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mercoledì 18 settembre 2024

CLASSICI
di Angelo Gaccione
 

Eraclito l’oscuro


Scrive Italo Calvino: “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Tutti i buoni libri sono dei classici e, dunque, sono intemporali. Attraverso alcune riflessioni (la religione, l’aldilà, l’universo, la poesia) di cinque autori di epoche lontanissime, è possibile cogliere la loro estrema attualità.


Figlio di Blosone, Eraclito di Efeso (535 a. C. - 475 a. C.), era considerato da tutti, compresi Socrate e Platone, un autore enigmatico, oscuro (ho skoteinòs). Così si diceva di lui e del suo libro dei Frammenti. Di lui, di cui sarebbe bastato il frammento numero 52 per renderlo celebre. Un pensiero semplice, in apparenza, privo di qualunque oscurità, ma profondo: “Il fiume in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque…” aveva scritto. Oscuro non lo era neppure il frammento numero 37 (furono così rubricati, i pensieri del filosofo, forse per comodità editoriale e numerati per agevolare il lettore, essendo privi di titoli tematici come avviene spesso per le scritture aforistiche), e in cui non c’è traccia di alcuna teogonia e tanto meno l’ombra di una visione creazionistica e favolisticamente mitologica. Il mondo non ha avuto bisogno di nessun artefice: “Questo cosmo né alcuno degli dèi lo fece né alcuno degli uomini, ma fu sempre ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con misura e si spegne con misura”. A questa visione a-teistica della creazione, fa da corollario una visione del destino umano sconfortante e privo di qualunque aldilà consolatorio. Il destino di chi nasce è la morte e chi dà la vita consegna i propri cari a questo ineluttabile destino. Lo leggiamo nel tragico frammento numero 50: “Una volta nati vogliono vivere e avere il loro destino di morte, e lasciano figli che diano esseri a destini di morte”. Secoli e secoli dopo, un poeta del nostro tempo poteva mettere in versi un frammento come questo: “Poiché la vita procede a caso, / non ti è stata risparmiata la tua dose. / E ce ne andremo tutti col rimpianto, / di aver messo dei figli sulla terra”. L’orgoglioso sapiente che riteneva di saper tutto, non aveva alcuna considerazione della medicina del suo tempo. Si narra che ammalatosi di idropisia si ricoprì di letame convinto che il calore avrebbe espulso i liquidi dal suo corpo. Altri sostennero che il letame avesse attirato un branco di cani e da questi fu sbranato. Tragico destino per un filosofo materialista.
 
Callimaco l’epigrammista



Anche gli Epigrammi di Callimaco sono brevi e secchi. Il poeta di Cirene (vi era nato verso il 310 a. C. ed aveva abitato in un sobborgo di Alessandria) se la può cavare con poco, anche un solo distico per spalancarci un mondo o regalarci un’emozione. De resto l’epigramma VIII, che si compone di appena otto versi, fa l’elogio della brevità e ci rammenta che al poeta bastano pochi versi quando è posseduto dal demone della creatività. Sono quei momenti che i poeti definiscono vere e proprie epifanie, in cui la poesia sembra farsi da sé, tanto scorre fluida e precisa. “Poche sillabe occorrono al poeta, / o Dioniso, quando e fortunato…”. L’epigramma XIII è costruito come un dialogo a tre voci. A parlare sono una tomba, un visitatore e un defunto e quanto a disillusione, rispetto ad una possibile vita ultraterrena, la visione non è meno sconfortante di quella di Eraclito. Vediamola nella sua secchezza. 
“Non è qui che riposa Càride?” / “Se intendi il figlio di Arimma Cireneo sotto di me riposa” / “O Càride che ne è dell’oltretomba?” / “Buio pesto”. / “E di tornare che si dice?” / “È una bugia” / “O di Plutone” / “Favole” / “Siamo rovinati”. / “Sono stato sincero. Ma se cerchi conforto, / un manzo costa appena un soldo giù nell’Ade”. La chiusa sul prezzo del manzo può suonare cinica, ma è un abile espediente ironico di alleggerimento.

