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domenica 6 ottobre 2024

IL LAVORO
di Anna Rutigliano
 
Marx

Dall’alienazione all’autoefficacia collettiva percepita: una prospettiva socio-cognitiva.
 
Un pomeriggio estivo, immersa nel paesaggio murgiano, a pochi chilometri dal nostro affascinante ed imponente Castel Del Monte federiciano, mi sono imbattuta nella raccolta di liriche del poeta e drammaturgo Zaccaria Gallo Come Lumaca amante di Ferula, in cui, a pagina 31, al settimo verso, il poeta così si esprime a proposito del lavoro: “Dannato lavoro! Mi traballa la speranza di far star buoni i pensieri…”. Se, però, attribuiamo al termine lavoro il significato che ne dà la psicologia sociale, esso risulta essere tutt’altro che dannazione: è un’attività complessa, indirizzata a raggiungere scopi significativi per le persone, che coinvolge il corpo e la mente, che implica costi energetici (ovvero fisici, mentali ed emotivi), che si fonda su relazioni tra una persona e altre persone, oggetti e informazioni, che produce ricchezza economica e sociale.
Quanto significative sono, dunque, le dinamiche nei luoghi di lavoro? Siamo davvero certi che vi sia un equilibrio, come in una equazione matematica, fra costi energetici fisico-mentali e benefici economico-sociali?
Quasi due secoli fa, un barbuto cittadino di Treviri, città della regione tedesca della Renania-Palatinato, a pochi chilometri dal Lussemburgo e dal confine francese, risalente ad un antico insediamento militare romano del 30 A.C. (Augusta Treverorum) affrontava il tema del lavoro da differenti prospettive, da quella filosofica a quella sociologica e politica sino a concepire, attraverso un assiduo studio, una vera e propria scienza nuova: l’economia politica.
Karl Heinrich Mordechai, noto al mondo come Karl Marx, giunge così a teorizzare l’alienazione del lavoro, la cosiddetta “Arbeitsentfremdung”, dapprima nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844, prendendo  distanza dal pensiero astratto hegeliano e, successivamente, con un approccio più analitico, scientifico e socio-politico, ne Il Capitale, la più grande opera mai scritta prima, procede ad una analisi critica delle società capitalistiche fondate sul plusvalore, la cui pubblicazione del primo volume è datata al 14 Settembre 1867 ed i cui volumi postumi furono completati dai colleghi F. Engels e K. Kautsky.



Per Marx, il lavoro è alienante nella misura in cui la forza lavoro dell’essere umano si oggettivizza proprio durante il processo lavorativo materiale; tale forza diviene mera merce nel contesto capitalistico, che fonda sempre più la propria ragion d’essere sulla produzione e mercificazione e sul conseguente consumo smisurato dei materiali prodotti, una forza lavoro sempre più assoggettata alla logica del profitto. In tale circuito, il lavoratore sperimenta emotivamente la cosiddetta “Arbeitsentfremdung”( Alienazione del lavoro).
La risonanza del pensiero storico-materialista marxiano, nell’epoca attuale della globalizzazione e digitalizzazione è, a mio avviso, quanto mai di forte impatto e assolutamente non anacronistica. Se in una parte di mondo, le condizioni di lavoro sono migliorate, nell’altra, la povertà e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno e crescono in dismisura e proporzionalmente all’arricchirsi delle società postcapitalistiche e del consumismo: tutto questo in nome del dio denaro. Basti pensare alla produzione di armi e alla totale indifferenza verso l’alfabetizzazione dei bambini, così come la noncuranza rispetto alle pessime condizioni sanitarie in cui versa gran parte della popolazione mondiale. La depersonificazione, l’alienazione del lavoro teorizzata da Marx pone, inoltre, una riflessione di natura socio-cognitiva e psicosociale. In alcuni ambienti di lavoro è ancora oggi presente, purtroppo, quell’atteggiamento di alcuni imprenditori, mi si perdoni il gioco di parole, i quali non prendono in considerazione un adeguato atteggiamento di cooperazione in ambiente lavorativo, attuando il più delle volte comportamenti non consoni ad un sano ed armonico sviluppo delle dinamiche di lavoro intese proprio secondo l’accezione psicosociale cui accennavo sopra. Se da un lato, l’alienazione del lavoro in senso marxiano comporta la consapevolezza per il lavoratore di oggettivarsi nell’oggetto prodotto secondo la logica capitalistica, dall’altro,  nell’era del world-wide-web e delle società di massa cambiano le modalità di produzione e di comunicazione, indubbiamente più veloci e affidate a sofisticati cervelli elettronici, in cui il lavoratore, se non inserito in un adeguato e armonico contesto lavorativo, potrebbe sperimentare un senso di estraniamento, definito in psicologia autoalienazione o “Selbstentfremdung”. Le conseguenze che ne derivano potrebbero minare negativamente il luogo di lavoro, sia sul piano psicofisico dei lavoratori (si pensi al fenomeno del “burnout”), sia dal punto di vista del rendimento economico aziendale.


