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mercoledì 16 ottobre 2024

GUERRA TOTALE
di Paolo Vincenti
 

Di fronte alla drammatica escalation nel Vicino Oriente, tutto l’Occidente si interroga su quali ripercussioni potrebbe avere un conflitto su larga scala, ma soprattutto ci si chiede a quale livello di barbarie giungeranno i sanguinari mastini della guerra che governano le nazioni coinvolte. I bombardamenti dell’Iran su Israele non lasciano margini di speranza. La pioggia di fuoco che si è abbattuta alcune notti fa su Tel Aviv, di una potenza anche superiore agli attacchi missilistici di aprile, che avevano avuto più che altro uno scopo dimostrativo, fanno capire che l’Iran ormai fa sul serio. Fino ad ora, abbiamo assistito al fallimento di ogni mediazione diplomatica e ogni appello al cessate il fuoco, anche ai più alti livelli, è stato vano. L’Iran vuole spazzar via Israele, è la sua missione dichiarata da sempre. Israele vuole abbattere “l’asse del male” e, per far questo, attaccare e distruggere il paese degli ayatollah, che questo asse sorregge. La guida suprema dell’Iran, Khamenei, ha intimato ad Israele di non reagire, altrimenti sarà la fine. Difficile, quasi impossibile, che le parole del leader sciita vengano ascoltate dal premier israeliano Netanyahu che ha già annunciato una terribile risposta. Caldeggiato dagli Stati Uniti, Netanyahu fa bellicose dichiarazioni di pesanti conseguenze per la repubblica islamica.



È stato un anno di violenza sempre più cieca e fanatica, iniziato il 7 ottobre 2023. In quella fatidica data, Hamas, partito terrorista palestinese, con un attacco a sorpresa, ha compiuto una strage nel territorio del nord di Israele, massacrando donne, bambini, inermi civili nei kibbutz e tantissimi giovani che tenevano un rave party, rapendo degli ostaggi, molti dei quali si trovano ancora nelle mani dell’organizzazione armata. Israele ha risposto con una mostruosa potenza di fuoco su Gaza dove sono entrate le truppe di terra. Ad oggi, si calcolano almeno 41.000 vittime palestinesi (c’è chi dice molte di più), fra militari e civili, 2000 morti libanesi, fra militari e civili, e circa 750 vittime dell’esercito israeliano, cui si aggiungono i più di 1000 morti nel raid di Hamas del 7 ottobre 2023. A luglio, un capolavoro militare di Israele (si fa per dire): l’uccisione all’interno di un albergo a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Dal Libano del sud, roccaforte dell’altro partito oltranzista degli Hezbollah, intanto, partivano ripetuti attacchi missilistici su Israele spesso contrastati dall’efficiente sistema antimissile Iron dome. Il 27 settembre Israele uccide a Beirut il leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, decapitando così l’organizzazione estremista libanese. Questo assassinio politico fa scattare la reazione dell’Iran che, su ordine del leader supremo Khamenei, tenuto nascosto in un bunker, attacca con una pioggia di missili Israele come ritorsione per l’eliminazione di Nasrallah, definito “fratello” dalla guida spirituale iraniana nel suo discorso tenuto a Teheran alcuni giorni fa. Hezbollah, organizzazione sciita nata nel 1994 e “braccio armato” del paese dei cedri, dopo la morte di Nasrallah, ha insediato Hashem Saffiedine per continuare il jihad, ma fonti israeliane hanno comunicato di aver eliminato anche quest’ultimo nei raid compiuti fra giovedì e venerdì 4 ottobre a Beirut quando hanno sganciato tonnellate di bombe sul bunker sotterraneo dove il leader islamico teneva una riunione con i suoi dirigenti. Ci si chiede quanta parte della popolazione islamica libanese approvi i metodi violenti di Hezbollah, e quanta parte invece ne vorrebbe prendere le distanze e non si riconosce nel terrorismo armato del “partito di Dio”. 


