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domenica 1 dicembre 2024

IL RACCONTO
di Claudio Zanini


 
Il libro scarlatto
 
Un affresco pompeiano mostra una donna che, seduta su uno scranno, tiene tra le mani una sorta di volume aperto da cui escono alcune pagine, altre giacciono sparse sul pavimento. I fogli sono scarlatti. Di fronte a lei un uomo in piedi sembra ritrarsi, mentre porta al viso le mani aperte come fosse spaventato da ciò che vede. Lei è Penelope, lui Antinoo, il capo dei Proci. I fogli si prolungano sul pavimento in una sorta di lungo arazzo raccolto in pieghe sovrapposte l’una sull’altra come pagine d’un libro senza fine. Orifiamma che lascia intravedere lettere di scrittura arcana, fili colorati, nodi purpurei, grafia aggrovigliata in matasse fiammanti. Il libro si srotola, appena sfuggito dalle dita di Penelope e, onda scarlatta, scivola a terra. Lei lo raccoglie pazientemente e lo riavvolge, attenta che di nuovo non le travalichi dal grembo a turbare la vulnerabile animuccia di Antinoo. Ma, ci si chiederà, cos’è questo tessuto, in cui i colori giallo e arancio ma, soprattutto, il rosso scarlatto sono dominanti, e che incessantemente lei mescola, intesse e annoda? Che cos’è, dunque? E perché Antinoo trasale? Non è la tela fatta e disfatta da Penelope per ingannare il suo scoramento, il tempo rapace e l’avida protervia dei Proci. 



No! Non la smisurata lista delle spese per i fastosi banchetti che ogni sera vengono apparecchiati; e neppure è l’uggioso lavoro di cucito, rattoppo o rammendo di strappi nelle lussuose tovaglie o mascheramento di quei buchi nella biancheria di Antinoo e suoi truci compagni. No, non è questo tipo d’incombenza, tra l’altro compito di minute serventi, invisibili ma provette; bensì è faccenda ben più delicata e d’ardua decifrazione poiché segreta. Il manufatto di carta e stoffa che tra le dita della donna si svolge e prolunga il proprio ordito in lunghe pagine, pezze e giunture contenute da cimose sfrangiate, reca - entro la trama -, un lessico fatto di nodi e asole e lacci e spaghi; e consegna, in forma di bizzarri disegni, strane cifre, sillabe e parole, impetuosa narrazione. Di Penelope, il libro scarlatto è la voce. 



Da piccola e per lungo tempo, Penelope viene posta dai genitori sull’altalena del giardino per reprimere e ordinarle la vivacità e l’intelligenza vivida, entrambe fuori dal comune, entrambe foriere di dinieghi e ribellioni. Sull’altalena dell’infanzia, mentre suoni, voci, colori, la avvolgono con stupore e turbamento, passa dalla gioia che la illumina quando raggiunge l’apice dell’ascesa, nell’immensità del cielo prossima alle stelle; alla subitanea ansia di precipitare, con il cuore in gola, nell’abisso che le si spalanca sotto i piedi. Tuttavia, impara presto che la discesa vertiginosa altro non è che straordinario accumulo d’energia per risalire in alto, per spingersi più in alto ancora, sempre più in alto. L’esposizione prolungata alle brezze fredde e mutevoli, agli sbalzi repentini di temperatura, all’esercizio vocale messo in pratica imitando i gorgheggi degli uccelli, il frinire degli insetti e versi degli animaletti del giardino; ma, soprattutto per comunicare con loro; ebbene, questa multiforme e diuturna pratica le modifica l’apparato fonatorio trasformandolo in una voce oltremodo stravagante e originale. Magnifico, sebbene eccentrico e inusitato, strumento musicale. 



