La
strage di Piazza Fontana 25 anni dopo in un appassionato scritto di Zinni. Zinni era
un impiegato della Banca dell’Agricoltura, era giovane allora e si salvò
miracolosamente come ha raccontato nei suoi libri. Ci
sono storie che non dobbiamo mai stancarci di raccontare, come le favole per i
bambini. Questa storia è una di quelle. Nelle favole, i cattivi sono
immancabilmente sconfitti dai buoni. Anche nella mia storia ci sono i buoni, ma
non riescono a prevalere sui cattivi. Questi non sono fantasiosi draghi e
mostri, ma persone in carne ed ossa. Strateghi del terrore, bombaroli
nazifascisti, servitori infedeli dello Stato, che annidati nelle istituzioni o
protetti dai potenti di turno, ancora oggi, impuniti e vincenti, si aggirano
tra noi, subdoli e pericolosi. Il mio racconto, amaro, urticante, doloroso,
ripercorre un decennio difficile e burrascoso della storia recente del paese.
Un passato complicato ma utile per capire il presente, guardare con più fiducia
al futuro, fare memoria e restituire una dignità ai morti innocenti. Un passato
che le nuove generazioni avrebbero dovuto apprendere dai testi scolastici e non
da testimoni in estinzione fisiologica. Lo studio e la ricerca storica, su quel
periodo sono fondamentali, per comprendere, lo stragismo, spesso racchiuso
nella grigia e opprimente rappresentazione degli anni di piombo, nella trappola
degli enigmi insolubili, dei “misteri d’Italia e degli eventi incomprensibili
o, ancora, nella comoda convinzione, che non ci sia più nulla da dire e da
indagare. Mentre le Procure di Brescia e Bologna continuano a indagare per
individuare i mandanti delle stragi di riferimento di quel decennio eversivo,
la Procura milanese, con la sentenza di archiviazione del 30 settembre 2013, ha
decisamente sposato quest'ultima tesi. La conoscenza della stagione delle stragi,
che dal 1969 al 1984 fino al 92/93 hanno scandito gli anni della Repubblica,
rappresenta un passaggio chiave per comprendere il presente e il futuro
soprattutto per le nuove generazioni.
L’apparizione
nelle scuole dei familiari delle vittime e dei testimoni hanno alimentato ed
alimentano una vera e propria narrazione nazionale, la sete di sapere,
conoscere e capire, uno degli episodi più inquietanti della storia politica e
giudiziaria del dopoguerra italiano. Il compito di noi, testimoni narranti, è la
ricostruzione e il confronto delle nostre esperienze con gli immaginari che la
stampa ha edificato, consolidato o magari manipolato. Le occasioni degli
anniversari e delle commemorazioni degli attentati, hanno, via via evidenziato
differenti modi di concepire e raccontare all’opinione pubblica il ruolo dello
Stato nella difesa dei diritti, della libertà e della democrazia; la sua
vicinanza o meno rispetto ai cittadini; l’efficienza o l’incapacità delle
Istituzioni di far fronte al conflitto e alle emergenze; il buono o il cattivo
funzionamento della macchina giudiziaria; il grado di coesione nazionale e di
fiducia nello Stato; l’identità nazionale e l’appartenenza politica come
categorie esistenziali. Nella narrazione delle stragi riemergono come fiumi carsici
dal passato più o meno recente del Paese, raccontando la storia di uno Stato
che appare alternativamente – e talvolta contemporaneamente - in pericolo,
opaco, compromesso, distante, nemico. Rispetto allo stragismo si rileva un
giudizio spesso negativo dell’operato statale, facilitato da una diffidenza
degli italiani nei confronti di chi è preposto al governo e al controllo della
cosa pubblica, e suffragato dalle risultanze processuali che indicano
inequivocabilmente, con sentenze passate in giudicato, il coinvolgimento
diretto e indiretto di alte cariche dello Stato, dei corpi armati o dei servizi
segreti, nella buia parentesi della stagione stragista firmata dai gruppi
neofascisti. Nella complessità degli intrecci fra Politica, eversione nera,
Forze armate e strutture statali, le coperture istituzionali e le deviazioni
alle indagini della Magistratura hanno intralciato i percorsi della Giustizia
in maniera così incisiva da tracciare un impietoso ritratto della stessa.
