Il
libro scarlatto Un
affresco pompeiano mostra una donna che, seduta su uno scranno, tiene tra le
mani una sorta di volume aperto da cui escono alcune pagine, altre giacciono
sparse sul pavimento. I fogli sono scarlatti. Di fronte a lei un uomo in piedi
sembra ritrarsi, mentre porta al viso le mani aperte come fosse spaventato da
ciò che vede. Lei è Penelope, lui Antinoo, il capo dei Proci. I fogli si
prolungano sul pavimento in una sorta di lungo arazzo raccolto in pieghe
sovrapposte l’una sull’altra come pagine d’un libro senza fine. Orifiamma che
lascia intravedere lettere di scrittura arcana, fili colorati, nodi purpurei,
grafia aggrovigliata in matasse fiammanti. Il libro si srotola, appena sfuggito dalle dita di Penelope e, onda
scarlatta, scivola a terra. Lei lo raccoglie pazientemente e lo riavvolge,
attenta che di nuovo non le travalichi dal grembo a turbare la vulnerabile
animuccia di Antinoo. Ma, ci si chiederà, cos’è questo tessuto, in cui i colori
giallo e arancio ma, soprattutto, il rosso scarlatto sono dominanti, e che
incessantemente lei mescola, intesse e annoda? Che cos’è, dunque? E perché
Antinoo trasale? Non è la tela fatta e disfatta da Penelope per ingannare il
suo scoramento, il tempo rapace e l’avida protervia dei Proci.
No! Non la
smisurata lista delle spese per i fastosi banchetti che ogni sera vengono
apparecchiati; e neppure è l’uggioso lavoro di cucito, rattoppo o rammendo di
strappi nelle lussuose tovaglie o mascheramento di quei buchi nella biancheria
di Antinoo e suoi truci compagni. No, non è questo tipo d’incombenza, tra
l’altro compito di minute serventi, invisibili ma provette; bensì è faccenda
ben più delicata e d’ardua decifrazione poiché segreta. Il manufatto di carta e
stoffa che tra le dita della donna si svolge e prolunga il proprio ordito in
lunghe pagine, pezze e giunture contenute da cimose sfrangiate, reca - entro la
trama -, un lessico fatto di nodi e asole e lacci e spaghi; e consegna, in
forma di bizzarri disegni, strane cifre, sillabe e parole, impetuosa
narrazione. Di Penelope, il libro scarlatto è la voce.
Da piccola e per lungo
tempo, Penelope viene posta dai genitori sull’altalena del giardino per
reprimere e ordinarle la vivacità e l’intelligenza vivida, entrambe fuori dal
comune, entrambe foriere di dinieghi e ribellioni. Sull’altalena dell’infanzia,
mentre suoni, voci, colori, la avvolgono con stupore e turbamento, passa dalla
gioia che la illumina quando raggiunge l’apice dell’ascesa, nell’immensità del
cielo prossima alle stelle; alla subitanea ansia di precipitare, con il cuore
in gola, nell’abisso che le si spalanca sotto i piedi. Tuttavia, impara presto
che la discesa vertiginosa altro non è che straordinario accumulo d’energia per
risalire in alto, per spingersi più in alto ancora, sempre più in alto.
L’esposizione prolungata alle brezze fredde e mutevoli, agli sbalzi repentini
di temperatura, all’esercizio vocale messo in pratica imitando i gorgheggi
degli uccelli, il frinire degli insetti e versi degli animaletti del giardino;
ma, soprattutto per comunicare con loro; ebbene, questa multiforme e diuturna
pratica le modifica l’apparato fonatorio trasformandolo in una voce oltremodo
stravagante e originale. Magnifico, sebbene eccentrico e inusitato, strumento musicale.