Hezbollah è finanziata dall’Iran e con quel paese i rapporti sono strettissimi, anzi il “partito di Dio” si può considerare proprio un’estensione della potenza iraniana in Libano. E sebbene rappresenti una minoranza sciita libanese, la sua presenza soprattutto militare finisce per tacitare le altre voci nel paese. È appoggiata anche dalla Siria e qualcuno sostiene che sia proprio la milizia personale del re Bashar All Assad. Di Hezbollah è stato il principale braccio armato nella lotta in Siria contro l’Isis e alla sua capacità bellica (oltre che a quella russa) si deve la tenuta del regime siriano nella guerra civile scoppiata negli anni Duemila dieci. È per effetto dei grossi finanziamenti sempre ricevuti da Iran e Siria che Hezbollah riuscì a vincere la guerra lampo contro Israele del 2006 con un arsenale militare molto sofisticato che impressionò lo stesso stato ebraico. Anche se il partito di Hezbollah è minoranza nel parlamento libanese, la sua influenza è sempre grandissima grazie al potere di corruzione degli altri parlamentari, dei ministri, di giudici e giornalisti, tutti al soldo di Hezbollah. L’organizzazione criminale li ha comprati coi proventi della vendita della droga, in particolare la cocaina, un traffico molto lucroso. Si può capire che l’afflato religioso sia l’ultima delle motivazioni che spingono Hezbollah ad agire e come il sostegno della potenza sciita iraniana su cui essa può contare ingeneri paura nella maggioranza libanese (di qualsiasi colore siano i governi che si succedono), che è di fatto ostaggio di una minoranza agguerrita e tentacolare. Ora è crisi umanitaria, dopo l’attacco di Israele, con circa un milione di libanesi in fuga dalla propria terra. Una vecchia storia, la conflittualità fra Israele e Libano. La linea di confine fra i due paesi, stabilita dalla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, fissata nel 2006, non è mai stata rispettata. La linea di confine doveva essere quella del fiume Litani mentre Israele con i suoi attacchi ad Hezbollah l’ha spostata di trenta chilometri più a nord, oltre il fiume Awali. Ora Israele spera in un governo libanese sganciato da Hezbollah ma dovrebbe prima di tutto accettare l’obiettivo di smilitarizzare la fascia di territorio di confine fra i due stati, da porre possibilmente sotto il controllo dell’Unifil.


Ad ogni colpo segue un contraccolpo e l’intervento armato di Teheran era scontato. L’Iran ha costruito grazie all’appoggio di Hezbollah e di Hamas una cintura di fuoco intorno ad Israele e ha tentato sempre di isolare il paese nel contesto sciita mediorientale in modo che fosse più facile poi muovere l’attacco decisivo, definitivo, quello della agognata sua distruzione. Il Presidente Pezeshkian aveva avvertito Netanyahu che ci sarebbero state delle gravi conseguenze. Ma Israele, fidando nell’incondizionato appoggio degli Stati Uniti, ha alzato la posta. Certo, il paese ebraico può contare sulla formidabile intelligence del Mossad, una delle più efficaci al mondo, ma la corsa agli armamenti e la virulenta progressione degli ultimi mesi è attribuibile più che altro ad un Presidente, Netanyahu, che in vistoso calo di consensi prima del 7 ottobre, ora è divenuto molto popolare e cerca di perpetrare il proprio potere evitando per quanto possibile nuove elezioni grazie allo stato di guerra. Nell’attuale situazione di emergenza infatti, sono passati in secondo piano anche i suoi processi per corruzione. Tuttavia, di fronte ad una potenza guida come l’Iran che vorrebbe far sparire Israele dalla carta geografica e che si organizza da anni per la “soluzione finale”, è saggio, ci si chiede retoricamente, che Netanyahu continui così? Da anni la popolazione israeliana è condizionata dal terrore delle bombe. La vita quotidiana a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa e nelle altre città è scandita dal suono degli allarmi. Per non soccombere nei raid i civili devono correre nei rifugi e barricarsi dentro fino al cessato pericolo. E poi di nuovo gli allarmi riprendono il giorno dopo. Chi non fa in tempo a mettere sé stesso e la propria famiglia in salvo nei rifugi, muore sotto il bombardamento di razzi e droni. Si tratta di una guerra permanente, che contrappone Israele anche agli Houthi dello Yemen, una organizzazione terroristica relativamente più giovane, che negli ultimi mesi si è distinta per i suoi attacchi proditori nel Mar Rosso destabilizzando il commercio marittimo globale.   

