L’Opera
Musicale italiana non è costituita solo dalla musica della partitura e dalle
parole del libretto bensì anche e soprattutto dal contesto storico, dal costume
ambientale, dai modi, dal linguaggio del corpo, dalla intrinseca drammaturgia
antropologica e sociale, tutti elementi irrinunciabili e intransitivi che ne
fanno lo spirito del tempo e perciò l’Opera messa in scena, nel suo specifico
tema e titolo, nella sua capacità di raccontarci di sé oltre le mode. Le
regie contemporanee che spostano i fatti storici ai nostri giorni tradiscono
l’essenza stessa dell’Opera, in quanto non ne colgono la profondità
drammaturgica non rispettandone il qui ed ora proprio del teatro. Le soluzioni
intraprese degli allestimenti, ingiustificatamente tradotti nella storia che
non è a loro originaria e dettata dalla necessità artistica del proprio tempo,
risultano forzate, semplificate al ribasso, una maniera conformista e
omologante della lettura critica del testo. Perché
questo impoverimento continua? Perché le direzioni dei teatri e l’insieme del
cast chiamato a svolgere l’opera non dissentono, non si rifiutano a condividere
l’imbruttimento dei modi dello stile e il depotenziamento del linguaggio
teatrale? La
vera sfida non sarebbe provare a mettere in scena quel tempo a noi lontano, e
proprio per questo ricco di fondamenti che ci sono propri, rispettandone
l’assoluta identità di modi, riuscendo così ad evocare con le azioni e i
sentimenti, il canto e le parole, la magia unica del teatro? O
è proprio la “Storia” che si vuole cancellare a poco alla volta, occultamente,
le radici del nostro passato, per sostituirlo con un’atemporalità priva di
riconoscimento dei conflitti delle identità e delle forze in campo tra
sentimento e ragione? Tutto
sembra orientarsi a un appiattimento del senso critico a diminuirne il suo
esercizio, rendendo quasi unilaterale la scelta di una condotta dominante per
un modello culturalmente e vistosamente autoreferenziale. I
messaggi subliminali di massa finalizzati a che solo l’assoluto presente ha
valore tendono a rimuovere la memoria e si insinuano nella condotta generale
dei progetti culturali e della stessa pratica del fare. Queste scelte
registiche tendono a creare un’abitudine conforme a una interpretazione dell’Opera
che sarebbe più corretto chiamarla: “liberamente tratta da”. Può essere
pigrizia, questione di fondi, generica provocazione, fatto è che ne risulta un
avvallare mediocre dell’indagine critica necessaria e auspicabile che l’artista
( il direttore, l’orchestra, il regista ) deve compiere per la nuova messa in
scena. E
il pubblico è come se non ci fosse, viene ignorato, deluso nelle sue
aspettative di intraprendere un viaggio temporale e spirituale nelle sue
origini, al cospetto delle scelte dei padri, dei loro conflitti e della loro
umanità; non siamo più chiamati a partecipare, in quanto elemento
indispensabile del dramma e della fruizione stendhaliana, parti di quella
catarsi che ci mette in discussione nelle nostre azioni, solidali o antagoniste.
Frustrando così l’esercitazione del nostro senso critico, questa condotta di
una regia, che tradisce se stessa, rinuncia alla sua proprietà di linguaggio,
ci inganna, contribuendo all’appiattimento indistinto dell’omologazione di
massa; un prodotto da consumo da calendario dei cartelloni e delle recite senza
più Storia.