
saran
d’incenso le sue gran premure.
Se il
pubblico, comunque, non mi scarica,
fra un
anno circa tornerò alla carica.
Così scrive
nell’ottava numero 199 e ci informa che l’opera sarà costituita da dodici
libri, ognuno pieno di re, duci e amanti e personaggi di ogni sorta. Con le più
spettacolari avventure da fare invidia ad Omero e ad Ovidio. Con scenari
mitologici ed eventi soprannaturali, il tutto raccontato rigidamente in rima (lo
sciolto non mi va, amo le rime) perché “sui propri arnesi sputan solo i
brocchi”, ma senza trascurare, come ripete in varie occasioni, il
fondamento di verità e la correttezza dei fatti (“Odio tutto ciò che
è interamente fiction”). E soprattutto odiava tutto ciò che gli suonava
falso, “fasullo”, artefatto, patinato, convenzionale, privo di mordente.
La
copia in mio possesso porta una dedica del traduttore al giornalista e
scrittore Ugo Ronfani, vicedirettore del quotidiano “Il Giorno”, e la data del
12 ottobre 1992. In verità c’è un 9 che vergato a mano è rimasto col tondino
superiore aperto e sembra un 5. Deve essere giunto a me in occasione di un dono
di libri, e a mia moglie di due lavori artistici: uno di Purificato e uno di
Orfeo Tamburi, che Ugo aveva voluto affettuosamente farci. Dunque è una copia
preziosa perché mi ricorda due amici e collaboratori. Tra l’altro la versione
finale de La storia in rima di Dego la pubblicai io nella Collana
Carmina da me diretta per le Edizioni Nuove Scritture nel 2006, e porta questa
dedica: “Al mio coraggioso editore, con tanti auguri di futuro proficuo buon
lavoro, Giuliano”.
Tradurre
in rima da una lingua straniera è un’impresa titanica se devi far combaciare le
rime e mancandoti la parola corrispondente. Nessuno può, perciò, aspettarsi o
pretendere una fedeltà impossibile; ma Dego è entrato fino in fondo nello
spirito di George Gordon Byron e del suo capolavoro e vi si muove con
disinvolta capacità, e dove la parola gli manca ne crea una da poeta qual è,
senza tradirne lo spirito e soprattutto la gioiosa ironia che lo pervade.
Ironia, irriverenza, sberleffo, oscenità, eros, registro a volte alto a volte
fortemente popolano e carico di comicità; comicità e divertimento che Byron
sottolinea più volte.
“Ho
terminato il primo canto di un poema. L’ho intitolato Don Juan, e vorrei
che fosse tranquillamente faceto sulle cose della vita” scrive all’editore. Ma
è anche preoccupato per i tempi così esageratamente “timorati”, e teme che
possa suonare “troppo osé” per i bacchettoni dell’alta società puritana
inglese. Aveva visto giusto Byron esprimendo questi suoi dubbi. All’apparire
dei primi due canti in Inghilterra era scoppiato il putiferio. Indignate le
reazioni di Foscolo, Thomas Moore, Robert Southey, Coleridge e di quasi tutta
la stampa: comprese le riviste letterarie “Quarterley Rewiew” e “Blackwood
Magazine”. Si parlava di oscenità e di oltraggio ai princìpi religiosi, ed era
prevedibile. Come scrive Marilyn Butler: “La maggior parte dei critici erano
attivi anglicani. Parecchi erano preti”. Vedevano nell’arte poetica di Byron
solo ciò che volevano vedere, e così finivano per farne uno strumento al
servizio del vizio, e in ultima analisi delle mire di Satana. Byron difese a
spada tratta il suo poema nato per “divertirmi un po’, e far divertire i
lettori”, ed era profondamente consapevole di aver creato un’opera non
conformista, irriverente, ricca di comicità e di sarcasmo verso i valori su
cui si fondava quella che egli arriva a definire “questa nostra epoca
sciagurata”. I lettori lo ricambiavano abbondantemente acquistando i libretti
che andavano esauriti in un batter d’occhi e addirittura stampati anche di
contrabbando per esaudire le richieste. Era un’opera innovativa come lo erano
state quelle dei grandi del passato, e alle quali non era stata risparmiata
l’accusa di empietà.
L’empietà
di Lucrezio è un cibo rude
ed a
teneri stomaci indigesto.
Sì,
certo, Giovenale al vero allude,
e
chiama vino il vino, ma è per questo
che
linfe ha spesso alquanto asprigne e crude.
Marziale
e gli epigrammi? Un uomo onesto
li
troverebbe tanto inverecondi
da
definirli, al meglio, nauseabondi.
Dego
nella sua stimolante introduzione parla di “fascino e candore” del Don Juan
e lo definisce “un capolavoro senza eguali per finezza, inventiva e potenza”.
Le aveva scritte in Italia Byron le prime ottave del suo poema, e precisamente
a Venezia nella notte del 3 luglio del 1818. Forse non era stato un caso, visto
che in Italia era nata l’arte compositiva dell’ottava, e per giocosità,
irriverenza ed ironia si caratterizzava lo stile dei suoi maggiori cultori. Una
sensibilità che aveva certamente influito sull’estetica e la creatività del
poeta d’Oltremanica.