Bandura

Gli studi in psicologia sociale hanno compiuto notevoli passi in merito alle strategie da attuarsi in ambito lavorativo, al fine di ridurre, se non risolvere, le problematiche ad esso connesso: si tratta della “strategia dell’autoefficacia collettiva percepita” proposta dallo psicologo canadese Albert Bandura.
Secondo questo approccio, l’azione individuale e le strutture sociali operano in modo interdipendente, influenzandosi a vicenda. La credenza di poter agire intenzionalmente allo scopo di modificare le circostanze ambientali in modo favorevole, rappresenta uno degli elementi chiave del costrutto di autoefficacia. Il costrutto di autoefficacia collettiva estende le credenze di autoefficacia nei confronti di uno specifico ambito di realtà, proprio di un individuo, alle credenze di un gruppo o di una collettività o organizzazione. Questa strategia potrebbe consentire al gruppo di produrre i risultati progettati, auspicati o attesi. In ambito lavorativo, dunque, i risultati di un gruppo sono il prodotto non solo delle conoscenze e delle capacità condivise dei membri che lo costituiscono, ma anche delle dinamiche interattive, del coordinamento e delle sinergie che derivano dalle loro transazioni. Secondo Bandura le credenze di autoefficacia proprie dell’intero gruppo inteso come entità meta-individuale o sistema, predice il livello di prestazioni raggiunto da quel gruppo e le strategie condivise ed appropriate da attivare in caso di avversità.
Nell’ottica di Bandura, e riprendendo i versi di Gallo, il lavoro non si porrebbe mai, come obiettivo, quello di minare “la speranza di far star buoni i pensieri”. L’atto stesso di sperare, riconducibile all’etimologia sanscrita della parola Speranza, che suggella nella radice “–Spa” il tendere verso una meta con un approccio positivo, ci invita a guardare sempre avanti. Si pensi alla parola latina “Spes-Spei”, rintracciabile nel verbo italiano “auspicare” così come nel sostantivo angloamericano “expectation”. Se per il nostro Divin Poeta la Speranza rappresenta la congiunzione fra Terra e Cielo, quale virtù umana e al contempo teologale: Spene”, diss’io, è un attender certo/ della gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto (versi 67-69 -XXV Canto - “Paradiso”), affermando che essa non è soltanto dono della grazia ma è anche una conquista dell’uomo, perché dà ai viventi la prospettiva di un trionfo dei propri ideali, non solo religiosi ma anche politici, sociali e civili, così, auspico, a livello globale, maggiore dignità e rispetto degli ambienti e negli ambienti di lavoro, sulla base dell’autoefficacia collettiva percepita nell’accezione che ne dà Bandura, al fine di ridurre quanto più possibile fenomeni di alienazione e di autoalienazione del lavoro.