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domenica 9 marzo 2025

I POETI DI GACCIONE
di Adam Vaccaro

Angelo Gaccione (2025)
 
“Odissea” ringrazia il quotidiano “Il Giornale d’Italia” per la concessione della pubblicazione. 

 

La conoscenza, la frequentazione e gli scambi, personali e culturali, accumulati nei decenni con Gaccione dovrebbero aiutare la lettura di questa raccolta di poesie. E invece sconcertano, fedeli all’autentica scrittura poetica, che apre nuovi spazi e livelli di conoscenza. In primo luogo di tratti inediti del Soggetto Scrivente (SS), che il Soggetto Storicoreale (SSR), ha avuto bisogno di istituire e incarnare in nuove carte. Questa mia metodologica partizione nominativa del cosiddetto Autore, in questo caso pare particolarmente giustificata. Chi e cosa ha generato il moto e il progetto realizzato nell’arco di circa un mese, “tra la fine di luglio e il mese di agosto del 2022” (NdA) questi 30 testi, che partono da un verso di un poeta: “Sono volutamente trenta, volutamente ventinove uomini e volutamente una sola donna”, Antonia Pozzi. Cui aggiunge; “Non chiedetemi il perché, non vi saprei rispondere”.
È una esemplare confessione delle dinamiche complesse che agiscono e danno vita a un SS, mai completamente consce, e che risiedono sia nell’inconscio, sia in moti generati dalla complessità sia razionale che emozionale del SSR. Una dinamica in cui è certamente incistata nel tema della morte, come rilevato da Alessandra Paganardi nella sua nota, che insieme a quella di Vincenzo Guarracino, corredano la Raccolta. Credo sia giustificato, anche dalla scelta di Autori tutti morti, cui Gaccione rivolge come un appello alla sua molteplice, fluviale e inesausta scrittura, opportunamente sottolineata da entrambe le suddette Note.
Anche in chi, come me, incrocia Angelo da decenni, non può in effetti fare a meno di rimanere a tratti sbalordito dalla quantità e varietà di scritture, sia di impronta giornalistica (dentro e fuori Odissea) impegnate contro i degradi, gli orrori e le guerre, perpetrati contro i popoli, sia narrative con recupero di memoria critica tanto della propria origine calabrese, quanto della acquisita Casa-Milano. Solo per citare alcuni scomparti. Ambito specifico è poi quello poetico, con pubblicazioni e testi che sviluppano in versi la passione sociale e sempre ricchi di energia vitale, come nei più interessanti poeti contemporanei. Ma questa Raccolta tende ad andare oltre i bordi creativi disegnati in precedenza. Per cui integrerei il richiamo della morte fatto da Paganardi, ponendo l’accento su una tensione più ampia che ricomprende il tema e insieme lo dilata entro le motivazioni etiche di tutto il suo orizzonte e percorso di scrittura.