Legata
è ormai da anni è la sua vita
a un
tipico partito cinquantenne;
mentre
meglio l’avrebbero servita
due
mariti ognun venticinquenne,
in tierra che è dal sol ringalluzzita,
ogni
donna d’istinto maggiorenne
e sia
pur di difficile virtù
presceglie
quell’età o supergiù.
Il
puritanesimo anglosassone non poteva che stigmatizzare l’irriverenza giocosa e
ilare insita nei versi di questo dissacrante poeta. Come sempre, l’ipocrisia
faceva muro contro la parola di un poeta, ma tollerava tutto ciò che di
veramente osceno avveniva nelle corti, nelle curie e nei salotti. Benediceva la
guerra, chiudeva gli occhi sulla condotta libertina dei lord e delle dame
dell’alta società e altro ancora.
IL PROCESSO AL CRIMINALE NAZISTA
di Anna Lina Molteni e Giuseppe Mendicino
Seifert a vent'anni
La
battaglia legale di Arnaldo Loner e Bartolomeo Costantini per dare giustizia
alle vittime del lager di Bolzano.
L’occasione
di scrivere del Lager di Bolzano e del processo Seifert è conseguenza di una recente
stesura a quattro mani della biografia di Arnaldo Loner, avvocato, bibliofilo,
appassionato cultore di storia e di tutela del paesaggio. Loner è stato infatti
legale di parte civile del Comune di Bolzano nel processo a Michael Seifert, il
“boia del Lager di Bolzano”, processato dal Tribunale militare di Verona, estradato
dal Canada nel 2008, morto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere nel
2010. Con Walter Reder per la strage di Marzabotto, Herbert Kappler ed Erich
Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, è uno dei soli quattro criminali
di guerra tedeschi che abbiano scontato il carcere in Italia.
A
Bolzano oggi del Lager rimane solo il muro perimetrale e un percorso di
pannelli con immagini della sua storia; è stato il processo Seifert a fornire prove
documentali inconfutabili che non sia stato solo un campo di transito, come
diceva il nome Polizeiliches
Durchgangslager Bozen, ma un vero e proprio campo di sterminio in cui si torturò, si seviziò,
si uccise. Fu aperto nell’estate del 1944, in contemporanea con la chiusura
dell’altro campo d’internamento e di transito italiano, quello di Fossoli in
Emilia, i cui prigionieri non ancora deportati vi furono trasferiti in blocco,
insieme alle SS, al personale addetto, al comandante Karl Friedrich Titho e al vicecomandante
Hans Haage.
Seifert a vent'anni |
Amministrativamente dipendeva dalle
SS di Verona. Rimase attivo fino al 3 maggio 1945. In dieci mesi di attività vi
transitarono circa 11.000 arrestati: civili, partigiani, soldati sbandati,
famiglie di renitenti alla leva e ricercati, rastrellati, ebrei, sinti che
furono trasferiti a Mauthausen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück e Auschwitz. Gli internati erano uomini
e donne di ogni età, ragazzi e bambini di entrambi i sessi, provenivano da
tutte le regioni dell’Italia del nord e soprattutto dalla Zona di Operazione
delle Prealpi, Alpenvorland,
comprendente le provincie di Bolzano, Trento e Belluno. Quasi tutti furono
adibiti a lavori interni al lager o nelle fabbriche di materiale bellico, alla
raccolta di mele per conto di privati, allo sgombero delle macerie nel centro
storico di Bolzano dopo i bombardamenti, allo scavo per la posa di tubature e
cavi elettrici.
Il processo contro Michael Seifert, accusato di aver causato la morte di 18
internati nel lager di Bolzano, è stato celebrato presso il Tribunale Militare
di Verona nel 2000. La prima sentenza, del 24 novembre 2000, lo riconobbe
colpevole di 11 omicidi provocati con torture e sevizie e lo condannò
all’ergastolo. Impugnata dall’imputato, venne confermata in data 18 ottobre
2001 dalla Corte Militare d’Appello di Verona. L’ulteriore ricorso venne
rigettato dalla Corte di Cassazione a Roma in data 8 ottobre 2002 e la sentenza
divenne definitiva. Proseguiva intanto la pratica per la estradizione, richiesta
nel 1999 dalla Procura e infine accolta dall’Alta Corte di Giustizia del Canada,
che nel 2008 consegnò Michael Seifert alle autorità italiane, la sua latitanza
era durata 63 anni.
Nel processo spiccano due figure, Arnaldo Loner, avvocato di parte civile,
e il pubblico ministero Bartolomeo Costantini. Ognuno nel proprio ambito, agirono
entrambi avendo ben chiaro il significato che il procedimento aveva sia dal
punto di vista storico sia da quello etico. Non si trattava, come qualcuno
disse, di “archeologia giudiziaria”, né di inutile giustizia a posteriori o di accanimento contro un
imputato ormai anziano, ma di un atto dovuto alla verità storica e alla memoria
delle vittime e di coloro che, pur sopravvissuti, avevano portato per tutta la
vita i segni delle torture e della violenza subite. “Certi delitti non si
possono, non dico perdonare, ma nemmeno dimenticare. Non
dimenticare è quindi un obbligo morale, ma è anche in certo senso un obbligo
giuridico” afferma il pubblico ministero Costantini.
