Breve
nota a margine del libro di Lidia Sella Una terrazza sul cosmo. La
scrittura è, parimenti ad altre pratiche d’arte, un tentativo di dare ordine,
mediante la forma, al flusso caotico dei pensieri e delle immagini. Questa
esigenza di rigorosa disciplina e di continuo perfezionamento si palesa
puntigliosamente nella produzione aforistica, poetica, filosofico-letteraria di
Lidia Sella. Ne rende conto la quinta edizione riveduta e ampliata di Una
terrazza sul cosmo. Meditazioni poetiche o, invertendo la formula
del sottotitolo, poesia meditante. È come se l’autrice perseguisse il compito
autoimposto di una strenua messa a fuoco lessico-concettuale delle proprie
ispirazioni, volta a ridurre via via qualsivoglia margine di residua
insoddisfacente cifra espressiva. Estraendo dalla partitura Immagini (dentrofuori):
“Nella mente / si fa strada a poco a poco/ la frase perfetta / evita i sentieri
inclini al caos / penetra nel midollo del significato / improvvisi bagliori
accende.” (Generazione spontanea). E, ancora, da Riflessioni (dentrofuori):
“Lo scrittore che rivede un proprio testo miriadi di volte / è vittima di
un’autocritica esasperata. / Saggia di continuo la tenuta logica dei concetti
[…]”. Ci rimanda a l’Ungaretti di Commiato: “Quando trovo / in questo
mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso.”, oppure
alla pagina esemplare dei QuadernidiMalte rilkiani, da
citare almeno nei passi essenziali: “Per un solo verso si devono vedere molte
città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli
uccelli volano, e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si
deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a incontri inaspettati
e a separazioni che si videro venire da lungi, a giorni d’infanzia […] ai
genitori […] a giorni in camere silenziose […] e a mattine sul mare […] a notti
di viaggio […] Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale
all’altra […] E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare,
quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino.
Poiché i ricordi di per sé stessi ancora non sono. Solo quando divengono
in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo
allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la
prima parola di un verso”. Culto
della parola - analogamente - in Lidia Sella. Ma, pure, cura delle sapienti
pause, delle cadenze, delle immagini decantate, dei simboli prescelti. Tutto
ciò, però, calato in scansioni di lucidità ferrea, senza sbavature, perché
“L’anima perirà insieme al corpo / da me si leverà forse solo uno sciame di
atomi.” (Il setaccio). Nessuna immortalità post mortem dunque,
nessun premio o castigo ultraterreno e conseguente speranza o timore, bensì
soltanto immersione mistica nella contingenza degli ‘accidenti’, a fronte di
una ‘sostanza’ magmatica inattingibile; dacché qualsiasi rappresentazione che
evidenzi la distanza fra realtà ordinaria e fantasticato sovramondo,
insofferente delle miserie del quotidiano, sottende comunque la tabe
metafisica. E l’autrice ha sempre optato per la fisica, ad onta di ogni
metafisica consolatoria: “Ateismo: / il coraggio / d’un’eterna / immensa /
solitudine.” (in: La figlia di Ar - Appunti interiori). A testimoniarlo
il posizionamento assiduo, in esergo, di passi di Empedocle, Lucrezio, Maxwell,
Born. E tuttavia si cadrebbe in errore se il ricorrente impiego del termine
“nulla” facesse dedurre, in Sella, derive nichilistiche; è invece proprio
l’opposto. Ci si trova piuttosto di fronte, in lei, alla versione nietzscheana
del nihil del cui antiteologismo cristofobico si dichiara proselita (“L’Anticristo
di Nietzsche: il mio vangelo”, in: Pallottole): il nulla non è il
vuoto, non è ni-ente, ma - esclusivamente - negazione dell’individuale, della
sua eternità di soggetto: nullus → non-ullus →non alcuno, cioè assenza
di determinazioni, quelle che gli illusi delle tre ‘religioni del Libro’
intendono a tutti i costi salvaguardare nell’Aldilà’, per anestetico e
soporifero autoinganno. Se proprio la speculazione heideggeriana ha denunciato
nella radice nichilistica della metafisica il drammatico destino
dell’Occidente, occorrerà riconoscere nell’antimetafisica “selliana” una
intrepidezza eroica, una terrestrità intrisa di profonda spiritualità laica, un
grande amore per la vita che le consente di guardare con coscienza tragica e
dignità - scevra da puntelli e appigli fideistici - verso l’esistenza, grumo
infinitesimale vocato alla morte. Ne risalta il dolente disincanto e lo sguardo
fermo al sistema universo, inteso quale fecondo magma caotico, pienezza
assoluta dove tutto si rimescola ed eternamente finisce e rinasce. Decentrata,
si profila l’umana condicio consegnata allo status di deiezione e
‘gettatezza’ (Geworfenheit, heideggerianamente) da percorrersi a testa
alta, nella consapevolezza drastica della sorte di isolamento cui ciascuno è
consegnato. Ogni
opera letteraria porta seco l’incompiutezza intrinseca, la significazione interrotta
che pur significandola rinvia all’infinita ulteriorità dilatoria. Da qui il
sogno vano dell’artefice di un’irragiungibile completezza, inseguita attraverso
il fantasmatico miraggio della composizione ‘organica’. Lidia Sella, di contro,
opta per la soluzione inversa: la frantumazione aforistica, il lampeggiamento
di immagini còlte nella loro sfuggente pregnanza non priva di allusività.
Fissare la fluidità del mercurio ermetico, avrebbero detto gli alchimisti. A
chiusa di questa rapida ricognizione, per una debita comparazione torna
opportuno richiamare alla memoria - di nuovo Rilke - la missiva indirizzata
alla moglie, in cui parla della visita fatta nel 1902 all’atelier dello
scultore Rodin. Qui, l’osservazione di alcuni frammenti marmorei accatastati
alla rinfusa, riproducenti parti di corpo umano, lo spinge dapprima a coglierne
l’aspetto disarticolato ma, a uno sguardo più attento, gli stessi pezzi vengono
man mano a delinearsi singolarmente, come manufatto compiuto, maggiormente
ricco rispetto al loro eventuale assemblaggio, nella giustapposizione di una
figurazione corporea ultimata. La medesima cosa si potrà riscontrare nei ‘disiecta’
di Lidia Sella. Necessiterà allora leggerli, rileggerli e meditarli a lungo,
per potervi cogliere appieno la cristallina armonia, la sensibilità, la
profondità e la silenziosa bellezza.