L’UOMO CHE PIANTAVA I POMODORI di
Pierpaolo Calonaci
Youssef Abu Rabie
“Quando penso
che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è
bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado
tutto, la condizione umana sia ammirevole”. Jean Giono-
L’uomo che piantava gli alberi
*
“Perché la
banalità della testimonianza come falsa obiettività e ritorno del ‘mondo
reale’ non può restituire il significato politico e umano profondamente
tragico di quella carneficina”. Albert Dichy sul
testo di Jean Genet - Quattro ore a Chatila Youssef
Abu Rabie aveva 24 anni, era palestinese e faceva l’agronomo. È stato ucciso
qualche settimana fa nella sua casa con la madre da un missile israeliano. La
scorsa estate cominciò a piantare una coltivazione di pomodori nel bel mezzo
delle macerie e della morte che il genocidio del nazionalismo
sionista/messianico israeliano compie impunemente. Come può scoccare la
resistenza qui? Quando scocca la resistenza? In queste domande si può
condensare, oltretutto, la conoscenza che Genet esperisce della Rivoluzione
palestinese vivendo con i “fedayn” per sei mesi, definendola,quale “forza
di questa gioia d’esistere, sinonimo di bellezza, la bellezza verticale dei
combattenti e della loro strana leggerezza”. Quando
la storia si rivela nella materialità della quotidianità, allora scocca la
resistenza; come freccia utopica, ben più radicata nel reale e ben più
desiderosa di libertà e giustizia di un qualsiasi Don Chisciotte, fa breccia
nell’oscurità dei vivi e dei morti. Non l’accetti né la rifiuti: ne senti il
fardello. Dentro la storia, quella ufficiale, istituzionalizzata e
normalizzata, quella della scuola della “democrazia” insomma, che si allinea
con i “buoni” contro i “cattivi”, col “bene” contro il “male”, quel fardello è
stato rimosso (fanno bene perciò i pochi studenti a rifiutare di imparare una
storia siffatta poiché intuiscono che seguendola mai matureranno la
disobbedienza né l'esser pronti per la resistenza).Credo piuttosto che alla storia servano uomini e
donne che se ne facciano carico, tanto nella sofferenza, quanto possibilmente
nella gioia, quanto nell’azione responsabile. Non educazione “civica” serve. Youssef
aveva “scelto” di incarnare la vita con la sua idea di resistenza. Come una
brezza riparatrice che sorprende il volto troppo esposto alla brutalità.Possiamo immaginarlo stretto tra questo
dualismo che schiaccia l'uomo da tempo immemore che così recita: - Per quanto si eviti di vedere la violenza, la violenza viene a cercarti.
Uno o la subisce o la fa. O, comunque, se a te non fanno niente, la fanno ad
altri, ed è lì che interviene la coscienza. Perché se uno permette che la
facciamo ad altri diventa, dichiaratamente o no, complice.(Gioconda Belli, La donna abitata).
Ci
sono molte forme di resistenza, lo dimentichiamo sovente. Tante quante le
traiettorie degli aquiloni, tante quanto il desiderio, il bisogno di libertà e
giustizia che il cuore umano può contenere e che spesso, oggi troppo spesso, e
nel vicino futuro ancora molto meno, non riesce più a immaginare. Youssef aveva
“scelto” di raccontare la condizione del proprio popolo coltivando pomodori. È
stato il suo atto di responsabilità davanti all’oppressore. Chissà se l’avrà
scelto, ma questo non ci riguarda. L’ha visto, ecco ciò che conta. Aveva perciò
colorato le macerie che stavano intorno alle sue coltivazioni con le sue
piantine. Ma all’assassino nazionalista, che non è solo Israele, tutto ciò che
ricordi la vita fa paura. Il nazionalismo sopprime la vita: essere di sinistra
è combatterlo. Tutte le armi sarebbero buone per farlo? No, perché la
resistenza mai e poi mai colpirà i civili inermi. Youssef, come i personaggi de
Le rose di Atacama fa emergere altre prospettive di resistenza,
un’altra speranza di cui non si vede nemmeno l’aurora, per cui bisogna tacere.
Quelli che credono nella violenza proscrivono Youssef e i suoi pomodori. Quelli
che rifiutano la violenza se ne appropriano per sostanziare dogmaticamente la
propria lotta. Ma entrambi si cacciano nella prigionia degli schemi con cui
guardano la realtà, cristallizzandola, poiché ne rifiutando la dialettica e la
poetica della storia che intesse ogni rivoluzione. Nessuno schema nell’azione
di Youssef, nessun manuale di tecnica della resistenza: solo vita spogliata da
ogni ipocrisia redentrice di speranza e difesa fino all’indifendibile. Come nei
fiori di Atacama. Eppure, resistenza. Resistenza che si spoglia fino
all’annullamento. Resistenza e resa disse Dietrich Bonhoeffer, spogliarsi
della creatura che ci è stata appiccicata addosso disse la coeva Simone
Weil ai quali fa da controcanto l’opera rivoluzionaria di Rosa Luxembourg.
Non
so se Giono nell’affermare la meraviglia davanti alla condizione umana avesse
potuto essere più cauto con l’incanto. A guardare in che condizioni versi oggi
l’umanità un salto nella reductio per absurdum avrebbe dato a
quell’enunciazione un senso più pragmatico (forse la letteratura, forse l’arte
quando rifuggono la reductio per absurdum dell’essere umano ne devono
invocare la speranza quale bisogno auto-conservativo, rischiando di
compiere un attentato a se stesse: uccidere la negazione, anche solo in veste
speculativa, che fa paura, poiché fa emergere il non-detto. Perciò il
Nichilismo, quello nietzschiano, è stato ridotto a nozioni). Poiché
dopo la Shoah, dopo Sabra e Chatila, dopo Srebrenica, davanti all’orrore
indicibile contro il popolo palestinese, che “il nostro mondo” ripaga con
l’ignavia di guardarlo da lontano, la condizione umana pare si sia definitivamente
arresa, continuando a vestire armature, a se stessa, in un vortice antropofago
nel quale il vaso di Pandora è risucchiato, diversamente dal mito.
“[…] di tutto ciò, cosa è rimasto
di buono? mi chiedo. Gli uomini continuano a fuggire. Ci sono governanti
sanguinari. Si continuano a straziare i corpi, si continua a far guerre. Il
suono dei nostri tamburi deve continuare a battere nel sangue delle attuali
generazioni. È l’unica cosa che
di noi è rimasta, Yarince: la resistenza”(G. Belli, La donna abitata).