                  
L’obbiettivo che si è prefissato Netanyahu (il premier più longevo della storia di Israele) è addirittura il cambio di potere in Iran, e questo potrebbe costargli molto caro, rivelandosi un boomerang per la sua presidenza e per le sorti di Israele stesso. L’attacco missilistico iraniano è conseguenza della escalation militare ripetutamente stigmatizzata dal regime di Teheran, le cui minacce sono cadute nel vuoto. Israele prevedeva questa risposta dell’Iran e non ha fatto nulla per contrastarla ma l’ha anzi sollecitata. Le dichiarazioni infuocate degli ultimi tempi del Presidente Netanyahu, appoggiato da buona parte dell’intellighenzia israeliana, andavano in questa direzione e lasciavano prevedere l’ineluttabile: Israele vuole schiacciare l’Iran e attendeva il momento per farlo. Ma la strategia del Premier di Tel Aviv è azzardata e rischiosa ed e del tutto improbabile che in Iran ci possa essere un cambio di regime.



Quali sono gli schieramenti in campo? Gli analisti geopolitici ci aiutano a capirlo. Dalla parte di Israele vi sono, almeno ufficialmente, i paesi arabi di Egitto, con cui venne stipulato un accordo di pace nel 1979, e Giordania, dal 1994; inoltre i paesi interessati dagli Accordi di Abramo, stipulati nel 2020, sotto l’egida degli Stati Uniti, e cioè Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco. Gli accordi di Abramo, fortemente voluti dall’allora Presidente Trump, firmati a Washington e così chiamati dal nome del patriarca Abramo (riconosciuto da entrambe le religioni ebrea e musulmana) ora sono messi a dura prova dall’interventismo di Israele, certo poco gradito in particolare dalla Giordania. È dalla parte di Israele anche l’Arabia Saudita, la più grande regione islamica della penisola arabica e guida del fronte sunnita, sia pure in posizione critica, perché la monarchia saudita vorrebbe una normalizzazione della situazione politica regionale e depreca l’escalation militare in atto. Del resto, l’Arabia Saudita è minacciata dappresso dagli attacchi dei terroristi yemeniti nel Mar Rosso e inoltre, come paese islamico, chiede il riconoscimento ufficiale della Palestina come stato (propugnando la soluzione dei due popoli in due stati da sempre caldeggiata anche dall’Italia e da tanti paesi europei). Sono dalla parte di Israele poi gli Stati Uniti e quasi tutta l’Europa. Il Quatar e l’Oman mantengono una posizione neutrale. La Turchia è in una posizione ibrida, nel senso che da un lato condanna l’intervento militare di Israele, ma facendo parte della Nato non può scendere in campo contro lo stato ebraico. Il leader Erdogan, che ha in odio Israele, solidarizza con Gaza e la Cisgiordania.



Contro Israele, con la palestinese Hamas, c’è il contrapposto blocco sciita che vede insieme gli Hezbollah del Libano, gli Houthi dello Yemen, l’Iran. Dichiaratamente nemici di Israele sono la Siria e l’Iraq. Teniamo presente che Bassar All Assad ha più di un motivo per odiare gli Stati Uniti, fin dalla guerra di Siria, ed anche Israele, che a quella guerra prese parte a fianco degli USA (e che, ricordiamolo, ha causato mezzo milione di morti e oltre 10 milioni di profughi). Ma nel Medio Oriente si gioca una partita molto più grande, un confronto fra blocchi contrapposti e qualcuno dice persino “uno scontro di civiltà”. Uno scontro, cioè, fra la Russia, col suo protettorato su Siria, Iran e Turchia, e Stati Uniti, di cui Israele rappresenta la roccaforte mediorientale e gli alleati musulmani sunniti di Arabia, Giordania, Egitto. Ma la situazione non è così netta e schematica come è sembrato dalla succitata descrizione. Per esempio, gli Stati Uniti negli ultimi tempi hanno messo in atto una operazione di appeasement, cioè di concessioni allo stato iraniano, per evitare il conflitto, allentando le sanzioni e permettendo così che arrivassero molti finanziamenti all’Iran. Questo è il principale alleato della Russia che, come sappiamo, è in guerra con l’Ucraina, quella stessa Ucraina che gli Stati Uniti finanziano in quanto combatte una guerra per corrispondenza contro la potenza russa, che però è stata favorita dall’amministrazione Biden, solo per dirne una, dalla rinuncia alle sanzioni contro il gasdotto Nordstream 2. C’è molto di strano. Per il Medio Oriente si tratta di un mosaico non solo politico ma anche di etnie e religioni. Il quadro è talmente intricato che non è agevole decifrarlo. Oltre alla storica distinzione degli arabi fra sunniti e sciiti (pur nell’ambito della stessa religione islamica), vi sono gli ebrei, i cristiani cattolici, ortodossi, maroniti del Libano e della Siria (dove sono anche i caldei, i greco-melchiti e i siriaci), coopti d’Egitto, armeni, curdi, yazidi, e via dicendo.


