Lidia Sella
conversa con lo scultore Dario Ghibaudo Quali i tuoi artisti prediletti? Bernini, Wildt, Hirts…. L’amore, il dialogo intellettuale, la natura, l’esperienza onirica, le letture, la musica, i viaggi, la storia dell’arte: come agiscono in te le diverse fonti di ispirazione? Sono tutta la mia vita.E dunque si riverberano nelle mie opere. Nella realizzazione di un’opera d’arte, che peso esercitano
la componente razionale, lo slancio del pensiero? O prevalgono viceversa l’inconscio, l’intuizione, l’impulso istintivo, il demone della creazione? Sicuramente l’urgenza di creare.
Credo fortissimamente nel fare. L’atto di dare concretezza a un
pensiero, a
un’intuizione, induce automaticamente a scavare sempre più in profondità. Ed
è proprio allora che, in embrione, prende già forma l’opera successiva. In un certo
senso ogni mia scultura nasce da una catena di precedenti errori.
L’arte cristallizza il tempo in un eterno presente.” È un mio aforisma.
Concordi con me? Bellissimo!Concordo. Con quali tecniche e materiali ti cimenti? Quelli che, sul momento, ritengo ideali per realizzare
una determinata opera. Ho lavorato la
pietra, il marmo, la resina acrilica, il cemento, la plastica riciclata. Disegno molto, direttamente a inchiostro, su carta ad alta grammatura. E poi su
grandi superfici di carta intelata, sino a tre metri per due. Ma spesso
sperimento
nuovi materiali, per saggiarne le caratteristiche
essenziali, valutare
come si comportano, comprendere se mi trovobene
con essi.
Cerco insomma di capirli.
Lavorare su materiali differenti modifica l’approccio emotivo e concettuale verso l’opera che realizzi? Sul piano
concettuale risulta ininfluente. Incide invece sotto il profilo tecnico ed
estetico. Hai messo a punto metodiche innovative che ti abbiano consentito di raggiungere
migliori risultati formali? In tanti
anni di intenso lavoro, la tecnica via via si affina. Tanto che talvolta si rischia persino di scivolare nel
virtuosismo, nella vanità. Pur nellaconsapevolezza
che un simile approccio non porta
a nulla. Se non all’autocompiacimento.
Un’opera su commissione: gabbia o sfida? Né l’una né
l’altra. Piuttosto l’insolita circostanza cheuna mia opera
si trovi a dialogare con le istanze del committente, al
punto da combaciare con esse, e rispecchiarle. Con il
vantaggio che in questi rari casi il denaro arriva, almeno in parte, prima che
l’opera sia compiuta. Quanto è cambiata la tua arte nel tempo? In nuce c’era già tutto sin dal
principio? Se
per inizio si intende la nascita del mio Museo di Storia Innaturale, il
progetto di una vita, certo, il mio cammino parte da lontano. Ma a
mano a mano che procedo, il pensiero si sofferma su questioni diverse. Tuttavia
non c’è una meta da raggiungere. Semmai si tratta di un percorso a ostacoli, che si
modifica nel tempo, insieme a me che lovivo.
Quanto tieni in conto il giudizio del pubblico? Fa piacere se il tuo lavoro viene apprezzato.
E dispiace quando è messo in discussione. Però la critica è più utile, si traduce in uno stimolo al miglioramento. Sembri oscillare tra passato e futuro, tradizione e innovazione, gemme e
radici: ti senti
contemporaneo o inattuale? Ho sempre pensato che l'arte debba essere un ponte tra presente,
passato e futuro. Sono partito dallo studio delle mutazioni e ora, dopo più di trent'anni,
esploro la meravigliosa, ingenua freschezza del Medioevo, le sue chimere, i bestiari...
Chi, fra i tuoi colleghi del XXI secolo, ritieni a te più affine? Forse, per certi versi, Joan
Fontcuberta, un poco Mark Dion, Damien Hirst… Forgi creature fantastiche, mitologiche, mostruose, metà
uomo metà animale, volti che diventano musi, urobori di membra, arti simili a rami,
spirali cromosomiche, sguardi carichi di mistero, figure che richiamano Dante,
Omero, l’Apocalisse, un
bestiario immaginifico che fluttua tra Le metamorfosi di Ovidio e L’origine
della specie di Darwin: intendi così
tradurre in una forma tangibile tutto ciò
si agita in te, in noi? Ogni uomo racchiude in sé un mondo. E l’artista risponde
all’impulso di mostrare il proprio universo interiore.
Le tue sculture sprigionano sensualità, quasi una sorta di ipnotico erotismo. Si tratta di un effetto voluto? È solo il piacere di plasmare. Si accarezza di continuo la materia e
lei, sollecitata, restitusce a modo suo. In Nietzsche contra Wagner, Nietzsche ci regala una
considerazione illuminante: “Questi Greci! Loro sì che sapevano vivere: per riuscirvi occorre arrestarsi
coraggiosamente alla superficie, all’increspatura, alla scorza, occorre adorare l’apparenza, credere alle forme, ai suoni, alle parole, all’intero Olimpo dell’apparenza! Questi Greci erano superficiali per profondità…”.In questo senso, ti senti un po’
Greco? Ritengo si debba lavorare molto seriamente, senza prendersi troppo sul serio.
Melville, in Moby Dick, ravvisa nel bianco “un incolore ateismo di tutti i colori, che fa rabbrividire”.Tu sei particolarmente incline a usare il
bianco: perché? Forse perché è la somma di tutti i colori? Vendi un’opera e incassi
denaro. Ma ti amareggia separartene per sempre? Non me ne sono mai realmente separato. È un po’ come se fossero
sempre ancora tutte qui con me. Oggi non è facile muoversi nel mondo della critica e delle gallerie d’arte. Eppure qualche artista meritevole riesce a emergere anche senza
appoggi e raccomandazioni? Nel tempo le dinamiche
del mercato dell’arte tendono a cambiare: anni fa i
collezionisti erano mecenati che sostenevano gli artisti; ora
molti collezionisti aprono gallerie, commerciano, una diversa forma di sostegno agli
artisti.
Una volta comunque c’era una passione più autentica.
Ora a che cosa stai lavorando? Molto segretamente ti dico: sto pensando agli alberi…
magari un poco animali. Si dice a volte che la tragedia della vita di un artista consista nella sua
impossibilità di creare l’ideale. Ma la vera tragedia che perseguita quasi tutti gli artisti consiste
proprio nel fatto che essi lo realizzino fin troppo, il loro ideale. Perché, una volta realizzato,
perde la sua meraviglia e il suo mistero, e diventa semplicemente un nuovo
punto di partenza verso un ideale diverso.” Sono parole di Oscar Wilde, estrapolate da Il critico comeartista. Parte Prima.Ti rifletti in questo suo pensiero? Oscar Wilde è sempre adorabilmente profondo.
Sì, è così anche per me.
C’è un intento che accomuna tutte le tue opere? Forse suscitare lo stupore,
lo smarrimento, la vertigine della meraviglia? Soltanto la libertà
di soddisfare l’urgenza del creare.