 
Aulo Persio Flacco satirico



A proposito di oscurità anche alcuni passaggi de Il libro delle satire del giovane Aulo Persio Flacco (era nato a Volterra nel 34 d. C. ma aveva sempre vissuto a Roma dove governava Nerone e dove morì nel 62 d. C. ad appena 28 anni) oggi a noi suonano oscuri, soprattutto senza una serie di spiegazioni che ci permettano di decifrarle. Si veda questo brano della Satira Quinta che poi altro non è che una serrata critica rivolta ai poeti. Per molti aspetti quelli di oggi non sono meno ambiziosi, cortigiani, salottieri di quelli del suo tempo. “È abitudine dei poeti invocare per sé cento voci, di augurarsi per i loro carmi cento bocche e cento lingue, sia che si tratti di una tragedia che l’attore declamerà con faccia lugubre, sia che debbano cantare le ferite del Parto che si strappa il ferro dall’inguine. Dove vuoi arrivare, o che bocconi di così robusta poesia vuoi tu ingoiare, per aver bisogno di cento gole? Nella loro magniloquenza, adunino nuvole sull’Elicona coloro per i quali bollono le pentole di Progne e di Tieste, di cui dovrà spesso cenare l’odioso Glicone. Ma tu non sospingi i venti col mantello anelante, mentre nella fornace cuoce il metallo e non gracchi rauco, con misterioso brontolio, non so che solenni sciocchezze, e neppure ti gonfi le guance per svuotarle di colpo con uno scoppio…”.  Cantare il coraggio dei combattenti iranici fieri avversari dei Romani che con indomito coraggio si strappavano le frecce dalla pancia e continuavano a battersi; non essere ampollosi nel linguaggio poetico usando versi retorici e dal contenuto vacuo (facendo torto alle Muse protettrici delle arti che risiedono sul monte Elicona); non esagerare con le esibizioni di immagini orrorifiche con cui venivano imbastiti i versi: carni di figli e di congiunti serviti come cibi, episodi tratti dalla mitologia antica (Progne e Tieste) e l’attore Glicone per sbarcare il lunario era costretto a recitare queste orrende tragedie. Persio non ha bisogno di ricorrere a questi artifizi; la sua è una poesia umile, fatta di contenuti morali e tesa al bene come gli ha insegnato l’amico Cornuto a cui rende omaggio. E a questi princìpi si attiene. C’è, in questa stessa satira, un riferimento alla “candida toga”, quella indossata da candidati alle cariche pubbliche. La toga candida, da cui deriva il termine “candidato”, era simbolo di purezza, onestà, rigore morale. Oggi pochi candidati potrebbero indossarne una sentendovisi a proprio agio, e il titolo di “onorevole”, che deriva da onore, stride, e sentiamo che molti di loro non lo meritano.
 
Pubblio Terenzio Afro il punitore di sé stesso  



In molti citano, nelle versioni più diverse, la frase di Pubblio Terenzio Afro: “Sono un uomo, e di quanto è umano nulla penso che mi sia estraneo”, ma pochissimi sanno che il commediografo cartaginese l’ha messa in bocca a Cremente, uno dei suoi personaggi dell’opera dal titolo che in latino suona come uno scioglilingua: Heautontimorumenos. Questo è il titolo sulla copertina dell’edizione della Collezione di teatro Einaudi diretta da Paolo Grassi e Gerardo Guerrieri. Non so se in edizioni successive, o se stampata da altri editori, il titolo sia poi stato cambiato. Non avendo nel tempo riletta questa commedia, non ne sono sicuro. Tradotto sarebbe: Autopunizione o, forse ancora meglio, Il punitore di sé stesso. Come si chiamasse in origine questo autore non lo sappiamo; sappiamo, invece, che ancora ragazzo era stato venduto come schiavo ad un senatore romano di nome Terenzio Lucano a cui deve la sua istruzione e anche il suo ingresso nella società aristocratica e intellettuale romana. Terenzio scriverà in latino e come riconoscenza al suo mentore, ne assumerà il patronimico. Il cognome Afro gli rimase e gli storici sostengono che esso rivelerebbe ascendenze libiche più che puniche. A noi importa poco, importa la saggia ed umana frase che apre la scena prima della sua commedia nel dialogo fra Cremente e Menedemo e che da quel lontano 163 a. C. continua ad essere viva fra quanti, davanti alla ferocia della storia, non hanno perso il sentimento della pietà e della commozione.
 
