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UNA NUOVA ODISSEA...
L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea

1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
sabato 8 marzo 2025
EUROPA COME E PERCHÉ
di Gian Giacomo Migone

Trump e Putin
Donald Trump ha il merito di rendere esplicita la politica
estera di Washington in atto da anni. Eppure alcune semplici realtà continuano
a sfuggire al profluvio di commenti scatenato da quanto si è svolto “in
diretta” alla Casa Bianca, venerdì 28 febbraio: che, non da oggi, esiste un rapporto di
connivenza tra Washington e Mosca; che, come ogni ostentazione di forza, quella
del presidente Trump segnala una crescente debolezza, anch’essa in atto da
decenni; che al declino dei protagonisti della Guerra Fredda corrisponde la
loro ostilità ad un’Europa politicamente ed economicamente integrata. Ma
procediamo con ordine. Ha radici profonde la volontà convergente di Biden e
Putin di scatenare ed alimentare la guerra in Ucraina, come anche quella di
Trump e del medesimo Putin di concluderla secondo le proprie convenienze.
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Trump e Putin |

H. Kissinger

L’esistenza di una “minaccia credibile” da parte di Mosca è stata una condizione essenziale per la politica estera di Washington nel corso di tutta la Guerra Fredda. Il tentativo di Eisenhower e di Krusciov di negoziare una pace - nel c.d. spirito di Camp David - con l’incidente dell’U-2 è stato sabotato da entrambi le parti e, nel 1973, Henry Kissinger è arrivato ad imporre una riscrittura della valutazione della potenza sovietica da parte della CIA perché insufficiente a giustificare la politica egemonica nei confronti dei propri alleati. Ha breve durata l’intesa tra Reagan - anticomunista non strumentale - e Gorbaciov, effettivo liquidatore dello stato sovietico, con alcune intese di disarmo. Per i loro successori, la caduta del Muro di Berlino costituisce un trauma. Quello subìto dalla Russia è ovvio in quanto ha perso il suo impero, ma anche Sparta non ride. Ovvero Washington che, lungi dal godersi la fine della storia ed un unipolarismo che non è mai esistito, deve salvaguardare la continuità della NATO, ormai obsoleta, ma ancora essenziale per continuare ad esercitare il proprio dominio sugli alleati europei e, più in generale, surrogare la minaccia non più credibile di Mosca.
Giunge provvidenziale l’attacco alle Due Torri e la conseguente “guerra al terrore” come occasione e giustificazione per esercitare il proprio potere, ormai prevalentemente militare; cioè tale da prescindere da quei principi e valori con cui era fondato il proprio rapporto egemonico nel mondo. Da cui guerre di aggressione vinte, in violazione di regole e principi sanciti dall’ONU e dal diritto internazionale, e paci suggellate da sconfitte politiche: Afghanistan, Iraq, Libia e, ora, Ucraina. Mentre si batte la grancassa riguardo ad ogni vera o presunta incursione propagandistica di Mosca, regna il silenzio sul controllo dell’Aipac - strumento di finanziamento politico gestito da un governo straniero, quello d’Israele - su almeno un terzo del Congresso di Washington, determinando la politica mediorientale dell’amministrazione Biden, accentuata, ma non modificata, da Trump la cui ostentazione di forza non fa che segnalare il declino dell’impero che ha la pretesa di rilanciare.
La guerra di Ucraina ha offerto l’occasione all’amministrazione
Biden per ricuperare la rilevanza politica dell’ex impero russo provocando
l’aggressione di un avversario connivente quale Vladimir Putin, successivamente
pronto e disponibile a trasformarsi in alleato di Trump nella comune impresa di
spartizione dell’Europa. Antica ambizione realizzata dopo la conferenza di
Yalta e pericolante dopo la caduta del Muro. Il progetto di Europa unita, che
nasce durante l’esilio statunitense di Jean Monnet e ispira il Piano Marshall,
viene abbandonato da Washington negli anni della sconfitta nella guerra contro
il Vietnam, primo segnale del suo declino. Sconvolgerebbe ogni residua
ambizione bipolare la trasformazione dell’Unione Europea, dalla sua attuale
configurazione burocratica e filoatlantica in uno stato federale di 450 milioni
di persone, che viene a costituire una delle tre maggiori potenze economiche e