“La
materia di questo processo riguarda crimini che aggrediscono i valori
fondamentali dell’uomo, l’integrità della vita fisica e la dignità della
persona umana” conclude l’avvocato Loner nell’arringa finale.
Dalle carte del processo emerge la brutalità dell’imputato che in molti
casi era stata solo un cieco soddisfacimento della sua natura sadica, senza una
qualsiasi ragione, pur aberrante, che la potesse giustificare. La violenza per
la violenza, l’uccidere per il gusto di uccidere. Non a caso Seifert, dopo
torture e sevizie atroci, specie con armi da taglio e bastoni, non sferrava il
colpo finale con un’arma, ma usava le mani strangolando o i piedi, finendo la
vittima a pedate. Il tutto nella condiscendente indifferenza del comandante del
Lager, Karl Titho. Più le vittime erano giovani e fragili, più Seifert si
accaniva.
Nei primi giorni del marzo 1945 morì sotto tortura anche il giovane
capitano Steve Hall, dei servizi segreti americani, che nei mesi precedenti
aveva collaborato con le formazioni partigiane del Bellunese. Il più diretto
responsabile della sua morte, il sadico maggiore August Schiffer venne
processato a Napoli alla fine del conflitto da una corte marziale statunitense
e fucilato. Purtroppo, la giustizia italiana del dopoguerra non fu altrettanto
solerte con gli altri criminali del lager.
Costantini e Loner nel 2017
“Concorso
in violenza con omicidio contro privati nemici, aggravata e continuata” è il
reato contestato a Seifert dal pubblico ministero Costantini, che raccolse
elementi di prova circostanziali per 18 omicidi. Alcuni testimoni, ancora
viventi, lo riconobbero dalle foto e i loro ricordi coincidevano con la
relazione scritta alla fine del 1945 dal professor Alfredo Poggi, ex internato,
e allegata al fascicolo 1250, rimasto chiuso per mezzo secolo nel cosiddetto
“armadio della vergogna”. Un mobile situato negli uffici della Procura
Militare di Roma, sigillato con una catena. Aperto nel 1994 durante
una ricerca di documentazione per il massacro delle Fosse Ardeatine, al suo
interno sono stati rinvenuti fascicoli riguardanti le stragi e i crimini
commessi dai nazifascisti in Italia. I procedimenti erano stati praticamente
insabbiati, in quanto era stato apposto in calce un timbro di “archiviazione
provvisoria”; procedura questa, sconosciuta al nostro ordinamento processuale. Nel fascicolo 1250
compaiono i nomi di tutti i maggiori responsabili di torture e assassinii avvenuti
nel lager di Bolzano e tra questi Michael Seifert. Il procedimento è della
Procura Generale Militare del Regno – Ufficio procedimenti contro criminali di
guerra tedeschi e la data della trasmissione per “l’eventuale azione giudiziaria”
è 25 aprile 1946. Come parte lesa sono indicati gli “internati italiani nel
lager di Bolzano” e gli eventi sono così riassunti: “Nel campo di
concentramento di Bolzano, durante il lungo periodo della occupazione nazista,
trattarono in modo inumano gli italiani (militari, ebrei ed altri civili),
sottoponendoli a continue sevizie e bastonature, imprigionamenti lunghi,
terribili ed estenuanti. Per questo brutale trattamento alcuni internati
perirono (…)”.
Il decreto di archiviazione del 1960
Seifert
vi è descritto come un sadico torturatore e assassino, ma il suo comportamento
non può essere ridotto a una faccenda
privata tra un carnefice e le sue vittime, entra in un contesto più ampio, in
un “massacro dell’umanità” dalle proporzioni enormi. È un criminale, ma è
figlio del suo tempo. “Non è una scheggia impazzita del sistema, è funzionale
al sistema (…) un uomo che realizza gli obiettivi di sistema, sia pure con dei
massacri voluti e decisi individualmente, ma che il sistema consentiva,
tollerava e facilitava, non ordinava in questo caso” scrive ancora Loner.
In un
clima politico in cui a tratti riemerge la tentazione del revisionismo, o del
riduzionismo che ne è la versione attenuata, e si mira a riscrivere la storia “in base non a un più
attento esame dei documenti e delle testimonianze, bensì in base alle proprie
pregiudiziali ideologiche” (Costantini) è importante che sia mantenuta viva la
memoria su quanto accadde davvero, perché “verità alternative” costruite a posteriori non ne prendano il posto.
Arnaldo Loner e
Bartolomeo Costantini sono oggi due anziani e tranquilli signori che passano i
loro giorni tra libri e incontri finalizzati a diffondere cultura e coscienza
civile, se parlando con loro il discorso cade sul lager di Bolzano i loro occhi
si accendono di passione e indignazione. Facile immaginare che sarà così usque ad finem, sino all’ultimo dei loro
giorni.