Marco Minucio Felice confronto fra fedi



L’autore di: Ottavio. Contraddittorio fra un pagano e un cristiano era un avvocato; africano di nascita si era convertito alla nuova fede cristiana oramai molto diffusa a Roma. L’opera è un dialogo fra il pagano Cecilio e il cristiano Ottavio e avviene durante una passeggiata lungo il lido di Ostia. Il tema del contendere è la religione e si svolge alla presenza di Marco che in questo confronto ha la funzione di giudice. Sono tutti e tre avvocati, e dunque maestri di retorica e di rigoroso argomentare. Minucio, in quanto convertito, non è imparziale e in cuor suo non può che compiacersi della dialettica di Ottavio e della sua abilità nel confutare le tesi dell’avversario. Cecilio, convinto dai ragionamenti di Ottavio, alla fine abbraccerà anch’egli la fede cristiana e abbandonerà il paganesimo. Ci sono, in questo scritto, sprazzi di grande modernità, vediamone uno tratto dal ragionamento di Cecilio: “L’uomo, e con lui ogni essere vivente, che nasce, respira, cresce, è una combinazione spontanea di atomi, nei quali di nuovo si scompone, si dissolve, si disgrega: parimenti ogni cosa ritorna verso la propria origine e si dissolve in sé stessa, senza bisogno di nessun artefice, né arbitro, né creatore”. E ancora: “(…) Il caso domina il mondo, libero da ogni legge, con il suo procedere capriccioso e incerto”. Come si può vedere, Cecilio esprime una interpretazione fisica e materialistica della natura, non diversa da quella che si ritrova nel frammento 52 di Eraclito. Ottavio a sua volta si fa beffe delle credenze degli antenati, degli antichi, e cerca di minare alla base le credenze derivate dall’età mitologica: “(…) I nostri antenati prestarono tanto facilmente fede alle menzogne, da ammettere ciecamente anche altre mostruosità, dei veri prodigi”, che egli definisce “Favole da vecchie donnicciole”, con “uomini che si trasformano in uccelli e in belve e così pure degli uomini che diventano alberi o fiori. Se ciò fosse avvenuto un dì avverrebbe ancora: ciò che non può più avvenire non avvenne mai. Parimenti i nostri antenati si sono sbagliati in ciò che concerne gli dèi: malaccorti, creduloni, hanno prestato fede con rozza faciloneria”. Tutto vero e tutto giusto, però Ottavio non applica questo rigore logico alla sua di fede, ai miracoli, alla resurrezione e così via. E Minucio non fa dire nulla a Cecilio perché possa rintuzzare queste credenze altrettante favolistiche di Ottavio. Ottavio rincara la dose: “Queste favole e queste superstizioni, le abbiamo apprese dai parenti ignoranti e, ciò che è più grave, le perfezionammo attraverso lo studio e l’istruzione, soprattutto dai carmi dei poeti che, a cagione della loro autorità, sommamente hanno nociuto alla verità”. Si vede bene come queste parole vadano a demolire tutto il mondo omerico e pre-omerico; quello di Virgilio, di Ovidio, di Dante e dei creatori di fantasia, compresi i profeti visionari. Da questo punto di vista non era senza ragione che Platone avesse bandito dalla sua Repubblica i poeti, salvo poi ammannirci a sua volta un immaginario theòs e uno Stato ideale utopistico e oppressivo. Duro, ma molto efficace e condivisibile il giudizio di Ottavio sui combattimenti fra gladiatori nelle arene, definite “autentica scuola di omicidio”.

POETI
di Laura Margherita Volante



Incubo e vergogna
 
Fame…
arma di guerra
Un bambino
ha fame
Una donna incinta
ha fame
Un anziano annerito
ha fame
e la sua mano tremante
ha fame...
di pietà e giustizia.
Incubo e vergogna
non vanno più
insieme.
C’è incubo e non c’è vergogna.
Il mondo esulta… per gli
imperialisti!
Il silenzio non va d’accordo
con la vergogna.
La vergogna è la
vedova nera e
l’umanità non è in
lutto…
non piange e
non ha fame
Un tozzo di pane
è il fossile del
futuro… anteriore.
 

A GORIZIA PER I PALESTINESI




martedì 17 settembre 2024

SILENZIO
di Luigi Mazzella 


 
Il silenzio degli aderenti al partito più votato d’Italia: gli astensionisti.
 
L’invenzione fascista degli anni Venti diretta a  consentire a una minoranza di esagitati di impossessarsi del governo del Paese con un sistema elettorale truffaldino, ripresa prima dal “leghista” Calderoli negli anni Berlusconiani pur con l’idea chiara e denunciata che si trattasse di una “porcata”, e poi negli anni successivi dal “democratico” Rosati, e ritenuta  utile, da entrambi, per mettere a tacere la maggioranza divisa degli Italiani dissenzienti dai fanatismi ideologici filo-fascisti o filo-comunisti, ha compiuto, dopo la conversione di tutti (proprio tutti, da destra a sinistra, passando per il centro) i partiti politici all’atlantismo guerrafondaio della Nato(diretta sostanzialmente dai militari Anglo-Americani) e al finto e servile Europeismo, gestito da Vicerè filo-statunitensi, controllati come sopra, ha compiuto la “magìa” di fare scomparire dalla nostra scena politica ogni voce di dissenso anti-americano (in versione pacifista) e anti- europeo (in versione riformista), confinando gli uomini veramente liberi e non soggetti a fideismi religiosi giudaico-cristiani o a fanatismi ideologici post-hegeliani di destra o di sinistra nel novero degli “astensionisti”, facendone il partito-fantasma più votato d’Italia.
Il danno per le sorti del Bel Paese è di tutta evidenza. È probabile che tra gli esclusi dal dibattito sulle scelte politiche da fare per la ripresa economica degli Italiani vi siano di quelli che non credono che gli Stati Uniti abbiano pensato ad altro che ai propri interessi nella loro gestione “coloniale” del Vecchio Continente (da cui non a caso la Gran Bretagna, con la Brexit,  ha pensato bene di tenersi lontana) e ricordano che l’Italia, pur sconfitta in guerra e distrutta dalle bombe anglo-americane, era stata capace di imporsi al mondo con un boom economico (il cosiddetto “Miracolo italiano”) che allarmò i vincitori della seconda guerra mondiale che avevano imposto in una clausola del Trattato di pace il blocco della nostra crescita economica. Checché ne pensino l’Harris ridens, l’ineffabile Draghi amato a Wall Street anche più che a Bruxelles per gli indebitamenti che ci suggerisce, gli esperti di rapporti internazionali non ancora abbastanza delusi da decenni di politiche sbagliate, gli eterni “dipendenti” dai favori dello zio Sam sempre impauriti dagli abbandoni da lui minacciati, un’Europa restituita a sé stessa, libera di muoversi nelle direzioni ad essa più favorevoli, con servizi di intelligence sottratti al governo sotterraneo della CIA e dell’MI6, libera di applicare una politica non limitata, fiscalmente, a una flat-tax per poveri e, socialmente, alle elemosine consentite dal partito democratico americano (bonus, sussidi, redditi di varia denominazione) potrebbe riprendersi e sottrarsi al pericolo di scivolare, restando sul percorso inclinato sul quale l’Occidente gestito dagli Anglosassoni si è, irrimediabilmente, posto.