Processi osteggiati, rinviati, sentenze di condanna che si alternano ad
assoluzioni, verità mancate e soprattutto l’impunità per i mandanti che in
nessuna delle tre stragi in oggetto sono stati identificati, hanno disegnato un
impietoso profilo pubblico di decenni di indagini e giudizi. Le ricostruzioni
giudiziarie, mettono chiaramente in evidenza le responsabilità dei gruppi
ordinovisti per le stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, e dei Nar
per la bomba alla stazione di Bologna. Nell'immaginario collettivo, si insiste
su una narrazione alimentata dalle istituzioni e da gran parte dei media:
quella dei “misteri d’Italia”. La ricerca storica, il contributo di memoria
pubblica dalle associazioni servono a smascherare quelle fuorvianti narrazioni,
ancora radicate, in cui le stragi non hanno colpevoli e il mistero regna
indiscusso sugli anni Settanta. Peraltro, non solo i media raccontano, ma
ricordano, commemorano, e nel farlo definiscono il “passato pubblico” e il
“passato per il pubblico”. Definiscono ciò che è degno di essere ricordato,
costruiscono una sorta di “passato rilevante” alimentato da memorie funzionali,
al mainstream, spesso a scapito della verità.
Intento
di noi narratori, è confutare le tesi del “mistero” e degli arcana imperii
dello Stato, che negli anni è divenuta categoria interpretativa di un decennio
controverso e complesso. Alle migliaia di giovani che in tutti questi anni, ho
incontrato nelle scuole e che, con le domande cercavano di capire, non ho mai
risposto “Chi non l’ha vissuto non può capire”. È un alibi per sfuggire alle
responsabilità e per giustificare l’indifferenza. Chi, come me, ha vissuto quell’esperienza
in prima persona, con la sua testimonianza e con i suoi ricordi, oltre al
pathos, dolore, sgomento, indignazione, ha il dovere di colmare il vuoto dei
libri scolastici, cambiare l’interpretazione storica dello stragismo, rendere
tangibile e inestinguibile, la sete di verità e giustizia. Senza nulla
concedere alla retorica, ho imparato a dialogare con i giovani interlocutori,
con un linguaggio chiaro e comprensibile, per renderli consapevoli e partecipi,
che: da una parte c’è una strage fatta da uomini che avevano in mente “di
gettare vittime, inermi, e inconsapevoli, tra le ruote del carro della storia
per deviarne il cammino”, dall’altra donne e uomini che con la forza delle
proprie idee e delle proprie parole, non accettavano versioni preconfezionate e
misteri più o meno artefatti, con il solo scopo di contrastare la ricerca della
verità. Ai giovani questo non basta, e incalzano con le domande: “Chi sono
queste donne e questi uomini?” Rispondo senza tentennamenti citando
bibliografie e fonti: 1.-i
trecentomila milanesi che il 15 dicembre 1969 hanno eretto un muro umano
invalicabile, contro gli strateghi del terrore e i bombaroli fascisti,
impedendo, di fatto, la proclamazione dello Stato di emergenza, che aveva come
obiettivo di aggiungere l'Italia ai regimi fascisti, di Spagna, Portogallo e
Grecia presenti nell'are strategica; del Sud Europa e del Mediterraneo. 2.-
gli studenti del sessantotto nelle scuole, i protagonisti dell’autunno caldo,
operai, impiegati, tecnici, operatori del terziario e dei servizi, nelle
fabbriche, negli uffici, e uniti nelle piazze, si sono opposti ai tentativi
degli stragisti e dei lottarmatisti di abbattere l’ordinamento repubblicano
scaturito dalla Resistenza; 3.-
la gente comune che non si è fatta irretire, e ha difeso la nostra giovane
democrazia. “E
lo Stato cosa faceva nel frattempo? il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi
ha dichiarato, che la risposta dell’Italia a quell’azione terroristica e alle
altre che seguirono fu pronta e decisa”. Mi fa notare una diciassettenne, di un
liceo brianzolo, sventolando un giornale, nel dicembre di due anni fa. Ecco un
tipico esempio di comunicazione, che nelle scuole suscita sconcerto e accresce
la sfiducia verso le istituzioni. Mi viene in soccorso, Benedetta Tobagi che
nelle aule scolastiche dialoga da anni con i giovani. Cerco e trovo sul
telefonino il suo intervento su Valigia blu. “Il Ministro ostenta di ignorare
come di quella “Italia” facesse parte, per esempio, la divisione Affari
riservati del “suo” ministero dell’Interno, che senz’altro si mosse “pronta e
decisa”, ma per depistare le indagini verso una pista anarchica completamente
fasulla, lasciando nello slancio il cadavere dell’innocente Giuseppe Pinelli,
anarchico ed ex staffetta partigiana, sul selciato del cortile della Questura
meneghina, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre. Non si chiedevano
dichiarazioni dirompenti, per carità. Sarebbe bastato avere il garbo di ricordare,
come ha fatto il presidente della Repubblica Mattarella, le “strategie eversive
neofasciste”, e come “la matrice di quella strage tardò a emergere a causa di
complicità e colpevoli inadeguatezze”.