La copertina del libro

In questi testi rilevo quale nucleo epifanico la tensione all’oltre, che implica anche l’evento terminale della nostra vita, ma parte qui e ora dal bisogno di ampliare il bordo del noto, scavando e scovando anche l’ignoto del noto, affidando tale compito – che rientra poi nello statuto dantesco – etico e conoscitivo, che non si stanca di indagare i nostri limiti, che sono l’alimento e l’energia con cui cresce, insieme alla conoscenza, la vita entro il bordo estremo della morte. Mi sembra che sin dai primi versi, questa raccolta, sia un appello ad Autori di cui Gaccione riconosce il magistero, per comporre una sorta di inno corale alla sacralità della Vita.
Ne è un esempio la prima poesia agganciata al pre-testo di un verso di Caproni: “Il sale del mondo…”, che Gaccione giocosamente rovescia in sole, talché il verso che segue irride al sale e ne fa un’alba: “s’era levato presto a illuminare”. Ne scaturisce come uno squillo d’avvio di una forsennata instancabile caccia alla Vita, quale è da sempre il senso di tutta la poesia. Che qui viene articolato richiamando ventinove poeti che compongono un corteo di voci con al centro un sole femminile, credo col senso di dire che senza quella luce, il loro compito di riduzione dello sconosciuto e del mistero si affloscerebbe come un pallone aerostatico, rimasto senza fiamma.
È questa la risposta alla domanda inesauribile dell’esigenza di indagare? posta sin dall’avvio della poesia iniziale, e che riguarda in primo luogo il poièin: “Chissà per quale scopo/ vengono al mondo i poeti”, domanda che informa tutto il libro, anche se la risposta integrale non può essere data, perché ucciderebbe ogni voglia ulteriore. È l’unico segreto che può essere rivelato: la nostra imperfezione è fondamento di bisogno dell’altro, di amore, di arte e poesia, che ci incantano con le loro perfezioni.
Il libro rincorre quest’ansia di vita, nonostante orrori, tremori, nebbie e misteri, a partire dal bordo di conoscenza che chiede di essere ampliato, e che credo anche solo alcuni versi che seguono sintetizzino:
“FORTINI – Mai una primavera come questa è venuta nel mondo…/ ma è costata cara, molto cara”;
“SANESI – Di tutti quei beati che si intrattengono/ in consonante dialogo sul mistero/ della sostanza pura e della forma”;
“POZZI – Anima, andiamo. Non ti sgomentare/ Facciamo un tratto di percorso ancora”.



Angelo Gaccione
Poeti. Ventinove cavalieri e una dama
Di Felice Edizioni 2025 - pagg. 56 € 10

 
*[“Il Giornale d’Italia” mercoledì 5 manzo 2025]

LA POESIA
di Patrizia Varnier
 


Mondo percosso
 
Percosso il globo
da tsunami distruttivi
è liquido il pensiero
ch’io mite espando al mondo.
Nulla è mia speranza
che non anneghi il globo
nei vortici solfurei
dei conflitti suoi.
 
Caron nocchiero
truce rimira miriade
di potenziali suoi prossimi clienti.
E urla minaccioso
di non disperder forze
per anticipare il greve viaggio.
Certo è per ognuno,
non serve avere fretta.
 
Ma sordo è il mondo.
E liquidamente sfuma.
 
[15 marzo 2024]     
 

 

POETI
di Giuseppe Leccardi


Roberto Fradale
Verità nascoste

Verità nascoste  
  
Formica che si perde in una crepa
dell’intonaco d’un muro screpolato,
nel ciuffo d’erba magro, sofferente
che spunta dal cemento o dall’asfalto.
 
L’uomo è un nano che s’affanna
alla ricerca di verità nascoste
nelle pieghe dell’anima e del tempo,
ma invece di certezze e di risposte, 
trova soltanto briciole di pane.


 

Solstizio
 
Adesso che la vita ha superato
il solstizio, l’apice del tempo
e corre sui sentieri del declino,
avanza l’ombra, il buio oltre la siepe.
 
È giunta l’ora, proprio quel momento
di fare il resoconto più sincero
per decifrare il senso del vissuto,
il lascito da tramandare ai figli.
 
Fatto non di regole e divieti
ma perle di saggezza, di consigli
e di risposte quasi mai trovate
alle domande semplici, essenziali.

LA POESIA
di Laura Margherita Volante 


 

Malattia
 
Sia lieve la tua mano.
La malattia apre varchi 
sul senso dell’esistenza
e la verità si presenta 
con abbaglio fuori 
della caverna.
La malattia è verità 
senza parole e 
bugie
nella presenza e 
nell’ascolto.
Essa vede orizzonti 
dalla siepe.
Anche il vento tace 
in questa accoglienza 
come ultimo atto del
teatro che chiude senza 
plausi e sgomento.
La malattia non è un 
cestino d’ipocrisia
E nel silenzio lasciare
lievemente.

