Classe Operaia,
Sinistra, Resistenza, Costituzione L’Unità
del 15 Marzo 1944, sotto l’occhiello: “La classe operaia all’avanguardia della
lotta di liberazione nazionale” titolava: “Lo sciopero generale dell’Italia
Settentrionale e Centrale è una grande battaglia vinta contro gli oppressori
della Patria”. In quella forma redatta in estrema sintesi, l’organo ufficiale del
Partito Comunista Italiano formulava un giudizio sull'esito dello sciopero
delle grandi fabbriche, svoltosi il 1° Marzo di quell’anno: un vero e proprio
punto di svolta nella Resistenza al Centro-Nord e che è necessario ricordare
unendo nella memoria collettiva il pensiero di quanti, in quell’occasione,
furono prelevati dalle fabbriche e portati nei campi di sterminio, Mauthausen
in particolare. L’intervento della
Resistenza a sostegno dell’offensiva alleata del primo trimestre 1944 non si
manifestò, infatti, soltanto con l’intensificarsi della guerra partigiana sulle
montagne e nelle città.Quando si sviluppa un tentativo
di analisi storico-politica l’importanza e l’efficacia dell’apporto della
Resistenza Italiana alla contesa bellica deve essere collegata anche alla vasta
azione di massa condotta dalle classi lavoratrici.Solo in quel modo, nella saldatura tra la lotta di
montagna, quella di città e la presenza nelle grandi fabbriche, il movimento di
Resistenza assunse in quella fase cruciale della guerra un ruolo decisivo alla
vigilia dello sbarco in Normandia e mentre sul fronte orientale le truppe
sovietiche stavano calando a marce forzate verso Occidente. Fin dal gennaio 1944
nella consapevolezza di questa necessità di intreccio tra i diversi livelli
della lotta la direzione del PCI per l’Alta Italia (Longo, Secchia, Li Causi,
Massola, Roasio) tenne una riunione, alla quale intervennero anche i
rappresentanti dei comitati d’agitazione che avevano diretto gli scioperi nel
novembre-dicembre 1943 (Colombi per il Piemonte, Grassi per la Lombardia,
Scappini per la Liguria) e decise di avviare immediatamente la preparazione di
uno sciopero di vaste proporzioni, costituendo a quel fine un comitato di
agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria.L’iniziativa venne poi discussa ampiamente con gli altri
partiti del CLNAI, e in particolare con il Partito socialista e il Partito
d’azione che s’impegnarono anch’essi nel lavoro preparatorio.Seguirono settimane d’intensa attività per mobilitare
almassimo le forze operaie e per coordinare l’intervento dei GAP, non solo
nelle regioni del triangolo industriale, ma anche nel Veneto, in Toscana e in
Emilia; questa estensione del movimento impose alcuni rinvii della data
d’inizio, che infine venne fissata per il 1° Marzo 1944.
In campo fascista (ovviamente la preparazione di una iniziativa di
così grande portata non poté essere condotta in totale clandestinità) l’iniziativa
era considerata con rabbiosa inquietudine anche perché avrebbe significato di
fatto il fallimento di una grossolana manovra propagandistica: la cosiddetta
socializzazione della gestione delle imprese, che proprio in quei giorni (il
decreto legislativo era stato emanato 12 Febbraio) il governo di Salò aveva
lanciato proprio nell’intento di placare l’ostilità delle masse operaie.Le masse operaie delle grandi fabbriche del Nord accolsero
con assoluta indifferenza il progetto di socializzazione, attorno al quale
tuttavia i fascisti continuarono a orchestrare una rumorosa campagna
propagandistica, sperando di riuscire così a richiamare prima o poi su di esso
l’interesse dei lavoratori.Una speranza che
crollò miseramente di fronte alla prospettiva dello sciopero. Considerata
l’impossibilità di bloccare il movimento, le autorità fasciste tentarono di
ridurne gli effetti diramando attraverso la stampa l’annuncio che alcune
fabbriche piemontesi sarebbe rimaste chiuse per 7 giorni, a cominciare dal 1°
Marzo, per mancanza di energia elettrica.L’espediente,
subito denunciato da un manifesto del comitato interregionale, non impedì che
proprio a Torino e in Piemonte si registrasse una elevata partecipazione allo
sciopero: 60 mila lavoratori in città e 150.000 in Regione si astennero dal
lavoro.A Milano scioperarono anche le
maestranze della tipografia del Corriere della Sera e per tre giorni l’organo
della grande borghesia lombarda non poté uscire.La repressione tedesca fu dovunque feroce.L’ambasciatore Rahn ricevette personalmente da Hitler
l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti. Anche se il
mostruoso provvedimento non fu eseguito nella misura indicata per “difficoltà
tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla
produzione bellica (come spiegò lo stesso Rahn) alcune migliaia di operai
furono deportati nei campi di sterminio.