La
sentenza della Corte di Cassazione, nel 2005, ha individuato in Franco Freda e
Giovanni Ventura, attori dell’eversione nera, i responsabili della strage. È
una verità storica, una mezza verità e in ogni caso il fallimento di
un’ingiusta giustizia. In un liceo romano una docente mi ha chiesto se il titolo
del mio libro, non richiama lo slogan degli anni settanta “Strage di Stato”, e
appare in contrapposizione con quanti sostengono che anche se coinvolti molti
uomini di Stato, fu una strage fascista. Anche
qui, la mia risposta è senza tentennamenti: "Preferisco stare ai fatti.
Nei pannelli, nelle sculture e nelle lapidi di Piazza Fontana, in concreto,
nella memoria lapidea istituzionale, la parola fascista è accuratamente
ignorata. E c’è altro che non trova risposte convincenti. Sotto la fontana del
Piermarini dal 2009, accanto alle pietre d’inciampo con il ricordo delle
diciassette vittime, c’è una lapide che reca il testo che più pesa sulla
pietra: «Ordigno collocato dal gruppo terroristico di estrema destra Ordine
nuovo». Peserebbe di più se si fossero aggiunti i mandanti che sono
rintracciabili e riconoscibili nelle carte processuali. Chi li ha mandati i
bombaroli fascisti? Chi sono i
burattinai e gli strateghi del terrore e della tensione? A chi ha giovato la
teoria degli opposti estremismi, se non alla strategia centrista per compattare
l’area di Governo?" Piazza Fontana nella recente storia italiana
rappresenta un insieme di cesure che segnano profondamente il rapporto tra i
cittadini e lo Stato.
Sono
passati cinquantacinque anni e quel buco nero, che la foto postata simboleggia,
non è stato ancora completamente chiuso. Mancano ancora strati di verità,
nonostante i faldoni compilati da magistrati coraggiosi, le inchieste di
giornalisti pistaroli, che non si sono arresi alle verità preconfezionate e il
coraggio, l’abnegazione e le testimonianze dei familiari delle vittimi e dei
sopravvissuti, rimane il vuoto che «la madre di tutte le stragi» ha generato.
Nessun colpevole, si continua a ripetere sempre più indignati. I colpevoli ci
sono eccome, nelle carte processuali. Le numerose sentenze che hanno scandito
questi lunghi anni d’indagini e di processi, nel loro complesso, hanno subito
esse stesse, esattamente come gli inermi agricoltori della Banca Nazionale
dell’Agricoltura di Milano, la devastazione e il tragico insulto non di una ma
di una serie di bombe. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel
suo messaggio in occasione del quarantanovesimo anniversario della strage ha
scritto “Una verità piena e conclusiva non ha ancora coronato le lunghe e
travagliate vicende giudiziarie. Questo nonostante il lavoro encomiabile e
coraggioso di magistrati e servitori dello Stato, che hanno svelato
responsabilità e trame di matrice neofascista, occultate da intollerabili
deviazioni”. Le parole del Capo dello Stato, sono importanti e meritano
rispetto, ma dopo cinquant’anni d’ingiusta giustizia, non bastano. Non possono
bastare. Lo dico a me stesso, alle istituzioni, alla società civile, alle
autorità inquirenti. La speranza è che la democrazia, i suoi anticorpi e il
tempo aiutino a trovare sempre più brandelli di verità. È legittimo chiedere perché le Procure di Brescia e
Bologna sono tuttora impegnate a ricercare i mandanti delle stragi del 1974 e
del 1980 mentre a Milano, una lapide è stata calata su ogni residuo filone
d’indagine sulla strage di piazza Fontana e sulla ricerca della verità
giudiziaria?
Il
30 settembre 2013, dopo quarantaquattro anni, il GIP milanese Fabrizio
D’Arcangelo, accoglie la richiesta di archiviazione dei PM Armando Spataro,
Maurizio Romanelli e Grazia Pradella e respinge l’istanza avanzata nel 2009 dai
familiari delle vittime, di riapertura delle indagini. Il Gip D’Arcangelo,
valutando i quattro filoni d’inchiesta aperti dalla Procura di Milano
successivamente alla sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005 è arrivato
alla conclusione che “non si può continuare ad indagare all’infinito” e dunque
ha archiviato ogni indagine. “Il
giudice – scrive con inusitato tono saccente e pedagocico, il GIP nella
sentenza – non può usare lo strumento del processo per fare lo storico,
scambiando per «indizi» quelli che sono solo «meri sospetti», e nemmeno può
fare lo psicologo di massa che con indagini esplorative lenisca nell’opinione
pubblica «la generale insoddisfazione giuridica e sociale» per il fatto «che, a
distanza di oltre 40 anni e dopo la celebrazione di vari processi, per la
strage di piazza Fontana non ci sia alcun colpevole punito. Non può costituire
una ragione sufficiente per protrarre all’infinito indagini prive di serio
fondamento, specie se nei confronti di persone decedute o già giudicate», o su «possibili
modalità di esecuzione della strage irrilevanti o fantasiose I giudici
-conclude il gip, nel sigillare con una pesante pietra tombale l’ultima
indagine ancora aperta su Piazza Fontana- non possono scrivere la storia né
lenire l’insoddisfazione dell’opinione pubblica senza elementi probanti”.