LIBRIAMOCI
di Anna Rutigliano

 


Lo scorso mese si è conclusa l’undicesima Edizione di una fra le più significative manifestazioni nazionali dedicate all’importanza della promozione della letteratura nelle Scuole attraverso la lettura: Libriamoci 2025. Per tale occasione e su invito di alcune docenti con cui avevamo collaborato lo scorso anno, assieme al poeta e scrittore Zaccaria Gallo, ci siamo recati presso alcune classi seconde e terze della scuola media secondaria di primo grado Monterisi della città pugliese di Bisceglie, per condividere e discutere con i ragazzi ed i docenti alcuni pensieri e riflessioni dedicate al tema del viaggio. Attraverso la lettura collettiva ad alta voce di stralci di racconti, poesie ed aforismi di scrittori della portata di Goethe, Kahlil Jibran, de Saint-Exupéry, Mark Twain, solo per citarne alcuni, i ragazzi avrebbero successivamente letto individualmente ciascun rotolino- aforisma realizzato con materiale di riciclo e ricevuto in dono prima del suono della campanella, quale ricordo di un viaggio metaforico nelle parole. 


Zaccaria Gallo
primo a sinistra

Proviamo ad intraprendere per un attimo un viaggio nella parola “viaggio”;  presto ci si accorge che non designi meramente lo spostamento da un luogo verso un luogo altro, bensì l’etimologia della parola in questione  ci riconduce al viaticum di origine latina quale cibo necessario per affrontare le sofferenze che  ne derivavano durante i  lunghi tragitti e spostamenti; si pensi anche al verbo inglese to travel ossia viaggiare, a sua volta derivato dal francese travail corrispondente all’italiano travaglio: non è forse il travaglio un viaggio doloroso che ogni madre compie sulla propria pelle per dare alla luce una nuova vita? Non è il travaglio il sofferente percorso di un atto finale ovvero il parto?  Si potrebbe tessere un lungo filo di interconnessioni linguistico-etimologiche fra le migliaia di lingue parlate nel mondo per trovarvi similarità e assonanze terminologiche ma un dato è certo: ogni viaggio implica una partenza e quella parte di noi, una volta in viaggio e di ritorno dal viaggio non sarà più la stessa. 



Disparati sono i motivi che spingono un viaggiatore ad incamminarsi alla scoperta di un nuovo luogo; si può partire per lavoro o per motivi religiosi, per piacere, per studio o per necessità; si può viaggiare stando esattamente fermi, proprio sfogliando un libro e immergendosi in una realtà  immaginaria e creativa offerta dall’autore: quest’ultimo è stata la riflessione di una ragazza frequentante la classe terza media, la quale ha ribadito il significato metaforico esistenziale del viaggio stesso. Attingendo dalla produzione poetica dello scrittore di origine libanese Kahlil Jibran, abbiamo letto coralmente, attraverso la lavagna digitale, la sua poesia “The river cannot go back”: in essa Jibran personifica il fiume emblema dell’esistenza, il quale nel suo costante fluire non  può tornare indietro ma sfociare nell’oceano divenendo parte di esso: “The river needs to take the risk of entering the ocean because only then will fear disappear, because that’s where the river will know it’s not about disappearing into the ocean, but of becoming the oceanNon è forse l’esistenza stessa dell’umanità un viaggio rischioso nell’esperienza della realtà?