Penelope, bambina tenace e di fervido intelletto, tuttavia, impara a parlare
correttamente la lingua materna e con singolare proprietà; nondimeno, quando è
sola, e qualcosa la turba o le balza repentina nel pensiero, le accade
d’ansimare, d’emettere rantoli rauchi e sibilanti gemiti, suoni desueti e
primitivi, che annota su foglietti sparsi color amaranto. Oppure sono fonemi
allo stato puro, dal rintocco cristallino; disinvoltamente le sue labbra
modulano radici verbali prive di desinenze ma prolungate fino ad assottigliarsi
in un sospiro fievole. Viceversa, possono esclamare desinenze perentorie
accompagnate da una risatina sottile, canzonatoria. Una voce, dunque, che parla
a se stessa, e di cui lei prende nota e appunti in un taccuino vermiglio. Voce
che si sente riecheggiare dentro, evocando assopiti ricordi e improvvise
emozioni; suono che non riesce sempre a uscire nitido - forse neanche vorrebbe
farlo - incompreso e represso dall’altrui presenza esorbitante, come spesso
accade a ogni donna. È l’enigmatica e mutevole vocalità d’un mondo altrove che
attraverso la sua bocca s’esprime. Multiforme e selvaggio idioma, sviluppatosi
in anni d’esercizio, che pare inconsapevolmente riecheggiare le infinite
sonorità della natura e diventa, sulle pagine d’un quaderno purpureo, pura
poesia.
Quella voce che qui, ammutolita dal fastidio e dall’incomprensione dei
pretendenti, non si spegne né annichilisce ma, in altra, forma riprende vita.
Il suono delle parole s’assottiglia sulle labbra mormoranti e, mentre si ritrae
nel silenzio, puro bisbiglio nella mente, prende forma visibile dalle dita che
manovrano docili matite e penne e stili e aghi e filo. Sfumatura d’agili
pennellate. Diventa fluido discorso figurale che, nell’accumularsi degli
in-folio si fa ininterrotto segno e arabesco; nodi ora inestricabili e
aggrovigliati, ora sciolti in fili morbidi, quasi serico crine serpeggiante.
Così, quella lingua ostica, densa di monosillabi anglosassoni, rauchi
vocalizzi, versi brevi e secchi; linguaggio altresì ammorbidito in dolci versi
e modulato in canore vocali; quella lingua d’altrove di Penelope si trasforma, dunque, in un selvaggio arazzo fauve, una mappa fantastica punteggiata
da una bizzarria di lemmi, parole, vocali e consonanti; popolata da bestie stupefacenti,
apparizioni di scimmie dal vello amaranto, affiorare di gatti dalla grande
testa zafferano, guizzare di serpi dai denti aguzzi e lingua bifida. Poi, teste
umane insieme a creature dai grandi globi oculari e occhi ossidiana.
Una casa
felice e un figlio forte e amorevole, accanto a buffi scheletri con ginocchia
dalle rotule purpuree e le occhiaie vuote stupefatte. Mescolate a queste
favolose apparizioni sono presenti anche quelle cose oscene e perverse che si
devono tacere. Quelle cose che turbano e suscitano allo stesso tempo gioia e
l’orrore di segreti spasimi; ma che, soltanto consapevolmente dette - e qui
presenti in parola, forma e colore - liberano la loro straordinaria energia
positiva mentre, nell’ombra dell’inaudito, del sottosuolo impenetrabile, sprigionerebbero
quel potere letale e distruttivo che annichilisce. Quelle cose che Antinoo ha
creduto di vedere quando il libro scarlatto, sfuggitole dal grembo,
srotolandosi sul pavimento, lo turbarono tanto che, subitanea, a lui balenò in
mente l’immagine del sangue mestruale. Si, sangue e misteriosa sofferenza, ma
anche sostanza di quella passione creatrice che, stolto e cieco, lui non ebbe,
né volle il coraggio di riconoscere. Indizi d’un commovente poema d’amore,
quell’amore che dal cuore di Penelope, è stato prematuramente estirpato da una
crudele partenza ma che ha lasciato fiammanti lacerti e inestinguibile speranza
d’un ritorno. Questo, lei scrive, ricama,
taglia, trapunta, colora, piega, spiana, avvolge. La trasfigurazione visiva
d’un mondo immaginale. Vivido documento e palinsesto segreto della sua vicenda
creaturale. Libro scarlatto.