politiche in un sistema multipolare rispetto al quale la Cina
costituisce l’ancora con l’iniziativa dei BRICS.
Soprattutto Washington - da Nuland a Trump - non sopporterebbe un legittimo
erede di valori democratici, con una esplicita vocazione pacifista di cui non è dotata, meno che mai ora.
Purtroppo l’Unione Europea, nella sua attuale
configurazione, sotto la presunta guida di Ursula von der Leyen, più che mai
lacerata dal divide et impera di
Washington, non è all’altezza della sfida in atto. Essa blatera di una spesa
militare stellare, concepita a misura di una NATO a questo punto ridotta ad
una presenza nucleare e logistica incontrollata, di marca statunitense, in
combutta con l’ormai alleato di Mosca, rispetto al quale si invoca una difesa
europea. Gli Stati Uniti d’Europa, per risultare tali, dovrebbero innanzitutto
dotarsi di regole maggioritarie per una politica estera di pace, così da
garantire la propria sovranità, effettivamente integrata, e quindi tale da
giustificare una difesa integrata che consentirebbe economie di scala. Utopia?
Certamente nelle circostanze attuali. Ma, come tutte le utopie - non mi stanco
di ripeterlo - indispensabili perché indicano la direzione in cui procedere.
Con bandiere della pace, accanto a quelle dell’Europa, come suggerisce Tomaso
Montanari.
venerdì 7 marzo 2025
DUE FOCOLARI
di Angelo Gaccione
Sono stati diversi gli intellettuali di origine ebraica a dire
di non credere più nello Stato ebraico, e che Israele “è
diventato oggi dannoso per gli ebrei”. Da noi non se ne trova traccia sui
giornali, ma Peter
Beinart si è spinto fino a parlare di bancarotta morale di Israele. Se posso
aggiungere un tassello anch’io, direi che il governo israeliano si è coperto di
disonore agli occhi del mondo intero, e il metodo di colpire alla cieca
adottato contro la popolazione civile inerme palestinese, premeditatamente, deliberatamente,
lo ha reso alle nostre coscienze spregevole come le orde hitleriane. Beinart ha
preso le distanze dallo stato ebraico con queste parole: “Dopo
generazioni, gli ebrei hanno concepito lo Stato ebraico come un tikun (il termine, di origine biblica, significa
“riparazione”), un rimedio, un mezzo per superare l’eredità del genocidio.
Ma ciò non ha funzionato. Per giustificare l’oppressione dei palestinesi da
parte nostra, l’idea di uno Stato ebraico ha richiesto che vedessimo in loro
dei nazisti (…) Il vero tikun risiede nell’uguaglianza, in un
focolare ebraico che sia anche un focolare palestinese. Solo aiutando i
palestinesi ad avere accesso alla libertà noi ci libereremo del peso del
genocidio”. La macelleria condotta dal governo e dall’esercito (mai
generalizzare superficialmente accusando l’intera popolazione israeliana,
altrimenti si corre il rischio di essere additati anche noi disarmisti italiani
come responsabili dell’invio delle armi nei teatri di guerra deciso dal governo
e dal Parlamento contro la nostra volontà) forse ha distrutto per sempre l’idea
che era stata di tanti: due popoli due Stati. Personalmente ho sempre scritto e
detto che a questa formula andrebbe aggiunto l’aggettivo plurale disarmati.
Senza questa misura non ci sarà mai pace, anche se di Stati se ne creeranno due.
Ma dove trovare un’autorità morale tanto credibile per questo scopo?
LA “NEUTRALITÀ” TRA MUSSOLINI E I
SANTI
di Luigi Mazzella
Il termine “ripudio della guerra”, di cui parla l’articolo 11 della Costituzione, intende esprimere qualcosa di più di un semplice rifiuto; è il risultato di una scelta decisa e senza possibilità di compromessi. In altre parole, per chi ripudia la guerra, essa sarebbe solo una “res inter alios acta” che, sul piano della pura razionalità, non dovrebbe scuotere chi ne ha una ripulsa profonda e meditata e si dimostra saggiamente refrattario a farsi convincere dalle contrapposte (e spesso ugualmente false) propagande dei belligeranti. Ancora: l’approdo naturale per chi “ripudia” la guerra dovrebbe essere la “neutralità” del proprio Paese, perseguita, con leggi o iniziative referendarie adeguate, da Governanti e Parlamentari che non amano tenere a lungo il prosciutto sugli occhi. Tutto ciò a livello di pensiero puro e libero. In pratica e nella confusione dei convergenti, seppure opposti o quanto meno diversi, irrazionalismi Occidentali, purtroppo, non è così.