Se da un lato Jibran ci sprona ad intraprendere il viaggio esistenziale mettendo da parte il sentimento di paura, connaturato ad ogni essere umano, c’é, dall’altro, un geniale e temerario viaggiatore che per circa due anni è stato spinto dal desiderio di ricerca del Sublime: è così che Wolfang Goethe intraprende il suo viaggio in Italia, descritto sapientemente nell’opera Italienische Reise, scalando persino le pendici del Vesuvio! Durante la sua seconda visita al Vulcano, il 6 Marzo 1787, in compagnia del suo amico pittore Tischbein, questi non molto contento di condividere la scalata del Somma, Goethe ci regala uno dei resoconti di viaggio fra i più accattivanti e avventurosi della letteratura di viaggio di sempre, un vero saggio per gli appassionati di geologia: da attento osservatore e scienziato quale è, Goethe descrive meticolosamente e minuziosamente il suo arrivo ai piedi del Somma e l’avventura che lo attende assieme al suo amico, nel momento stesso in cui il Vesuvio erutta: “…però cadevano sassi intorno a noi, i quali rendevano il passaggio per quella via, tutt’altro che piacevole. Tischbein in cima al monte era sempre più malcontento, trovando quel chiasso non solo ingrato, ma ancora pericoloso. Siccome però anche la presenza di un pericolo porge una certa attrattiva, la quale provoca lo spirito di contraddizione inerente alla natura umana a sfidarlo…/ Wie durchaus eine gegenwärtige Gefahr etwas Reizendes hat und den Widerspruchgeist im Menschen auffordert, ihr zu trotzen, so bedachte ich, dass es möglich sein müsse”. Rischio e spirito di contraddizione a sfidare il pericolo dinanzi allo spettacolare paesaggio offerto dalla natura sono gli ingredienti necessari per imbattersi in un qualunque tipo di viaggio che non sia concepito come semplice tour, a cui se ne aggiunge un terzo, il più significativo: il sentimento di autenticità percepita col cuore nei luoghi in cui vi si approda. 



È la voce del cuore de le Petit Prince, famoso racconto di formazione, di fama mondiale, dello scrittore nonché aviatore Antoine Saint-de Exupéry, voce affidata alla maestria del poeta Zaccaria Gallo il quale coinvolgendo l’intera classe attraverso la lettura dedicata all’incontro del piccolo principe con la volpe, ci ricorda che “non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi/on ne voit bien qu’avec le cœur, l’essentiel est invisible pour les yeax.”
La campanella suona e tutti ci libriamo nuovamente in viaggio verso nuovi orizzonti, alla ricerca di amici autentici. 

sabato 8 marzo 2025

LE SEDUTE SPIRITICHE NELLA POLITICA ITALIANA
di Luigi Mazzella



Come Romano Prodi, che il 2 aprile 1978, in pieno sequestro Moro, interpellò per avere lumi sul nascondiglio dove i brigatisti nascondevano lo statista del suo partito, gli spiriti di illustri defunti nella casa di Alberto Clò a Zappolino, così con buona probabilità Antonio Tajani deve avere evocato le anime di Silvio Berlusconi e di Alcide De Gasperi per avere un messaggio idoneo a convincere Giorgia Meloni a votare, sia pure con distinguo e cavilli vagamente  simili a quelli dei legulei che a Napoli un tempo si chiamavano “pagliette”, in maniera favorevole all’ipotesi di un  “riarmo europeo” proposto dalla teutonica Ursula Von der Leyen. 


È del tutto verosimile che dall’alto dei cieli, i due personaggi politici italiani, distraendosi per un attimo dalla loro contemplazione delle beatitudini celesti, abbiano fatto sapere al Ministro degli Esteri italiano di essere vicini alle posizioni dell’inflessibile “pulzella”, sorretta, peraltro, anche da un napoleonico Macron offerente generoso all’Europa dell’ombrello protettivo atomico francese. Rebus sic stantibus, se non avesse una valenza filosofica del tutto indipendente dal “melonismo degli stenterelli” (direbbe Carducci), il mio discorso sulla neutralità sarebbe privo di senso e completamente inutile. 
La situazione politica italiana non è quella dell’Ungheria (unico Paese Europeo a dichiararsi favorevole a una neutralità assoluta). Va detto che il nostro Ministro degli Esteri non riceverebbe lumi diversi se invece che alle anime dei defunti si rivolgesse ai suoi collaboratori ministeriali cresciuti nel clima delle direttive del Nord America dei Clinton, di Biden e degli Obama. Per puro amore di cronaca, termino ricordando che in Europa alla “neutralità” sono giunti in vari modi altri Paesi di illustri tradizioni diplomatiche.



