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domenica 6 ottobre 2024

L’OPERA TRADITA
di Vincenzo Pezzella


 
L’Opera Musicale italiana non è costituita solo dalla musica della partitura e dalle parole del libretto bensì anche e soprattutto dal contesto storico, dal costume ambientale, dai modi, dal linguaggio del corpo, dalla intrinseca drammaturgia antropologica e sociale, tutti elementi irrinunciabili e intransitivi che ne fanno lo spirito del tempo e perciò l’Opera messa in scena, nel suo specifico tema e titolo, nella sua capacità di raccontarci di sé oltre le mode.
Le regie contemporanee che spostano i fatti storici ai nostri giorni tradiscono l’essenza stessa dell’Opera, in quanto non ne colgono la profondità drammaturgica non rispettandone il qui ed ora proprio del teatro. Le soluzioni intraprese degli allestimenti, ingiustificatamente tradotti nella storia che non è a loro originaria e dettata dalla necessità artistica del proprio tempo, risultano forzate, semplificate al ribasso, una maniera conformista e omologante della lettura critica del testo.
Perché questo impoverimento continua? Perché le direzioni dei teatri e l’insieme del cast chiamato a svolgere l’opera non dissentono, non si rifiutano a condividere l’imbruttimento dei modi dello stile e il depotenziamento del linguaggio teatrale?
La vera sfida non sarebbe provare a mettere in scena quel tempo a noi lontano, e proprio per questo ricco di fondamenti che ci sono propri, rispettandone l’assoluta identità di modi, riuscendo così ad evocare con le azioni e i sentimenti, il canto e le parole, la magia unica del teatro?
O è proprio la “Storia” che si vuole cancellare a poco alla volta, occultamente, le radici del nostro passato, per sostituirlo con un’atemporalità priva di riconoscimento dei conflitti delle identità e delle forze in campo tra sentimento e ragione?
Tutto sembra orientarsi a un appiattimento del senso critico a diminuirne il suo esercizio, rendendo quasi unilaterale la scelta di una condotta dominante per un modello culturalmente e vistosamente autoreferenziale.
I messaggi subliminali di massa finalizzati a che solo l’assoluto presente ha valore tendono a rimuovere la memoria e si insinuano nella condotta generale dei progetti culturali e della stessa pratica del fare. Queste scelte registiche tendono a creare un’abitudine conforme a una interpretazione dell’Opera che sarebbe più corretto chiamarla: “liberamente tratta da”. Può essere pigrizia, questione di fondi, generica provocazione, fatto è che ne risulta un avvallare mediocre dell’indagine critica necessaria e auspicabile che l’artista ( il direttore, l’orchestra, il regista ) deve compiere per la nuova messa in scena.
E il pubblico è come se non ci fosse, viene ignorato, deluso nelle sue aspettative di intraprendere un viaggio temporale e spirituale nelle sue origini, al cospetto delle scelte dei padri, dei loro conflitti e della loro umanità; non siamo più chiamati a partecipare, in quanto elemento indispensabile del dramma e della fruizione stendhaliana, parti di quella catarsi che ci mette in discussione nelle nostre azioni, solidali o antagoniste. Frustrando così l’esercitazione del nostro senso critico, questa condotta di una regia, che tradisce se stessa, rinuncia alla sua proprietà di linguaggio, ci inganna, contribuendo all’appiattimento indistinto dell’omologazione di massa; un prodotto da consumo da calendario dei cartelloni e delle recite senza più Storia.