TACCUINI
di Angelo Gaccione
Il Parco
Alessandrina Ravizza
Ci si può
domandare che cosa sarebbero le città senza parchi e viali alberati. Vengono i
brividi solo a pensarci. Guardando le immagini di certe megalopoli
contemporanee soffocate da colate di cemento, da grattacieli sempre più alti e
da palazzi sempre più dilatati, si percepisce immediatamente quanto
l’urbanistica sia entrata in conflitto con la natura. Hanno dovuto inventarsi
terrazze piantumate forse per rimuovere un inconscio senso di colpa, o di
vergogna, e le hanno spacciate per “bosco in città”. Il bosco in città c’era,
ma gli urbanisti hanno aiutato amministratori e speculatori dalle diverse fogge
a cancellarlo, ad abbatterlo, a farlo sparire, a mercificarlo. Porta Nuova a
Milano ne è l’esempio più lampante. La cementificazione intensiva lungo lo scalo
di Porta Romana, con la scusa del villaggio olimpico per le olimpiadi
invernali, ne è un’altra dimostrazione da manuale. Non se ne possono ritenere
assolti né le amministrazioni di centro-destra né quelle di centro-sinistra; né
gli urbanisti finti progressisti né gli urbanisti reazionari. Tutti costoro
appartengono ad una stessa logica e agiscono allo stesso modo: che se ne voglia
prendere atto o meno.

Alessandrina Ravizza in piedi a destra

Il parco Ravizza (racchiuso tra il viale Toscana, la via Vittadini, la via Bocconi) data ai primi del Novecento. Il piano regolatore Beruto lo aveva destinato a tale uso nel 1889. Gli studenti della vicina Università Bocconi non ne sanno nulla, molti di loro sono stranieri o provengono da altri luoghi d’Italia. Se non ci fosse, se lo avessero cementificato, non potrebbero goderne né stendersi a leggere sul prato. La stragrande maggioranza di loro è convinta che l’economia sia una scienza e non lo è. Si tratta, invece, di una scelta politica, una scelta di campo, una scelta di classe. Una bestemmia, questa parola, in quell’ambiente dove l’economia si studia come una scienza neutra.

La cucina per malati e poveri
