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venerdì 13 settembre 2024

IL DON JUAN DI BYRON
di Angelo Gaccione


 
È stato un vero peccato che Giuliano Dego non abbia potuto tradurre tutto intero il Don Juan di Byron. Ma forse, come scrive egli stesso a conclusione dell’introduzione al Canto I dell’edizione tascabile Bur di Rizzoli, uscita nel maggio del 1992, ci sarebbero voluti decenni fra il tempo della traduzione e quello della stampa dei XVI canti completi e dei frammenti del XVII, rimasto incompiuto per la morte prematura del poeta inglese avvenuta ad appena 36 anni: una vita breve come una meteora. Peccato, perché Dego aveva le carte in regola non solo per la sua lunga attività letteraria e di insegnamento in Inghilterra (ben 23 anni), ma perché in quanto egli stesso poeta, si era costruito in proprio una robusta e solida bottega sull’uso dell’ottava, dedicando più di un ventennio alla sua vasta parabola storica dal titolo: La storia in rima. Si trattava di ben 1.014 ottave comprese in dieci capitoli per un totale di 8.112 versi. Dego aveva tradotto solo il Primo dei canti del Don Juan, quello che il poeta stesso considerava già completo in sé, anche se nell’ottava numero 221, Lord Byron, prendendo concedo dal lettore, lo definiva un assaggio, e sperava che questo commiato poetico non fosse un addio.


Giuliano Dego

Fu questo, di Giovanni, il primo cozzo.
Ma se ancor narrerò le sue avventure
dipenderà dal plauso, o predicozzo,
del pubblico, le cui punzonature
sono bizze. Per contro un barilozzo
saran d’incenso le sue gran premure.
Se il pubblico, comunque, non mi scarica,
fra un anno circa tornerò alla carica.


Così scrive nell’ottava numero 199 e ci informa che l’opera sarà costituita da dodici libri, ognuno pieno di re, duci e amanti e personaggi di ogni sorta. Con le più spettacolari avventure da fare invidia ad Omero e ad Ovidio. Con scenari mitologici ed eventi soprannaturali, il tutto raccontato rigidamente in rima (lo sciolto non mi va, amo le rime) perché “sui propri arnesi sputan solo i brocchi”, ma senza trascurare, come ripete in varie occasioni, il fondamento di verità e la correttezza dei fatti (“Odio tutto ciò che è interamente fiction”). E soprattutto odiava tutto ciò che gli suonava falso, “fasullo”, artefatto, patinato, convenzionale, privo di mordente.



La copia in mio possesso porta una dedica del traduttore al giornalista e scrittore Ugo Ronfani, vicedirettore del quotidiano “Il Giorno”, e la data del 12 ottobre 1992. In verità c’è un 9 che vergato a mano è rimasto col tondino superiore aperto e sembra un 5. Deve essere giunto a me in occasione di un dono di libri, e a mia moglie di due lavori artistici: uno di Purificato e uno di Orfeo Tamburi, che Ugo aveva voluto affettuosamente farci. Dunque è una copia preziosa perché mi ricorda due amici e collaboratori. Tra l’altro la versione finale de La storia in rima di Dego la pubblicai io nella Collana Carmina da me diretta per le Edizioni Nuove Scritture nel 2006, e porta questa dedica: “Al mio coraggioso editore, con tanti auguri di futuro proficuo buon lavoro, Giuliano”.
Tradurre in rima da una lingua straniera è un’impresa titanica se devi far combaciare le rime e mancandoti la parola corrispondente. Nessuno può, perciò, aspettarsi o pretendere una fedeltà impossibile; ma Dego è entrato fino in fondo nello spirito di George Gordon Byron e del suo capolavoro e vi si muove con disinvolta capacità, e dove la parola gli manca ne crea una da poeta qual è, senza tradirne lo spirito e soprattutto la gioiosa ironia che lo pervade. Ironia, irriverenza, sberleffo, oscenità, eros, registro a volte alto a volte fortemente popolano e carico di comicità; comicità e divertimento che Byron sottolinea più volte.
“Ho terminato il primo canto di un poema. L’ho intitolato Don Juan, e vorrei che fosse tranquillamente faceto sulle cose della vita” scrive all’editore. Ma è anche preoccupato per i tempi così esageratamente “timorati”, e teme che possa suonare “troppo osé” per i bacchettoni dell’alta società puritana inglese. Aveva visto giusto Byron esprimendo questi suoi dubbi. All’apparire dei primi due canti in Inghilterra era scoppiato il putiferio. Indignate le reazioni di Foscolo, Thomas Moore, Robert Southey, Coleridge e di quasi tutta la stampa: comprese le riviste letterarie “Quarterley Rewiew” e “Blackwood Magazine”. Si parlava di oscenità e di oltraggio ai princìpi religiosi, ed era prevedibile. Come scrive Marilyn Butler: “La maggior parte dei critici erano attivi anglicani. Parecchi erano preti”. Vedevano nell’arte poetica di Byron solo ciò che volevano vedere, e così finivano per farne uno strumento al servizio del vizio, e in ultima analisi delle mire di Satana. Byron difese a spada tratta il suo poema nato per “divertirmi un po’, e far divertire i lettori”, ed era profondamente consapevole di aver creato un’opera non conformista, irriverente, ricca di comicità e di sarcasmo verso i valori su cui si fondava quella che egli arriva a definire “questa nostra epoca sciagurata”. I lettori lo ricambiavano abbondantemente acquistando i libretti che andavano esauriti in un batter d’occhi e addirittura stampati anche di contrabbando per esaudire le richieste. Era un’opera innovativa come lo erano state quelle dei grandi del passato, e alle quali non era stata risparmiata l’accusa di empietà.



L’empietà di Lucrezio è un cibo rude
ed a teneri stomaci indigesto.
Sì, certo, Giovenale al vero allude,
e chiama vino il vino, ma è per questo
che linfe ha spesso alquanto asprigne e crude.
Marziale e gli epigrammi? Un uomo onesto
li troverebbe tanto inverecondi
da definirli, al meglio, nauseabondi.


Dego nella sua stimolante introduzione parla di “fascino e candore” del Don Juan e lo definisce “un capolavoro senza eguali per finezza, inventiva e potenza”. Le aveva scritte in Italia Byron le prime ottave del suo poema, e precisamente a Venezia nella notte del 3 luglio del 1818. Forse non era stato un caso, visto che in Italia era nata l’arte compositiva dell’ottava, e per giocosità, irriverenza ed ironia si caratterizzava lo stile dei suoi maggiori cultori. Una sensibilità che aveva certamente influito sull’estetica e la creatività del poeta d’Oltremanica.


Legata è ormai da anni è la sua vita
a un tipico partito cinquantenne;
mentre meglio l’avrebbero servita
due mariti ognun venticinquenne,
in tierra che è dal sol ringalluzzita,
ogni donna d’istinto maggiorenne
e sia pur di difficile virtù
presceglie quell’età o supergiù.
 
Il puritanesimo anglosassone non poteva che stigmatizzare l’irriverenza giocosa e ilare insita nei versi di questo dissacrante poeta. Come sempre, l’ipocrisia faceva muro contro la parola di un poeta, ma tollerava tutto ciò che di veramente osceno avveniva nelle corti, nelle curie e nei salotti. Benediceva la guerra, chiudeva gli occhi sulla condotta libertina dei lord e delle dame dell’alta società e altro ancora.