 

  

POETI
di Cataldo Russo



Quando trovi un buon ministro…
 
Quando hai la fortuna di trovare
un ministro alla cultura
con un pedigree così altisonante
baci per terra, ringrazi il Signore
gli metti il guinzaglio
e te lo tieni stretto,
stretto al petto come un neonato che
ha bisogno del buffetto e la poppata.
 
Quando hai la fortuna di trovarlo
è come avere in mano un tesoretto
e allora difenderlo dovrai con
carta bollata e spada sguainata anche
quando fa una gaffe o ne spara una
delle sue che lascia senza parole
e senza fiato.
 
Perché è giusto che un ministro
dica, non dica e poi ritratti tutto,
che sappia essere compunto
e allegro nello stesso tempo
e non disdegni le raccomandazioni
le dolci compagnie di donne avvenenti
e i viaggi a carico dell’ente.
 
Quando trovi un ministro di siffatta
levatura allora ti rivolgi al Signore
e invochi lunga vita con salute
per poi destinarlo al museo delle
cere, della disonestà e delle papere
insieme alla Santanché, a Lollobrigida,
la buonanima del cavaliere e il
professorone che ama le pecore
e odia le capre per via delle
corna attorcigliate.
 
Quando trovi un ministro
di così grande statura fisica e morale
ti penti di non avergli messo
la museruola perché più ciancia
e più si manifesta essere soltanto
un piccolo puffetto che ama le pose
del gigante e fare karakiri
davanti la “boccia” inebriante.

SALVARE LA SANITÀ PUBBLICA

Biblioteca Gallaratese via Quarenghi n. 21 a Milano. Sabato 21 settembre 2024 alle ore 15.  

Cliccare sulla locandina per ingrandire


 

CAMAIORE POESIA




RABONI A TEATRO



Gli scritti e le traduzioni lunedì 23 settembre 2024 alle ore 19 Teatro Studio Melato di via Rivoli n. 6 a Milano.

lunedì 16 settembre 2024

LA MILANO DEI NON MILANESI



Gaccione alla Biblioteca Chiesa Rossa  
Via San Domenico Savio 3 – piazzale Abbiategrasso, Milano
Capolinea MM2/Verde – tram 3 e 15. Ingresso libero.
 
Giovedì 26 settembre 2024 alle ore 18
Presentazione del libro di Angelo Gaccione
 
La mia Milano
Meravigli Ed. Milano 2023


 


Dialogano con l’autore
Nino Di Paolo
Giuseppe Langella
Adam Vaccaro
Maria Carla Baroni




 

 

POLITICI E MAGISTRATI
di Franco Astengo
 
Salvini e Toti

Vantaggi elettorali e supplenza della magistratura.
 