L’Austria, nell’ottobre del 1955, vi è pervenuta con una dichiarazione del Parlamento avente valore di legge costituzionale che stabilì la perpetua presa di distanza dello Stato nei confronti delle dispute internazionali.  E ciò a seguito di un negoziato con l’Unione Sovietica che prevedeva un tale impegno per evitare che il Paese si unisse alla NATO o semplicemente permettesse l’installazione di basi militari straniere sul proprio territorio. Per altra strada, la Svezia ha imposto la sua neutralità, a partire dalle guerre napoleoniche, senza l’esistenza di alcuna norma giuridica che lo prevedesse: per effetto di un principio tradizionale della sua politica estera. La neutralità militare della Svizzera è la più antica del mondo e risale alla riforma protestante promossa da Ulrico Zwingli anche se la sua affermazione formale, dopo anni di autoimposizione fattuale, fu ribadita nel Trattato di Parigi dei primi anni dell’Ottocento. Et de hoc satis
Concludo, parafrasando liberamente Dante Alighieri: Non c’è maggior dolore che parlare del tempo felice altrui nella propria miseria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EUROPA COME E PERCHÉ
di Gian Giacomo Migone
 

Trump e Putin
 
Donald Trump ha il merito di rendere esplicita la politica estera di Washington in atto da anni. Eppure alcune semplici realtà continuano a sfuggire al profluvio di commenti scatenato da quanto si è svolto “in diretta” alla Casa Bianca, venerdì 28 febbraio: che, non da oggi, esiste un rapporto di connivenza tra Washington e Mosca; che, come ogni ostentazione di forza, quella del presidente Trump segnala una crescente debolezza, anch’essa in atto da decenni; che al declino dei protagonisti della Guerra Fredda corrisponde la loro ostilità ad un’Europa politicamente ed economicamente integrata. Ma procediamo con ordine. Ha radici profonde la volontà convergente di Biden e Putin di scatenare ed alimentare la guerra in Ucraina, come anche quella di Trump e del medesimo Putin di concluderla secondo le proprie convenienze. 


H. Kissinger

L’esistenza di una “minaccia credibile” da parte di Mosca è stata una condizione essenziale per la politica estera di Washington nel corso di tutta la Guerra Fredda. Il tentativo di Eisenhower e di Krusciov di negoziare una pace - nel c.d. spirito di Camp David - con l’incidente dell’U-2 è stato sabotato da entrambi le parti e, nel 1973, Henry Kissinger è arrivato ad imporre una riscrittura della valutazione della potenza sovietica da parte della CIA perché insufficiente a giustificare la politica egemonica nei confronti dei propri alleati. Ha breve durata l’intesa tra Reagan - anticomunista non strumentale - e Gorbaciov, effettivo liquidatore dello stato sovietico, con alcune intese di disarmo. Per i loro successori, la caduta del Muro di Berlino costituisce un trauma. Quello subìto dalla Russia è ovvio in quanto ha perso il suo impero, ma anche Sparta non ride. Ovvero Washington che, lungi dal godersi la fine della storia ed un unipolarismo che non è mai esistito, deve salvaguardare la continuità della NATO, ormai obsoleta, ma ancora essenziale per continuare ad esercitare il proprio dominio sugli alleati europei e, più in generale, surrogare la minaccia non più credibile di Mosca. 



Giunge provvidenziale l’attacco alle Due Torri e la conseguente “guerra al terrore” come occasione e giustificazione per esercitare il proprio potere, ormai prevalentemente militare; cioè tale da prescindere da quei principi e valori con cui era fondato il proprio rapporto egemonico nel mondo. Da cui guerre di aggressione vinte, in violazione di regole e principi sanciti dallONU e dal diritto internazionale, e paci suggellate da sconfitte politiche: Afghanistan, Iraq, Libia e, ora, Ucraina. Mentre si batte la grancassa riguardo ad ogni vera o presunta incursione propagandistica di Mosca, regna il silenzio sul controllo dell’Aipac - strumento di finanziamento politico gestito da un governo straniero, quello d’Israele - su almeno un terzo del Congresso di Washington, determinando la politica mediorientale dell’amministrazione Biden, accentuata, ma non modificata, da Trump la cui ostentazione di forza non fa che segnalare il declino dellimpero che ha la pretesa di rilanciare. 



