Il peggio deve ancora arrivare C’è un virus che non abbandona il corpo cronicamente
debilitato dell'economia italiana. E non si tratta, per adesso, del germe
cinese. Si chiama recessione e, anche se i valori delle analisi statistiche non
lo accertano formalmente, in realtà agisce sotto traccia e continua a
proliferare. Dopo i dati della scorsa settimana sul Pil, è di ieri un nuovo,
allarmante sintomo: l'Istat ha certificato che a dicembre la produzione industriale
italiana è calata del 4,3%. Una percentuale davvero considerevole.Questa la notizia di oggi e dai media si lanciano
segnali d’allarme e l’ex-ministro e presidente dell’ISTAT Giovannini afferma
“l’Italia è un paese senza progetto”.Vale allora la pena ritornare su questi (decisivi)
argomenti con alcune osservazioni. La situazione italiana può
essere, ancora una volta schematizzata in relazione alla nostra storia
industriale dal dopoguerra in avanti. Si tratta di argomentazioni già sostenute
in varie sedi ma mai come in questo caso “repetita juvant”. Il punto di partenza non può che essere quello degli anni ’70: la
fase di avvio dello “scambio politico”, attraverso l’operazione
“privatizzazioni” realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica.Negli
anni ’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti
(ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e
all’inizio degli anni ’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali
i prestiti, l’IRI trasformata in S.p.a.L’esito
più grave della fase dello “scambio politico” infatti, si realizzò in una
condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre
stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti: 1) L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed
economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi
ipotesi di programmazione; 2) La perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto
di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica,
elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo
cose che l’indomani non si trovano al supermercato”; 3) A fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava
nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati
d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella
dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati
all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance
progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello
strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università
italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese
assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi; 4) Si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la
progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le
ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto
in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con
la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del
territorio. 5) La totale acquiescenza sia ai meccanismi imposti dall’Unione
Europea in ossequio ai trattati e la conseguente subalternità ai processi di
globalizzazione e di nuova dimensione dello scambio a livello internazionale.
Sono questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti
che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione
e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della
“Milano da Bere” fino ad oggi. Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto
complessivo che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica
dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre
all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”. La stessa
questione del “deficit spending” andrebbe affrontata in questa dimensione, al contrario
di quanto stanno facendo gli attuali partner di governo confermando reddito di
cittadinanza e quota 100 così come quest’ultimo provvedimento era stato
congegnato dall’alleanza Lega - M5S. Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata
definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione
dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno
pesato in maniera esiziale sulle prospettive dell’economia italiana. I risultati di questi giorni ci indicano ancora una volta ci
si sta muovendo in direzione ostinatamente contraria, recuperando il “peggio”
degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al
clientelismo elettorale che arrivato, proprio in occasione delle elezioni del 4
marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”, come pure era
già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi: ricordando
“meno tasse per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro”. Ma forse, da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase
artigianale e il peggio deve ancora arrivare.