Dall’alienazione
all’autoefficacia collettiva percepita: una prospettiva socio-cognitiva. Un pomeriggio estivo,
immersa nel paesaggio murgiano, a pochichilometri dal nostro affascinante ed imponente Castel
Del Monte federiciano, mi sono imbattuta nella raccolta di liriche del poeta e
drammaturgo Zaccaria Gallo Come Lumaca amante di Ferula, in cui, a
pagina 31, al settimo verso, il poeta così si esprime a proposito del lavoro:
“Dannato lavoro! Mi traballa la speranza di far star buoni i pensieri…”. Se,
però, attribuiamo al termine lavoro il significato che ne dà la psicologia
sociale, esso risulta essere tutt’altro che dannazione: è un’attività complessa,
indirizzata a raggiungere scopi significativi per le persone, che coinvolge il
corpo e la mente, che implica costi energetici (ovvero fisici, mentali ed
emotivi), che si fonda su relazioni tra una persona e altre persone, oggetti e
informazioni, che produce ricchezza economica e sociale. Quanto significative sono,
dunque, le dinamiche nei luoghi di lavoro? Siamo davvero certi che vi sia un
equilibrio, come in una equazione matematica, fra costi energetici
fisico-mentali e benefici economico-sociali? Quasi due secoli fa, un
barbuto cittadino di Treviri, città della regione tedesca della Renania-Palatinato,
a pochi chilometri dal Lussemburgo e dal confine francese, risalente ad un
antico insediamento militare romano del 30 A.C. (Augusta Treverorum) affrontava il tema del lavoro da differenti
prospettive, da quella filosofica a quella sociologica e politica sino a
concepire, attraverso un assiduo studio, una vera e propria scienza nuova:
l’economia politica. Karl Heinrich Mordechai,
noto al mondo come Karl Marx, giunge così a teorizzare l’alienazione del
lavoro, la cosiddetta “Arbeitsentfremdung”, dapprima nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844, prendendo distanza dal pensiero astratto hegeliano e,
successivamente, con un approccio più analitico, scientifico e socio-politico,
ne Il Capitale, la più grande opera mai
scritta prima, procede ad una analisi critica delle società capitalistiche
fondate sul plusvalore, la cui pubblicazione del primo volume è datata al 14 Settembre
1867 ed i cui volumi postumi furono completati dai colleghi F. Engels e K. Kautsky.
Per Marx, il lavoro è
alienante nella misura in cui la forza lavoro dell’essere umano si oggettivizza
proprio durante il processo lavorativo materiale; tale forza diviene mera merce
nel contesto capitalistico, che fonda sempre più la propria ragion d’essere
sulla produzione e mercificazione e sul conseguente consumo smisurato dei
materiali prodotti, una forza lavoro sempre più assoggettata alla logica del
profitto. In tale circuito, il lavoratore sperimenta emotivamente la cosiddetta
“Arbeitsentfremdung”( Alienazione del lavoro). La risonanza del pensiero storico-materialista
marxiano, nell’epoca attuale della globalizzazione e digitalizzazione è, a mio
avviso, quanto mai di forte impatto e assolutamente non anacronistica. Se in
una parte di mondo, le condizioni di lavoro sono migliorate, nell’altra, la
povertà e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno e crescono in dismisura e
proporzionalmente all’arricchirsi delle società postcapitalistiche e del
consumismo: tutto questo in nome del dio denaro. Basti pensare alla produzione
di armi e alla totale indifferenza verso l’alfabetizzazione dei bambini, così come
la noncuranza rispetto alle pessime condizioni sanitarie in cui versa gran
parte della popolazione mondiale. La depersonificazione, l’alienazione del
lavoro teorizzata da Marx pone, inoltre, una riflessione di natura
socio-cognitiva e psicosociale. In alcuni ambienti di lavoro è ancora oggi
presente, purtroppo, quell’atteggiamento di alcuni imprenditori, mi si perdoni
il gioco di parole, i quali non prendono in considerazione un adeguato
atteggiamento di cooperazione in ambiente lavorativo, attuando il più delle
volte comportamenti non consoni ad un sano ed armonico sviluppo delle dinamiche
di lavoro intese proprio secondo l’accezione psicosociale cui accennavo sopra.