La guerra di Ucraina ha offerto l’occasione all’amministrazione Biden per ricuperare la rilevanza politica dell’ex impero russo provocando l’aggressione di un avversario connivente quale Vladimir Putin, successivamente pronto e disponibile a trasformarsi in alleato di Trump nella comune impresa di spartizione dell’Europa. Antica ambizione realizzata dopo la conferenza di Yalta e pericolante dopo la caduta del Muro. Il progetto di Europa unita, che nasce durante l’esilio statunitense di Jean Monnet e ispira il Piano Marshall, viene abbandonato da Washington negli anni della sconfitta nella guerra contro il Vietnam, primo segnale del suo declino. Sconvolgerebbe ogni residua ambizione bipolare la trasformazione dell’Unione Europea, dalla sua attuale configurazione burocratica e filoatlantica in uno stato federale di 450 milioni di persone, che viene a costituire una delle tre maggiori potenze economiche e politiche in un sistema multipolare rispetto al quale la Cina costituisce lancora con liniziativa dei BRICS. Soprattutto Washington - da Nuland a Trump - non sopporterebbe un legittimo erede di valori democratici, con una esplicita vocazione pacifista di cui non è dotata, meno che mai ora.


Purtroppo l’Unione Europea, nella sua attuale configurazione, sotto la presunta guida di Ursula von der Leyen, più che mai lacerata dal divide et impera di Washington, non è all’altezza della sfida in atto. Essa blatera di una spesa militare stellare, concepita a misura di una NATO a questo punto ridotta ad una presenza nucleare e logistica incontrollata, di marca statunitense, in combutta con l’ormai alleato di Mosca, rispetto al quale si invoca una difesa europea. Gli Stati Uniti d’Europa, per risultare tali, dovrebbero innanzitutto dotarsi di regole maggioritarie per una politica estera di pace, così da garantire la propria sovranità, effettivamente integrata, e quindi tale da giustificare una difesa integrata che consentirebbe economie di scala. Utopia? Certamente nelle circostanze attuali. Ma, come tutte le utopie - non mi stanco di ripeterlo - indispensabili perché indicano la direzione in cui procedere. Con bandiere della pace, accanto a quelle dell’Europa, come suggerisce Tomaso Montanari.

venerdì 7 marzo 2025

DUE FOCOLARI
di Angelo Gaccione


 
Sono stati diversi gli intellettuali di origine ebraica a dire di non credere più nello Stato ebraico, e che Israele “è diventato oggi dannoso per gli ebrei”. Da noi non se ne trova traccia sui giornali, ma Peter Beinart si è spinto fino a parlare di bancarotta morale di Israele. Se posso aggiungere un tassello anch’io, direi che il governo israeliano si è coperto di disonore agli occhi del mondo intero, e il metodo di colpire alla cieca adottato contro la popolazione civile inerme palestinese, premeditatamente, deliberatamente, lo ha reso alle nostre coscienze spregevole come le orde hitleriane. Beinart ha preso le distanze dallo stato ebraico con queste parole: Dopo generazioni, gli ebrei hanno concepito lo Stato ebraico come un tikun
 (il termine, di origine biblica, significa “riparazione”), un rimedio, un mezzo per superare l’eredità del genocidio. Ma ciò non ha funzionato. Per giustificare l’oppressione dei palestinesi da parte nostra, l’idea di uno Stato ebraico ha richiesto che vedessimo in loro dei nazisti (…) Il vero tikun risiede nell’uguaglianza, in un focolare ebraico che sia anche un focolare palestinese. Solo aiutando i palestinesi ad avere accesso alla libertà noi ci libereremo del peso del genocidio”. La macelleria condotta dal governo e dall’esercito (mai generalizzare superficialmente accusando l’intera popolazione israeliana, altrimenti si corre il rischio di essere additati anche noi disarmisti italiani come responsabili dell’invio delle armi nei teatri di guerra deciso dal governo e dal Parlamento contro la nostra volontà) forse ha distrutto per sempre l’idea che era stata di tanti: due popoli due Stati. Personalmente ho sempre scritto e detto che a questa formula andrebbe aggiunto l’aggettivo plurale disarmati. Senza questa misura non ci sarà mai pace, anche se di Stati se ne creeranno due. Ma dove trovare un’autorità morale tanto credibile per questo scopo?  