Lintreccio tra il "caso Toti" e quello "Salvini" (pur ben diversi tra loro) rappresenta ancora una volta il ruolo di supplenza che la magistratura esercita ormai da molto tempo sul fragile sistema politico italiano.
Al riguardo del tema degli equilibri e dei rapporti di forza il punto rimane quello degli effetti sulla partecipazione al voto in costante discesa ed è prevedibile che il fenomeno si ripeterà, nonostante l'attenzione dei media, anche nelle prossime elezioni regionali in Liguria.
Il fenomeno della “supplenza” che la magistratura ha esercitato, in Italia, nei confronti della politica risale ormai a quarant'anni fa ben in anticipo di rispetto a "Tangentopoli": se pensiamo, ad esempio, al “caso Teardo” scoppiato in Liguria nel 1983 (diverso fu il caso, contemporaneo, di Torino, perché in quel frangente fu il sindaco Diego Novelli ad attivare il percorso giudiziario, e quindi fu la politica a “investire” la magistratura).
Guai a chi pensa di trarne vantaggi elettorali!
Un ruolo di “supplenza” che non è stato esercitato soltanto nei confronti del classico rapporto tra “questione morale” e “questione politica”, quella delle tangenti tanto per intenderci (nel frattempo mutata di segno, come hanno dimostrato i casi più recenti) ma sull’insieme delle contraddizioni sociali più rilevanti, pensiamo, tanto per fare un esempio al conflitto (un orrore chiamarlo così e mi scuso di usare un termine meramente giornalistico) tra ambiente e lavoro,  nel caso dell’Ilva di Taranto e dei migranti.
Nel frattempo che la magistratura svolgeva questo compito, deperivano, via, via, i soggetti politici ridotti a espressione di mera “geografia elettorale” (tanto per sintetizzare con una sola battuta) del tutto subalterni, anche a sinistra, ai meccanismi della personalizzazione e alle sirene del movimentismo.
A Sinistra la questione non è stata affrontata dal punto di vista riguardante le “fratture” sulle quali agire politicamente prospettando un’alternativa che non sia di “governo”, ma di società e di sistema, ma soltanto sotto l'aspetto della ricerca di artifizi che consentissero la "governabilità" in un quadro di successivo aggravarsi del fenomeno della "fragilità del sistema".

 

 

GUERRA AL DIRITTO, GUERRA ALL’UMANITÀ
Scempi di pace, disastri di guerra
 
 
Tromba d'aria a Piombino

Scempi di pace   
Segnali inquietanti nella città del rigassificatore, Piombino: ripetute trombe d’aria sul porto, incendio su un traghetto. Dov’è il piano di evacuazione per 33.000 abitanti? Chilometri di scavi ingenti in corso nel sottosuolo della città d’arte alluvionata nel 1966.
A luglio 2023 i Vigili del Fuoco denunciano: si scava senza un piano di emergenza.
A luglio 2023 un’audizione urgente su questa e altre gravi falle del progetto viene chiesta in Commissione ambiente della Regione: mai accordata, nonostante i solleciti.
Dove sono le misure di protezione di decine di migliaia di abitanti e visitatori?
Possono Giunta e Consiglio regionale della Toscana dormire sonni tranquilli? 
 
Disastri di guerra 



Dal Regno Unito la minaccia di missili a lunga gittata con cui armare l’esercito ucraino nel conflitto con la Federazione russa
Verso un epilogo nucleare? Non in nostro nome!
Regno Unito, per piacere ripensaci!
  
Guerra al diritto, guerra all’umanità: un solo codice? 
Martedì 17 settembre l’associazione fiorentina Idra propone informazione alla cittadinanza: alle ore 12 davanti al Consiglio regionale della Toscana, Via Cavour 4; alle ore 15 davanti al British Institute of Florence, Lungarno Guicciardini 9, sede della rappresentanza culturale del Regno Unito nel capoluogo toscano.
 
Associazione Idra - Firenze

 

venerdì 13 settembre 2024

IL DON JUAN DI BYRON
di Angelo Gaccione


 
È stato un vero peccato che Giuliano Dego non abbia potuto tradurre tutto intero il Don Juan di Byron. Ma forse, come scrive egli stesso a conclusione dell’introduzione al Canto I dell’edizione tascabile Bur di Rizzoli, uscita nel maggio del 1992, ci sarebbero voluti decenni fra il tempo della traduzione e quello della stampa dei XVI canti completi e dei frammenti del XVII, rimasto incompiuto per la morte prematura del poeta inglese avvenuta ad appena 36 anni: una vita breve come una meteora. Peccato, perché Dego aveva le carte in regola non solo per la sua lunga attività letteraria e di insegnamento in Inghilterra (ben 23 anni), ma perché in quanto egli stesso poeta, si era costruito in proprio una robusta e solida bottega sull’uso dell’ottava, dedicando più di un ventennio alla sua vasta parabola storica dal titolo: La storia in rima. Si trattava di ben 1.014 ottave comprese in dieci capitoli per un totale di 8.112 versi. Dego aveva tradotto solo il Primo dei canti del Don Juan, quello che il poeta stesso considerava già completo in sé, anche se nell’ottava numero 221, Lord Byron, prendendo concedo dal lettore, lo definiva un assaggio, e sperava che questo commiato poetico non fosse un addio.


Giuliano Dego

Fu questo, di Giovanni, il primo cozzo.
Ma se ancor narrerò le sue avventure
dipenderà dal plauso, o predicozzo,
del pubblico, le cui punzonature
sono bizze. Per contro un barilozzo
saran d’incenso le sue gran premure.
Se il pubblico, comunque, non mi scarica,
fra un anno circa tornerò alla carica.


