Èstato un vero peccato
che Giuliano Dego non abbia potuto tradurre tutto intero il Don Juan di
Byron. Ma forse, come scrive egli stesso a conclusione dell’introduzione al
Canto I dell’edizione tascabile Bur di Rizzoli, uscita nel maggio del 1992, ci
sarebbero voluti decenni fra il tempo della traduzione e quello della stampa
dei XVI canti completi e dei frammenti del XVII, rimasto incompiuto per la
morte prematura del poeta inglese avvenuta ad appena 36 anni: una vita breve
come una meteora. Peccato, perché Dego aveva le carte in regola non solo per la
sua lunga attività letteraria e di insegnamento in Inghilterra (ben 23 anni),
ma perché in quanto egli stesso poeta, si era costruito in proprio una robusta
e solida bottega sull’uso dell’ottava, dedicando più di un ventennio alla sua
vasta parabola storica dal titolo: La storia in rima. Si trattava di ben
1.014 ottave comprese in dieci capitoli per un totale di 8.112 versi. Dego aveva
tradotto solo il Primo dei canti del Don Juan, quello che il poeta stesso
considerava già completo in sé, anche se nell’ottava numero 221, Lord Byron,
prendendo concedo dal lettore, lo definiva un assaggio, e sperava che questo
commiato poetico non fosse un addio.
Giuliano Dego
Fu
questo, di Giovanni, il primo cozzo. Ma se
ancor narrerò le sue avventure dipenderà
dal plauso, o predicozzo, del
pubblico, le cui punzonature sono
bizze. Per contro un barilozzo saran
d’incenso le sue gran premure. Se il
pubblico, comunque, non mi scarica, fra un
anno circa tornerò alla carica.
Così scrive
nell’ottava numero 199 e ci informa che l’opera sarà costituita da dodici
libri, ognuno pieno di re, duci e amanti e personaggi di ogni sorta. Con le più
spettacolari avventure da fare invidia ad Omero e ad Ovidio. Con scenari
mitologici ed eventi soprannaturali, il tutto raccontato rigidamente in rima (lo
sciolto non mi va, amo le rime) perché “sui propri arnesi sputan solo i
brocchi”, ma senza trascurare, come ripete in varie occasioni, il
fondamento di veritàe la correttezza dei fatti (“Odio tutto ciò che
è interamente fiction”). E soprattutto odiava tutto ciò che gli suonava
falso, “fasullo”, artefatto, patinato, convenzionale, privo di mordente.
La
copia in mio possesso porta una dedica del traduttore al giornalista e
scrittore Ugo Ronfani, vicedirettore del quotidiano “Il Giorno”, e la data del
12 ottobre 1992. In verità c’è un 9 che vergato a mano è rimasto col tondino
superiore aperto e sembra un 5. Deve essere giunto a me in occasione di un dono
di libri, e a mia moglie di due lavori artistici: uno di Purificato e uno di
Orfeo Tamburi, che Ugo aveva voluto affettuosamente farci. Dunque è una copia
preziosa perché mi ricorda due amici e collaboratori. Tra l’altro la versione
finale de La storia in rima di Dego la pubblicai io nella Collana
Carmina da me diretta per le Edizioni Nuove Scritture nel 2006, e porta questa
dedica: “Al mio coraggioso editore, con tanti auguri di futuro proficuo buon
lavoro, Giuliano”. Tradurre
in rima da una lingua straniera è un’impresa titanica se devi far combaciare le
rime e mancandoti la parola corrispondente. Nessuno può, perciò, aspettarsi o
pretendere una fedeltà impossibile; ma Dego è entrato fino in fondo nello
spirito di George Gordon Byron e del suo capolavoro e vi si muove con
disinvolta capacità, e dove la parola gli manca ne crea una da poeta qual è,
senza tradirne lo spirito e soprattutto la gioiosa ironia che lo pervade.
Ironia, irriverenza, sberleffo, oscenità, eros, registro a volte alto a volte
fortemente popolano e carico di comicità; comicità e divertimento che Byron
sottolinea più volte. “Ho
terminato il primo canto di un poema. L’ho intitolato Don Juan, e vorrei
che fosse tranquillamente faceto sulle cose della vita” scrive all’editore. Ma
è anche preoccupato per i tempi così esageratamente “timorati”, e teme che
possa suonare “troppo osé” per i bacchettoni dell’alta società puritana
inglese. Aveva visto giusto Byron esprimendo questi suoi dubbi. All’apparire
dei primi due canti in Inghilterra era scoppiato il putiferio. Indignate le
reazioni di Foscolo, Thomas Moore, Robert Southey, Coleridge e di quasi tutta
la stampa: comprese le riviste letterarie “Quarterley Rewiew” e “Blackwood
Magazine”. Si parlava di oscenità e di oltraggio ai princìpi religiosi, ed era
prevedibile. Come scrive Marilyn Butler: “La maggior parte dei critici erano
attivi anglicani. Parecchi erano preti”. Vedevano nell’arte poetica di Byron
solo ciò che volevano vedere, e così finivano per farne uno strumento al
servizio del vizio, e in ultima analisi delle mire di Satana. Byron difese a
spada tratta il suo poema nato per “divertirmi un po’, e far divertire i
lettori”, ed era profondamente consapevole di aver creato un’opera non
conformista, irriverente, ricca di comicità e di sarcasmo verso i valori su
cui si fondava quella che egli arriva a definire “questa nostra epoca
sciagurata”. I lettori lo ricambiavano abbondantemente acquistando i libretti
che andavano esauriti in un batter d’occhi e addirittura stampati anche di
contrabbando per esaudire le richieste. Era un’opera innovativa come lo erano
state quelle dei grandi del passato, e alle quali non era stata risparmiata
l’accusa di empietà.
L’empietà
di Lucrezio è un cibo rude ed a
teneri stomaci indigesto. Sì,
certo, Giovenale al vero allude, e
chiama vino il vino, ma è per questo che
linfe ha spesso alquanto asprigne e crude. Marziale
e gli epigrammi? Un uomo onesto li
troverebbe tanto inverecondi da
definirli, al meglio, nauseabondi.
Dego
nella sua stimolante introduzione parla di “fascino e candore” del Don Juan
e lo definisce “un capolavoro senza eguali per finezza, inventiva e potenza”.
Le aveva scritte in Italia Byron le prime ottave del suo poema, e precisamente
a Venezia nella notte del 3 luglio del 1818. Forse non era stato un caso, visto
che in Italia era nata l’arte compositiva dell’ottava, e per giocosità,
irriverenza ed ironia si caratterizzava lo stile dei suoi maggiori cultori. Una
sensibilità che aveva certamente influito sull’estetica e la creatività del
poeta d’Oltremanica.
Legata
è ormai da anni è la sua vita a un
tipico partito cinquantenne; mentre
meglio l’avrebbero servita due
mariti ognun venticinquenne, in tierra che è dal sol ringalluzzita, ogni
donna d’istinto maggiorenne e sia
pur di difficile virtù presceglie
quell’età o supergiù. Il
puritanesimo anglosassone non poteva che stigmatizzare l’irriverenza giocosa e
ilare insita nei versi di questo dissacrante poeta. Come sempre, l’ipocrisia
faceva muro contro la parola di un poeta, ma tollerava tutto ciò che di
veramente osceno avveniva nelle corti, nelle curie e nei salotti. Benediceva la
guerra, chiudeva gli occhi sulla condotta libertina dei lord e delle dame
dell’alta società e altro ancora.