 

LA “NEUTRALITÀ” TRA MUSSOLINI E I SANTI 
di Luigi Mazzella


 

Il termine “ripudio della guerra”, di cui parla l’articolo 11 della Costituzione, intende esprimere qualcosa di più di un semplice rifiuto; è il risultato di una scelta decisa e senza possibilità di compromessi. In altre parole, per chi ripudia la guerra, essa sarebbe solo una “res inter alios acta che, sul piano della pura razionalità, non dovrebbe scuotere chi ne ha una ripulsa profonda e meditata e si dimostra saggiamente refrattario a farsi convincere dalle contrapposte (e spesso ugualmente false) propagande dei belligeranti. Ancora: l’approdo naturale per chi “ripudia” la guerra dovrebbe essere la “neutralità” del proprio Paese, perseguita, con leggi o iniziative referendarie adeguate, da Governanti e Parlamentari che non amano tenere a lungo il prosciutto sugli occhi. Tutto ciò a livello di pensiero puro e libero. In pratica e nella  confusione dei convergenti, seppure opposti o quanto meno diversi, irrazionalismi Occidentali, purtroppo, non è così. 


Tajani e von der Leyen
due facce della guerra

In Italia, per esempio, a tacere del motto Mussoliniano sugli Italiani come un “popolo di eroi” e della sua retorica sui “battaglioni della Morte creati per la Vita”, continuano ad avere un peso rilevante le dissertazioni di un dottore della Chiesa cattolica, fatto “santo” (Agostino) sulla “guerra giusta”, che, riprese da un altro santo (Cirillo di Alessandria) e sviluppate da Tommaso d'Aquino,   sono state tenute ferme dalla Chiesa fino a nostri giorni. E si tratta, è bene precisare, di valutazioni moderate perché la cultura religiosa di origine mediorientale ha elaborato e diffuso anche il concetto di “guerra santa”, ben più gravido di conseguenze criminali. Orbene, rifiutare con dichiarazioni di “neutralità” una guerra “santa” o anche solo “giusta” ha il valore di una blasfema bestemmia.


Calenda, la faccia della guerra

Ecco, perché l’espressione, comparsa molte volte nel mainstream diffuso dal sistema massmediatico dell’Occidente, nella sua più profonda sostanza non è stata smentita neppure da Papa Francesco che ha parlato sempre di pace tenendosi ben lontano dall’idea di dichiararsi “neutrale” rispetto al conflitto russo-ucraino. Non deve meravigliare, quindi, che la neutralità e il connesso desiderio di pace mal si concili con le posizioni, nel migliore dei casi, tiepide, espresse da molti uomini politici italiani, anche sedicenti “laici”, in queste ultime ore. E ciò, non solo della Sinistra più oltranzista (una Schlein forsennata ha dato, come suole dirsi, “i numeri”) legata al Partito Democratico mondiale, ma nel Centro (un Calenda, con la faccia “da funerale” si è mostrato sugli schermi ispido e bellicoso) e persino nella Destra (Taiani, è divenuto stranamente loquace, dopo prove di persistente mutismo). Guerrafondai in pantofole, per amore della fede (religiosa o politica) hanno voluto dimostrare di avere, come si diceva un tempo, “l’Achille in seno” e di essere pronti a smentire il “prode Anselmo”, muovendosi per davvero. Il quadro è desolante ma non preoccupa gli Italiani: la confusione mentale sullo Stivale ha data antica. E l’Italia in questo desolante quadro non è sola. I “cinque malfattori dell’umanità” (cresciuti di numero dopo Baruch Spinoza) hanno uniformato l’Occidente.