Se da un lato, l’alienazione del lavoro in senso marxiano comporta la consapevolezza
per il lavoratore di oggettivarsi nell’oggetto prodotto secondo la logica
capitalistica, dall’altro,nell’era del
world-wide-web e delle società di massa cambiano le modalità di produzione e di
comunicazione, indubbiamente più veloci e affidate a sofisticati cervelli
elettronici, in cui il lavoratore, se non inserito in un adeguato e armonico
contesto lavorativo, potrebbe sperimentare un senso di estraniamento, definito
in psicologia autoalienazione o “Selbstentfremdung”. Le conseguenze che ne
derivano potrebbero minare negativamente il luogo di lavoro, sia sul piano
psicofisico dei lavoratori (si pensi al fenomeno del “burnout”), sia dal punto
di vista del rendimento economico aziendale.
Bandura
Gli studi in psicologia
sociale hanno compiuto notevoli passi in merito alle strategie da attuarsi in
ambito lavorativo, al fine di ridurre, se non risolvere, le problematiche ad
esso connesso: si tratta della “strategia dell’autoefficacia collettiva percepita”
proposta dallo psicologo canadese Albert Bandura. Secondo questo approccio, l’azione individuale e le strutture sociali
operano in modo interdipendente, influenzandosi a vicenda. La credenza di poter
agire intenzionalmente allo scopo di modificare le circostanze ambientali in
modo favorevole, rappresenta uno degli elementi chiave del costrutto di
autoefficacia. Il costrutto di autoefficacia collettiva estende le credenze di
autoefficacia nei confronti di uno specifico ambito di realtà, proprio di un
individuo, alle credenze di un gruppo o di una collettività o organizzazione.
Questa strategia potrebbe consentire al gruppo di produrre i risultati
progettati, auspicati o attesi. In ambito lavorativo, dunque, i risultati di un
gruppo sono il prodotto non solo delle conoscenze e delle capacità condivise
dei membri che lo costituiscono, ma anche delle dinamiche interattive, del
coordinamento e delle sinergie che derivano dalle loro transazioni. Secondo
Bandura le credenze di autoefficacia proprie dell’intero gruppo inteso come
entità meta-individuale o sistema, predice il livello di prestazioni raggiunto
da quel gruppo e le strategie condivise ed appropriate da attivare in caso di
avversità. Nell’ottica di Bandura, e riprendendo i versi di Gallo, il lavoro non si
porrebbe mai, come obiettivo, quello di minare “la speranza di far star buoni i
pensieri”.L’atto stesso di sperare, riconducibile all’etimologia
sanscrita della parola Speranza, che suggella nella radice “–Spa” il tendere
verso una meta con un approccio positivo, ci invita a guardare sempre avanti. Si
pensi alla parola latina “Spes-Spei”, rintracciabile nel verbo italiano
“auspicare” così come nel sostantivo angloamericano “expectation”. Se per il
nostro Divin Poeta la Speranza rappresenta la congiunzione fra Terra e Cielo,
quale virtù umana e al contempo teologale: “Spene”, diss’io, è un
attender certo/ della gloria futura, il qual produce/ grazia divina e
precedente merto”(versi 67-69 -XXV Canto - “Paradiso”),
affermando che essa non è soltanto dono della grazia ma è anche una conquista
dell’uomo, perché dà ai viventi la prospettiva di un trionfo dei propri ideali,
non solo religiosi ma anche politici, sociali e civili, così, auspico, a
livello globale, maggiore dignità e rispetto degli ambienti e negli ambienti di
lavoro, sulla base dell’autoefficacia collettiva percepita nell’accezione che
ne dà Bandura, al fine di ridurre quanto più possibile fenomeni di alienazione
e di autoalienazione del lavoro.