Passato,
presente e futuro dell’intellettuale secondo David Bidussa Lavorare
stanca, scriveva Cesare Pavese. Ma oggi forse, in un’epoca di attivismo
sfrenato, è il pensare che stanca di più. Analizzare, riflettere, valutare: compito
che ormai viene delegato a un’unica categoria di persone: agli intellettuali.
Di loro si occupa David Bidussa nel suo ultimo lavoro, intitolato appunto Pensare
stanca (Feltrinelli 2024, pagine 224). David Bidussa (Livorno, 1955), scrittore e giornalista, si è auto-definito in una intervista
“storico sociale delle idee”, riferendosi a “una disciplina che comprende un
mix di competenze culturali tra le quali: storia contemporanea, storia sociale,
semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia
dei partiti e movimenti politici”. E in questo volume troviamo infatti accurate
ricostruzioni storiche, accompagnate da acute analisi sociologiche e politiche,
spesso non in linea con un’opinione comune addomesticata o addirittura
dogmatica. Il volume è diviso in tre sezioni. La prima, più concettuale, si occupa di definire il
profilo identitario dell’intellettuale, nella sua vocazione all’azione
pubblica, che lo vede dentro e fuori dalla storia, come suo prodotto e insieme suo
interprete. La seconda e terza parte propongono una divisionetemporale
caratterizzata da un lato dall’egemonia dei partiti politici di massa,
dall’altro dall’inizio della loro dissoluzione fino alle soglie dell’attualità.
Nel primo periodo si imposero fondamentali figure di “dissidenti impegnati”, di
engagé non più militanti ma critici rispetto alle direttive dei partiti,
considerati talvolta eretici e per questo allontanati dalla partecipazione
politica diretta. Tra di loro, si alzarono coraggiose le voci di Walter
Benjamin, Simone Weil e Victor Serge, riascoltate in seguito empaticamente da
Hannah Arendt, Albert Camus, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte e Furio Jesi.
La terza parte è dedicata agli ultimi cinquant’anni che hanno registrato la
crisi delle democrazie rappresentative e la nascita dei movimenti. In relazione
a questi cambiamenti si è imposta una nuova figura di “intellettuale radicale”,
che rivendica per sé l’incombenza di indagare trionfi e fallimenti di chi si
colloca sulla scena politica, con il proposito di allertare gli strati sociali più
disorientati, impreparati o indifferenti.
David Bidussa fa alcuni nomi
rilevanti di “sentinelle” capaci di mettere in guardia, con particolare
sensibilità, dalla diffusione di un pensiero a-problematico, e pacificato nelle
convenzioni livellatrici: Edward Said, Susan Sontag, Tony Judt, Zygmunt Bauman,
Tzvetan Todorov. Come è andata trasformandosi la funzione
dell’intellettuale nell’ultimo secolo? Desueta appare ormai la figura di guida
e profeta, di predicatore o consolatore; altrettanto superata quella di
dissacratore e contestatore. Bidussa concorda conTodorov nel
sottolineare il necessario atteggiamento critico di chi ha il dovere di prendersi
carico dei problemi e delle ansie del proprio tempo, provando a dare risposte
che provochino a loro volta ulteriori domande: incarnando passione,
consapevolezza, inquietudine, e incoraggiando a pensare in maniera eterodossa,
senza “sdraiarsi sul senso comune”. L’intellettuale infatti non deve creare consenso, ma
porre problemi. Capita invece che aspiri a conquistare un ruolo pubblico
dominante, oppure a realizzare una posizione di privilegio per sé, proponendosi
come specialista in determinati campi del sapere. Non è questo l’obiettivo da raggiungere:
piuttosto dovrebbe assumersi il compito di portare alla luce le ambiguità del
presente, per consegnare alle giovani generazioni la possibilità di costruire
un futuro migliore in difesa dei propri diritti, ma superando la dimensione privata,
estranea all’interesse sociale e all’identità collettiva.