Così scrive nell’ottava numero 199 e ci informa che l’opera sarà costituita da dodici libri, ognuno pieno di re, duci e amanti e personaggi di ogni sorta. Con le più spettacolari avventure da fare invidia ad Omero e ad Ovidio. Con scenari mitologici ed eventi soprannaturali, il tutto raccontato rigidamente in rima (lo sciolto non mi va, amo le rime) perché “sui propri arnesi sputan solo i brocchi”, ma senza trascurare, come ripete in varie occasioni, il fondamento di verità e la correttezza dei fatti (“Odio tutto ciò che è interamente fiction”). E soprattutto odiava tutto ciò che gli suonava falso, “fasullo”, artefatto, patinato, convenzionale, privo di mordente.



La copia in mio possesso porta una dedica del traduttore al giornalista e scrittore Ugo Ronfani, vicedirettore del quotidiano “Il Giorno”, e la data del 12 ottobre 1992. In verità c’è un 9 che vergato a mano è rimasto col tondino superiore aperto e sembra un 5. Deve essere giunto a me in occasione di un dono di libri, e a mia moglie di due lavori artistici: uno di Purificato e uno di Orfeo Tamburi, che Ugo aveva voluto affettuosamente farci. Dunque è una copia preziosa perché mi ricorda due amici e collaboratori. Tra l’altro la versione finale de La storia in rima di Dego la pubblicai io nella Collana Carmina da me diretta per le Edizioni Nuove Scritture nel 2006, e porta questa dedica: “Al mio coraggioso editore, con tanti auguri di futuro proficuo buon lavoro, Giuliano”.
Tradurre in rima da una lingua straniera è un’impresa titanica se devi far combaciare le rime e mancandoti la parola corrispondente. Nessuno può, perciò, aspettarsi o pretendere una fedeltà impossibile; ma Dego è entrato fino in fondo nello spirito di George Gordon Byron e del suo capolavoro e vi si muove con disinvolta capacità, e dove la parola gli manca ne crea una da poeta qual è, senza tradirne lo spirito e soprattutto la gioiosa ironia che lo pervade. Ironia, irriverenza, sberleffo, oscenità, eros, registro a volte alto a volte fortemente popolano e carico di comicità; comicità e divertimento che Byron sottolinea più volte.
“Ho terminato il primo canto di un poema. L’ho intitolato Don Juan, e vorrei che fosse tranquillamente faceto sulle cose della vita” scrive all’editore. Ma è anche preoccupato per i tempi così esageratamente “timorati”, e teme che possa suonare “troppo osé” per i bacchettoni dell’alta società puritana inglese. Aveva visto giusto Byron esprimendo questi suoi dubbi. All’apparire dei primi due canti in Inghilterra era scoppiato il putiferio. Indignate le reazioni di Foscolo, Thomas Moore, Robert Southey, Coleridge e di quasi tutta la stampa: comprese le riviste letterarie “Quarterley Rewiew” e “Blackwood Magazine”. Si parlava di oscenità e di oltraggio ai princìpi religiosi, ed era prevedibile. Come scrive Marilyn Butler: “La maggior parte dei critici erano attivi anglicani. Parecchi erano preti”. Vedevano nell’arte poetica di Byron solo ciò che volevano vedere, e così finivano per farne uno strumento al servizio del vizio, e in ultima analisi delle mire di Satana. Byron difese a spada tratta il suo poema nato per “divertirmi un po’, e far divertire i lettori”, ed era profondamente consapevole di aver creato un’opera non conformista, irriverente, ricca di comicità e di sarcasmo verso i valori su cui si fondava quella che egli arriva a definire “questa nostra epoca sciagurata”. I lettori lo ricambiavano abbondantemente acquistando i libretti che andavano esauriti in un batter d’occhi e addirittura stampati anche di contrabbando per esaudire le richieste. Era un’opera innovativa come lo erano state quelle dei grandi del passato, e alle quali non era stata risparmiata l’accusa di empietà.



L’empietà di Lucrezio è un cibo rude
ed a teneri stomaci indigesto.
Sì, certo, Giovenale al vero allude,
e chiama vino il vino, ma è per questo
che linfe ha spesso alquanto asprigne e crude.
Marziale e gli epigrammi? Un uomo onesto
li troverebbe tanto inverecondi
da definirli, al meglio, nauseabondi.


Dego nella sua stimolante introduzione parla di “fascino e candore” del Don Juan e lo definisce “un capolavoro senza eguali per finezza, inventiva e potenza”. Le aveva scritte in Italia Byron le prime ottave del suo poema, e precisamente a Venezia nella notte del 3 luglio del 1818. Forse non era stato un caso, visto che in Italia era nata l’arte compositiva dell’ottava, e per giocosità, irriverenza ed ironia si caratterizzava lo stile dei suoi maggiori cultori. Una sensibilità che aveva certamente influito sull’estetica e la creatività del poeta d’Oltremanica.