 

DOMENICA AL PASSANTE




giovedì 6 marzo 2025

L’ITALIA NEUTRALE
di Luigi Mazzella
 


La guerra è nemica della cultura e i criminali sono i governanti


La scelta dei luoghi che dovrebbero costituire i “siti del cosiddetto Patrimonio dell’Umanità”, culturale e artistico ma anche naturale e paesaggistico, non può essere affidata, con buona evidenza, al solo Occidente e peggio ancora ai rappresentanti di una cultura eurocentrica, quale si desume che sia quella dominante nell’UNESCO. Oltre tutto porre sullo stesso piano di distruttività, come fa quell’organismo, i conflitti armati (che derivano dalla stupidità e malvagità umana) e le condizioni climatiche (legate a fattori cosmici) è piuttosto sconcertante. Ciò d’altronde non esclude che i dati fin qui elaborati possano risultare confermati in una più ampia e diversa sede internazionale ove siano presenti non solo funzionari pubblici europei ma anche operatori privati nel settore del turismo mondiale. Anche sul problema dell’individuazione dei siti più pregevoli e importanti da sottrarre al pericolo di distruzione, le idee correnti in Occidente sono ritenute, a livello mondiale, piuttosto confuse e non sfuggono a critiche anche serrate. Per ciò che riguarda l’Italia, la cui primazia nel globo sembra essere universalmente riconosciuta (non solo quindi dall’UNESCO) sia per le bellezze artistiche sia per quelle naturali, ritengo che sia proprio la legislazione nazionale a essere carente sotto il profilo della prevenzione dei pericoli di distruzione la cui gravità maggiore è data, senza ricorrere a inutili ipocrisie, dai conflitti armati.  
Ergo: la prima, evidente responsabilità è quella dei rappresentanti del popolo in Parlamento e dei Governanti che non rendono la protezione adeguata a difendere un “bene” collettivo di inestimabile valore. Per preservare un patrimonio di tale ricchezza culturale e paesaggistica la neutralità del Paese in qualsiasi tipo di guerra che non sia chiaramente e indiscutibilmente difensiva è una priorità necessaria e ineludibile che non può essere ancora ignorata a lungo. Ed è l’unica via possibile dopo che, cervelloticamente, non si è voluto tenere nel debito conto l’argomentazione secondo cui la NATO, traendo la sua ragion d’essere politica dalla necessità di difendersi dall’eventuale aggressione dei Paesi del Patto di Varsavia, avrebbe dovuto sciogliersi con il crollo dell’Unione Sovietica e con la conseguente caduta e fine del Patto. Pur essendo fondata su una logica rigorosa sul piano consequenziale la tesi è stata del tutto disattesa dall’Occidente, patria dell’irrazionalità più assoluta.
Domanda: Che fare? In primis, partire dalla constatazione che l’articolo 11 della Costituzione è solo un inganno perpetrato a danno degli Italiani con l’uso della roboante espressione terminologica “ripudio della guerra”. Si tratta di uno specchietto per allodole con l’insidia nascosta nei “distinguo” criptici (se non subdolamente mascherati) dello stesso articolo. Come poi è stato, invece, molto chiaramente enunciato nell’articolo 117 della stessa Carta fondamentale nella versione in vigore dal 2014 in poi. E ciò imponendo il rispetto oltre che della Costituzione (peraltro, ovvio) dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. È qui che casca l’asino e la guerra “ripudiata” nell’articolo 11 ritorna nell’italica alcova con l’articolo 117 della stessa  Costituzione. Naturalmente la filiale italiana del Partito Democratico Transnazionale dei Biden e degli Obama, per bocca della Schlein (che pure, da mezza svizzera dovrebbe conoscere i vantaggi della neutralità), farebbe fuoco e fiamme. I “Democratici” mondiali (uniti dalla CIA e dai servizi deviati) non vogliono allontanare l’Occidente da quel cupio dissolvi che consegue all’irrazionalità della sua forma mentis e al suo legame alla “cultura di guerra” (e di morte) uscita sconfitta dalle urne elettorali americane. Fortunatamente, la vittoria di Trump ha cambiato le carte in tavola ed una neutralità italiana potrebbe anche garantire al Bel Paese di non finire nella sacrosanta lista dei reprobi guerrafondai!