Penelope, bambina tenace e di fervido intelletto, tuttavia, impara a parlare correttamente la lingua materna e con singolare proprietà; nondimeno, quando è sola, e qualcosa la turba o le balza repentina nel pensiero, le accade d’ansimare, d’emettere rantoli rauchi e sibilanti gemiti, suoni desueti e primitivi, che annota su foglietti sparsi color amaranto. Oppure sono fonemi allo stato puro, dal rintocco cristallino; disinvoltamente le sue labbra modulano radici verbali prive di desinenze ma prolungate fino ad assottigliarsi in un sospiro fievole. Viceversa, possono esclamare desinenze perentorie accompagnate da una risatina sottile, canzonatoria. Una voce, dunque, che parla a se stessa, e di cui lei prende nota e appunti in un taccuino vermiglio. Voce che si sente riecheggiare dentro, evocando assopiti ricordi e improvvise emozioni; suono che non riesce sempre a uscire nitido - forse neanche vorrebbe farlo - incompreso e represso dall’altrui presenza esorbitante, come spesso accade a ogni donna. È l’enigmatica e mutevole vocalità d’un mondo altrove che attraverso la sua bocca s’esprime. Multiforme e selvaggio idioma, sviluppatosi in anni d’esercizio, che pare inconsapevolmente riecheggiare le infinite sonorità della natura e diventa, sulle pagine d’un quaderno purpureo, pura poesia. 



Quella voce che qui, ammutolita dal fastidio e dall’incomprensione dei pretendenti, non si spegne né annichilisce ma, in altra, forma riprende vita. Il suono delle parole s’assottiglia sulle labbra mormoranti e, mentre si ritrae nel silenzio, puro bisbiglio nella mente, prende forma visibile dalle dita che manovrano docili matite e penne e stili e aghi e filo. Sfumatura d’agili pennellate. Diventa fluido discorso figurale che, nell’accumularsi degli in-folio si fa ininterrotto segno e arabesco; nodi ora inestricabili e aggrovigliati, ora sciolti in fili morbidi, quasi serico crine serpeggiante. Così, quella lingua ostica, densa di monosillabi anglosassoni, rauchi vocalizzi, versi brevi e secchi; linguaggio altresì ammorbidito in dolci versi e modulato in canore vocali; quella lingua d’altrove di Penelope si trasforma, dunque, in un selvaggio arazzo fauve, una mappa fantastica punteggiata da una bizzarria di lemmi, parole, vocali e consonanti; popolata da bestie stupefacenti, apparizioni di scimmie dal vello amaranto, affiorare di gatti dalla grande testa zafferano, guizzare di serpi dai denti aguzzi e lingua bifida. Poi, teste umane insieme a creature dai grandi globi oculari e occhi ossidiana. 



Una casa felice e un figlio forte e amorevole, accanto a buffi scheletri con ginocchia dalle rotule purpuree e le occhiaie vuote stupefatte. Mescolate a queste favolose apparizioni sono presenti anche quelle cose oscene e perverse che si devono tacere. Quelle cose che turbano e suscitano allo stesso tempo gioia e l’orrore di segreti spasimi; ma che, soltanto consapevolmente dette - e qui presenti in parola, forma e colore - liberano la loro straordinaria energia positiva mentre, nell’ombra dell’inaudito, del sottosuolo impenetrabile, sprigionerebbero quel potere letale e distruttivo che annichilisce. Quelle cose che Antinoo ha creduto di vedere quando il libro scarlatto, sfuggitole dal grembo, srotolandosi sul pavimento, lo turbarono tanto che, subitanea, a lui balenò in mente l’immagine del sangue mestruale. Si, sangue e misteriosa sofferenza, ma anche sostanza di quella passione creatrice che, stolto e cieco, lui non ebbe, né volle il coraggio di riconoscere. Indizi d’un commovente poema d’amore, quell’amore che dal cuore di Penelope, è stato prematuramente estirpato da una crudele partenza ma che ha lasciato fiammanti lacerti e inestinguibile speranza d’un ritorno.      
Questo, lei scrive, ricama, taglia, trapunta, colora, piega, spiana, avvolge. La trasfigurazione visiva d’un mondo immaginale. Vivido documento e palinsesto segreto della sua vicenda creaturale. Libro scarlatto.