Legata è ormai da anni è la sua vita
a un tipico partito cinquantenne;
mentre meglio l’avrebbero servita
due mariti ognun venticinquenne,
in tierra che è dal sol ringalluzzita,
ogni donna d’istinto maggiorenne
e sia pur di difficile virtù
presceglie quell’età o supergiù.
 
Il puritanesimo anglosassone non poteva che stigmatizzare l’irriverenza giocosa e ilare insita nei versi di questo dissacrante poeta. Come sempre, l’ipocrisia faceva muro contro la parola di un poeta, ma tollerava tutto ciò che di veramente osceno avveniva nelle corti, nelle curie e nei salotti. Benediceva la guerra, chiudeva gli occhi sulla condotta libertina dei lord e delle dame dell’alta società e altro ancora.

IL PROCESSO AL CRIMINALE NAZISTA     
di Anna Lina Molteni e Giuseppe Mendicino


 
Seifert a vent'anni

 
La battaglia legale di Arnaldo Loner e Bartolomeo Costantini per dare giustizia alle vittime del lager di Bolzano.
 
 
L’occasione di scrivere del Lager di Bolzano e del processo Seifert è conseguenza di una recente stesura a quattro mani della biografia di Arnaldo Loner, avvocato, bibliofilo, appassionato cultore di storia e di tutela del paesaggio. Loner è stato infatti legale di parte civile del Comune di Bolzano nel processo a Michael Seifert, il “boia del Lager di Bolzano”, processato dal Tribunale militare di Verona, estradato dal Canada nel 2008, morto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere nel 2010. Con Walter Reder per la strage di Marzabotto, Herbert Kappler ed Erich Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, è uno dei soli quattro criminali di guerra tedeschi che abbiano scontato il carcere in Italia.
A Bolzano oggi del Lager rimane solo il muro perimetrale e un percorso di pannelli con immagini della sua storia; è stato il processo Seifert a fornire prove documentali inconfutabili che non sia stato solo un campo di transito, come diceva il nome Polizeiliches Durchgangslager Bozen, ma un vero e proprio campo di sterminio in cui si torturò, si seviziò, si uccise. Fu aperto nell’estate del 1944, in contemporanea con la chiusura dell’altro campo d’internamento e di transito italiano, quello di Fossoli in Emilia, i cui prigionieri non ancora deportati vi furono trasferiti in blocco, insieme alle SS, al personale addetto, al comandante Karl Friedrich Titho e al vicecomandante Hans Haage.



Amministrativamente dipendeva dalle SS di Verona. Rimase attivo fino al 3 maggio 1945. In dieci mesi di attività vi transitarono circa 11.000 arrestati: civili, partigiani, soldati sbandati, famiglie di renitenti alla leva e ricercati, rastrellati, ebrei, sinti che furono trasferiti a Mauthausen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück e Auschwitz. Gli internati erano uomini e donne di ogni età, ragazzi e bambini di entrambi i sessi, provenivano da tutte le regioni dell’Italia del nord e soprattutto dalla Zona di Operazione delle Prealpi, Alpenvorland, comprendente le provincie di Bolzano, Trento e Belluno. Quasi tutti furono adibiti a lavori interni al lager o nelle fabbriche di materiale bellico, alla raccolta di mele per conto di privati, allo sgombero delle macerie nel centro storico di Bolzano dopo i bombardamenti, allo scavo per la posa di tubature e cavi elettrici.
Il processo contro Michael Seifert, accusato di aver causato la morte di 18 internati nel lager di Bolzano, è stato celebrato presso il Tribunale Militare di Verona nel 2000. La prima sentenza, del 24 novembre 2000, lo riconobbe colpevole di 11 omicidi provocati con torture e sevizie e lo condannò all’ergastolo. Impugnata dall’imputato, venne confermata in data 18 ottobre 2001 dalla Corte Militare d’Appello di Verona. L’ulteriore ricorso venne rigettato dalla Corte di Cassazione a Roma in data 8 ottobre 2002 e la sentenza divenne definitiva. Proseguiva intanto la pratica per la estradizione, richiesta nel 1999 dalla Procura e infine accolta dall’Alta Corte di Giustizia del Canada, che nel 2008 consegnò Michael Seifert alle autorità italiane, la sua latitanza era durata 63 anni.