Nel caso di un attacco frontale ormai imminente di Israele, ed è cronaca di queste ore, l’Iran dispone di forze armate più numerose ma Israele detiene una tecnologia più avanzata. Pensiamo all’esplosione contemporanea dei cercapersone e poi dei walki talki dei guerriglieri di Hamas di qualche settimana fa, che è sembrato un capolavoro di tecnica militare e di spionaggio da parte del Mossad. Niente di cui stupirsi eccessivamente, in realtà, per un popolo fra i più scaltri, intelligenti e organizzati al mondo. Già il vecchio leader di Hamas, Ahmed Yassin, fu ucciso nel 2004 facendo esplodere il suo cellulare. Il successore, Abdel Aziz Al-Rantisi, fu raggiunto da un missile mentre guidava la moto, quindi era un bersaglio mobile. Quelli del Mossad ne sanno una più del diavolo.
Hamas è stato una delle reazioni avverse, se così si può dire, nel tentativo di stabilizzazione della politica del complesso scacchiere. Sarà il caso di ricordare che alla sua nascita, nel 1987, Hamas venne finanziata sotto banco anche da Israele in funzione anti Olp e anti Fatah, il partito rivale di Hamas e considerato più estremista di quest'ultima. L’Olp poi, come ricordiamo, alimentava la rabbia palestinese e soffiava sul fuoco con le varie Intifada sebbene il leader Arafat fosse addirittura insignito del Nobel per la pace. In effetti, Al Fatah venne marginalizzata e tutto il potere con gli anni si concentrò nelle mani di Hamas. È proprio il caso di dire “non esistono innocenti, amico mio”, come l’ultima canzone dei Negrita.


La folla che assiepava la piazza di Teheran al discorso di Khamenei era immensa. Il regime degli ayatollah ha bisogno di legittimarsi dopo un periodo di sostanziale debolezza e per questo ha attaccato in forze Israele dichiarando anzi, il leader supremo, che l’azione intrapresa è solo una parziale risposta ai crimini commessi da Israele. Il sultano dell’Arabia Saudita, Mohamed bin Salman, alcuni anni fa ha definito Khamenei “l'Hitler dei nostri tempi”, cosa che fa un certo effetto se detta da un macellaio come il dittatore arabo e fa pensare al noto detto popolare “il bue dice all’asino cornuto”. Sul fronte opposto, i giornali e la tv riportano dichiarazioni di esponenti politici israeliani, studiosi ed analisti, che inneggiano alla fierezza ebraica e incoraggiano il leader Netanyahu a schiacciare la teocrazia. Bisogna andare dritti al cuore del problema, dicono in coro, che è l’Iran.


Chi fermerà l’assordante rumore dei bombardamenti? Biden, ormai un’anatra zoppa, continua ad incalzare l’amico Netanhyau per la de escalation ma senza esito. Il vecchio Joe ribadisce che non sosterrà un attacco israeliano alle basi nucleari iraniane ma Bibi non ci sente. Il premier israeliano in fondo aspetta e spera solo che vinca le elezioni Trump per tornare ad avere un appoggio totale e incondizionato. L’Italia non tocca palla. Il G7 convocato dalla Meloni è stato un fallimento in questo senso perché nonostante le richieste del segretario di Stato Blinken, l’Europa non ha deciso di attuare nuove sanzioni contro gli stati islamici. Il Papa invoca la pace del tutto inascoltato, ma questo va da sé. Monta la rabbia ed anche le proteste nelle piazze italiane con le eclatanti manifestazioni dei Pro Palestina. Dire che c’è da aspettarsi il peggio sarebbe come sminuire la portata di quanto è accaduto fino ad ora e non onorare la memoria delle tante vittime civili israeliane palestinesi e libanesi. Diciamo allora che il peggio può solo continuare.