I fascisti
s’assunsero il ruolo servile di esprimere la volontà dei tedeschi, rivolgendo
minacciose intimazioni agli operai che continuavano ad astenersi dal lavoro.A Genova, il capo della provincia Basile (lo stesso
personaggio che, 16 anni dopo, sarebbe stato al centro dei moti genovesi contro
il governo Tambroni, per via della decisione del MSI di fargli presiedere il
previsto congresso nazionale di quel Partito proprio a Genova: congresso che
proprio quelle mobilitazioni di piazza impedirono che si svolgesse aprendo la
strada anche alla caduta del governo che gli stessi missini stavano sostenendo)
lanciò un “ultimo avviso”, minacciando - appunto - la deportazione nei campi di
sterminio (si trattava, secondo lui, di mandare gli operai a “meditare sul
danno arrecato alla causa della vittoria”). La minaccia fu poi concretizzata il
16 giugno 1944 quando, a tradimento, 1.488 operai genovesi che stavano entrando
nelle fabbriche per il primo turno furono portati via e condotti prigionieri in
Germania.Nella provincia di Savona
parteciparono allo sciopero 5.200 operai: i nazifascisti compirono diverse
retate e furono portati a Mauthausen e ai campi sussidiari di Gusen ed Ebersee
diverse centinaia dei partecipanti allo sciopero, prima concentrati nella
colonia del Merello a Torre del Mare poi alla Casa dello Studente di Genova e infine
portati a Bolzano prima del passaggio decisivo in Austria dove la maggior parte
di loro trovò la morte.
Lo sciopero fu una dimostrazione imponente di forza e di volontà
combattiva: un movimento di massa che non ha trovato riscontro nella storia
della resistenza europea.Ai fini bellici la sua
importanza non fu minore diun’azione di guerra, se si pensa che per otto giorni
la produzione di guerra venne completamente paralizzata in tutta l’Italia
invasa.Il che equivalse per i tedeschi a una
grossa sconfitta riportata sul campo di battaglia. Non mancarono anche
dalla parte degli operai debolezze e cedimenti: un fatto che non deve essere
nascosto.Complessivamente però è possibile
riassumere il senso complessivo di quelle giornate (gli scioperi si conclusero
come previsto dal comitato di agitazione interregionale l’8 Marzo) rileggendo
quanto scritto, all’epoca dalla “Nostra Lotta”: “Lo sciopero generale politico
rivendicativo del 1-8 Marzo assume un’importanza e un significato nazionali e
internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si
poneva (che eranoquelli salariali, n.d.r.); indica la strada da
seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie,
in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione
dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i
patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e
diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta:
essa si iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria
libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra
patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di
domani”.
Gli scioperi del 1-8
Marzo 1944 assunsero anche un significato complessivo di indirizzo politico
della lotta di Resistenza: il proletariato aveva assunto, in quell’occasione,
un senso di “responsabilità nazionale” che stava dentro alle indicazioni dei
partiti che componevano il CLNAI, facendo così convivere le istanze della
liberazione della classe con quelle della vittoria sul nazifascismo e
dell’avvento della democrazia.Quello fu il
compito di sintesi dei grandi partiti della sinistra italiana: far convivere,
all’interno di un progetto politico che era appunto quello di un vero e proprio
radicale rinnovamento della democrazia in Italia, le motivazioni di classe con
quelle della Resistenza al nazifascismo.Non a
caso pochi giorni dopo lo sciopero, l’11 aprile 1944 Palmiro Togliatti (appena
rientrato in Italia) in un suo intervento svolto nel cinema Modernissimo di
Napoli lanciò la parola d’ordine del “Partito Nuovo”: il PCI come grande
partito di massa e non soggetto chiuso nella cerchia ristretta dei “rivoluzionari
di professione”. Così il PCI si avviava a compiere quel tratto di percorso che
Gramsci aveva già indicato nelle tesi del III congresso del Partito a Lione nel
1926.Nel corso di quella fase storica fu
quello dei partiti della sinistra un non facile lavoro di indirizzo e di
sintesi, un lavoro realizzato anche in forme contraddittorie, ma che alla fine
ottenne un risultato fondamentale: ancor oggi possiamo, infatti, affermare che
alla base della democrazia repubblicana stanno le lotte operaie e la
Resistenza.
In tempi davvero difficili per la democrazia italiana sottoposta ad
attacchi molto duri di vero e proprio “revanscismo storico” ricordare oggi
quelle giornate del marzo 1944 significa anche riaffermare quell’origine e
quelle radici.Resistenza, classe operaia,
partiti della sinistra restano nella storia come stelle polari, punti di
riferimento, per chiunque oggi intenda ancora affermare i valori della democrazia,
della libertà, del riscatto sociale, dell’eguaglianza.