 

Nel processo spiccano due figure, Arnaldo Loner, avvocato di parte civile, e il pubblico ministero Bartolomeo Costantini. Ognuno nel proprio ambito, agirono entrambi avendo ben chiaro il significato che il procedimento aveva sia dal punto di vista storico sia da quello etico. Non si trattava, come qualcuno disse, di “archeologia giudiziaria”, né di inutile giustizia a posteriori o di accanimento contro un imputato ormai anziano, ma di un atto dovuto alla verità storica e alla memoria delle vittime e di coloro che, pur sopravvissuti, avevano portato per tutta la vita i segni delle torture e della violenza subite. Certi delitti non si possono, non dico perdonare, ma nemmeno dimenticare. Non dimenticare è quindi un obbligo morale, ma è anche in certo senso un obbligo giuridico” afferma il pubblico ministero Costantini.
La materia di questo processo riguarda crimini che aggrediscono i valori fondamentali dell’uomo, l’integrità della vita fisica e la dignità della persona umana” conclude l’avvocato Loner nell’arringa finale.
Dalle carte del processo emerge la brutalità dell’imputato che in molti casi era stata solo un cieco soddisfacimento della sua natura sadica, senza una qualsiasi ragione, pur aberrante, che la potesse giustificare. La violenza per la violenza, l’uccidere per il gusto di uccidere. Non a caso Seifert, dopo torture e sevizie atroci, specie con armi da taglio e bastoni, non sferrava il colpo finale con un’arma, ma usava le mani strangolando o i piedi, finendo la vittima a pedate. Il tutto nella condiscendente indifferenza del comandante del Lager, Karl Titho. Più le vittime erano giovani e fragili, più Seifert si accaniva.
Nei primi giorni del marzo 1945 morì sotto tortura anche il giovane capitano Steve Hall, dei servizi segreti americani, che nei mesi precedenti aveva collaborato con le formazioni partigiane del Bellunese. Il più diretto responsabile della sua morte, il sadico maggiore August Schiffer venne processato a Napoli alla fine del conflitto da una corte marziale statunitense e fucilato. Purtroppo, la giustizia italiana del dopoguerra non fu altrettanto solerte con gli altri criminali del lager.


Costantini e Loner nel 2017

“Concorso in violenza con omicidio contro privati nemici, aggravata e continuata” è il reato contestato a Seifert dal pubblico ministero Costantini, che raccolse elementi di prova circostanziali per 18 omicidi. Alcuni testimoni, ancora viventi, lo riconobbero dalle foto e i loro ricordi coincidevano con la relazione scritta alla fine del 1945 dal professor Alfredo Poggi, ex internato, e allegata al fascicolo 1250, rimasto chiuso per mezzo secolo nel cosiddetto “armadio della vergogna”. Un mobile situato negli uffici della Procura Militare di Roma, sigillato con una catena. Aperto nel 1994 durante una ricerca di documentazione per il massacro delle Fosse Ardeatine, al suo interno sono stati rinvenuti fascicoli riguardanti le stragi e i crimini commessi dai nazifascisti in Italia. I procedimenti erano stati praticamente insabbiati, in quanto era stato apposto in calce un timbro di “archiviazione provvisoria”; procedura questa, sconosciuta al nostro ordinamento processuale. Nel fascicolo 1250 compaiono i nomi di tutti i maggiori responsabili di torture e assassinii avvenuti nel lager di Bolzano e tra questi Michael Seifert. Il procedimento è della Procura Generale Militare del Regno – Ufficio procedimenti contro criminali di guerra tedeschi e la data della trasmissione per “l’eventuale azione giudiziaria” è 25 aprile 1946. Come parte lesa sono indicati gli “internati italiani nel lager di Bolzano” e gli eventi sono così riassunti: “Nel campo di concentramento di Bolzano, durante il lungo periodo della occupazione nazista, trattarono in modo inumano gli italiani (militari, ebrei ed altri civili), sottoponendoli a continue sevizie e bastonature, imprigionamenti lunghi, terribili ed estenuanti. Per questo brutale trattamento alcuni internati perirono (…)”.


Il decreto di archiviazione del 1960

Seifert vi è descritto come un sadico torturatore e assassino, ma il suo comportamento non può essere ridotto a una faccenda privata tra un carnefice e le sue vittime, entra in un contesto più ampio, in un “massacro dell’umanità” dalle proporzioni enormi. È un criminale, ma è figlio del suo tempo. “Non è una scheggia impazzita del sistema, è funzionale al sistema (…) un uomo che realizza gli obiettivi di sistema, sia pure con dei massacri voluti e decisi individualmente, ma che il sistema consentiva, tollerava e facilitava, non ordinava in questo caso” scrive ancora Loner.
In un clima politico in cui a tratti riemerge la tentazione del revisionismo, o del riduzionismo che ne è la versione attenuata, e si mira a riscrivere la storia “in base non a un più attento esame dei documenti e delle testimonianze, bensì in base alle proprie pregiudiziali ideologiche” (Costantini) è importante che sia mantenuta viva la memoria su quanto accadde davvero, perché “verità alternative” costruite a posteriori non ne prendano il posto.
Arnaldo Loner e Bartolomeo Costantini sono oggi due anziani e tranquilli signori che passano i loro giorni tra libri e incontri finalizzati a diffondere cultura e coscienza civile, se parlando con loro il discorso cade sul lager di Bolzano i loro occhi si accendono di passione e indignazione. Facile immaginare che sarà così usque ad finem, sino all’ultimo dei loro giorni.