Nessuno
chiede alla Procura di Milano di "lenire l’insoddisfazione dell’opinione
pubblica senza elementi probanti", né di fare i buoni samaritani, si
chiede semplicemente giustizia, evitando rivalse su non sopiti contrasti tra
Pm, inquirenti e giudici monocratici. Un virus latente nei corridoi del Palazzo
di Giustizia di Porta Vittoria. Le sentenze possono essere di assoluzione, di
condanna, di archiviazione, con un linguaggio sobrio, e non pulpiti, per irridere
e per impartire lezioncine irrispettose, se non offensive, verso la memoria
delle vittime innocenti e dei familiari. La foto in bianco e nero, all’uscita
del Duomo, il 15 dicembre 1969 dei i corazzieri, orfani dell’inquilino del
Quirinale è l’immagine iconica dello sfregio alla memoria delle vittime e alla
città di Milano, che dopo cinquantacinque anni non è stato ancora sanato. Perché
a Brescia e Bologna, a scanso di equivoci, con lodevole e condivisa
sensibilità, ai funerali delle vittime e nelle ricorrenze ultradecennali erano
presenti i Capi di Stato pro tempore, e ai funerali delle vittime di Piazza
Fontana, negli anniversari ultradecennali, il luogo simbolo della madre di
tutte le stragi, è stato un tabù per ben otto Capi dello Stato?
Il
cinquantacinquesimo anniversario della strage non è una occasione, seppure
tardiva di rimuovere questo tabù? Fino a quando gli organi d’informazione,
l’opinione pubblica, le forze democratiche, continueranno a ignorare questa
imbarazzante e intollerabile discriminazione verso le vittime e la città di
Milano? Degli attuali vertici istituzionali, meglio non parlarne. Piazza
Fontana è notorio, da sempre è allergica ai nostri attuali governanti. Del
resto, non è che gli amministratori della città, di sinistra e di destra che si
sono avvicendati, nell’ultimo mezzo secolo, hanno dimostrato molto rispetto
verso quella piazza. Chissà se i responsabili milanesi del decoro urbano di
Piazza Fontana, un luogo simbolo della città, con il cantiere Ceschina che
contende alla Fabbrica del Duomo il primato di durata, il parcheggio selvaggio
dei mezzi della Locale, il degrado permanente hanno mai letto questi versi di
Giovanni Raboni.
Giovanni Raboni
“Ogni
tanto succede d’attraversare
Piazza Fontana. Come
parecchie piazze di Milano anche
Piazza Fontana con
le sue quattro piante stente e
il suo perimetro sfuggente come
se ormai nessuna geometria fosse
non dico praticabile ma
neanche concepibile più
che una piazza vera a propria è
il rimpianto o il rimorso d’una piazza o
forse addirittura (e non per tutti ma
solo per chi da tempo coltiva più
pensieri di morte che di vita) nient’altro
che il suo nome”.
Che
cosa ci apprestiamo a commemorare, dunque, il prossimo 12 dicembre? La morte
d’innocenti? Se è la morte d’innocenti che commemoriamo, vogliamo riconoscere
che innocenti non sono, pezzi importanti dello Stato? Innocente non è la
politica che si è sostituita alla Magistratura e settori altolocati di
quest’ultima, votati, genuflessi al servo encomio della politica politicante? È lecito chiedere alla Procura di Milano e agli
inquirenti di continuare ad approfondire ogni spunto di indagine per arrivare
alla verità giudiziaria e alla condanna dei mandanti ed esecutori di uno dei
più inquietanti crimini della storia del paese? Il buio che nella foto avvolge
la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, la sera del 12 dicembre 1969, è
rotto dalle luci ancora accese per i soccorsi e per restituire sicurezza e
lavoro ai lavoratori della banca. La Procura di Milano ha il dovere di non
spegnere definitivamente quelle luci e di continuare ad approfondire ogni
spunto di indagine per arrivare alla verità giudiziaria e alla condanna dei
mandanti ed esecutori di un eccidio ancora impunito. Se c’è un giudice a
Berlino, Brescia, Bologna, perché non a Milano? Le commemorazioni, a volerle
fare, non sempre consolano, più spesso inquietano. Piazza Fontana nessuno è
Stato non è solo, il titolo più o meno condiviso di un libro, ma,
l’urticante e amara constatazione che quella strage è figlia di un Dio minore;
le sue diciotto vittime innocenti, i trecentomila milanesi in composto,
rispettoso silenzio, sul sagrato del duomo, cinquantacinque anni fa, sono
ancora indigesti ai potenti di turno.