Tajani e von der Leyen
due facce della guerra

due facce della guerra
In Italia, per esempio, a tacere del motto Mussoliniano sugli Italiani come un “popolo di eroi” e della sua retorica sui “battaglioni della Morte creati per la Vita”, continuano ad avere un peso rilevante le dissertazioni di un dottore della Chiesa cattolica, fatto “santo” (Agostino) sulla “guerra giusta”, che, riprese da un altro santo (Cirillo di Alessandria) e sviluppate da Tommaso d'Aquino, sono state tenute ferme dalla Chiesa fino a nostri giorni. E si tratta, è bene precisare, di valutazioni moderate perché la cultura religiosa di origine mediorientale ha elaborato e diffuso anche il concetto di “guerra santa”, ben più gravido di conseguenze criminali. Orbene, rifiutare con dichiarazioni di “neutralità” una guerra “santa” o anche solo “giusta” ha il valore di una blasfema bestemmia.

Calenda, la faccia della guerra

Ecco, perché
l’espressione, comparsa molte volte nel mainstream diffuso
dal sistema massmediatico dell’Occidente, nella sua più profonda sostanza
non è stata smentita neppure da Papa Francesco che ha parlato sempre di pace
tenendosi ben lontano dall’idea di dichiararsi “neutrale” rispetto al conflitto
russo-ucraino. Non deve meravigliare, quindi, che la
neutralità e il connesso desiderio di pace mal si concili con le posizioni, nel
migliore dei casi, tiepide, espresse da molti uomini politici italiani,
anche sedicenti “laici”, in queste ultime ore. E ciò,
non solo della Sinistra più oltranzista (una Schlein forsennata ha dato,
come suole dirsi, “i numeri”) legata al Partito Democratico mondiale, ma
nel Centro (un Calenda, con la faccia “da funerale” si è mostrato sugli schermi
ispido e bellicoso) e persino nella Destra (Taiani, è divenuto stranamente
loquace, dopo prove di persistente mutismo). Guerrafondai in
pantofole, per amore della fede (religiosa o politica) hanno voluto dimostrare
di avere, come si diceva un tempo, “l’Achille in seno” e di essere pronti a
smentire il “prode Anselmo”, muovendosi per davvero. Il
quadro è desolante ma non preoccupa gli Italiani: la confusione mentale sullo
Stivale ha data antica. E l’Italia in questo desolante quadro non è sola. I
“cinque malfattori dell’umanità” (cresciuti di numero dopo Baruch Spinoza)
hanno uniformato l’Occidente.
giovedì 6 marzo 2025
L’ITALIA NEUTRALE
di
Luigi Mazzella
La guerra è nemica della cultura e i criminali sono i governanti
La scelta dei luoghi che dovrebbero
costituire i “siti del cosiddetto Patrimonio dell’Umanità”, culturale e
artistico ma anche naturale e paesaggistico, non può essere affidata, con buona
evidenza, al solo Occidente e peggio ancora ai rappresentanti di una
cultura eurocentrica, quale si desume che sia quella dominante nell’UNESCO.
Oltre tutto porre sullo stesso piano di distruttività, come fa quell’organismo, i
conflitti armati (che derivano dalla stupidità e malvagità umana) e le
condizioni climatiche (legate a fattori cosmici) è piuttosto sconcertante. Ciò
d’altronde non esclude che i dati fin qui elaborati possano risultare
confermati in una più ampia e diversa sede internazionale ove siano presenti
non solo funzionari pubblici europei ma anche operatori privati nel settore del
turismo mondiale. Anche sul problema dell’individuazione
dei siti più pregevoli e importanti da sottrarre al pericolo di
distruzione, le idee correnti in Occidente sono ritenute, a livello
mondiale, piuttosto confuse e non sfuggono a critiche anche serrate. Per
ciò che riguarda l’Italia, la cui primazia nel globo sembra essere
universalmente riconosciuta (non solo quindi dall’UNESCO) sia per le bellezze
artistiche sia per quelle naturali, ritengo che sia proprio la legislazione
nazionale a essere carente sotto il profilo della prevenzione dei pericoli di
distruzione la cui gravità maggiore è data, senza ricorrere a inutili
ipocrisie, dai conflitti armati.
Ergo: la prima, evidente responsabilità
è quella dei rappresentanti del popolo in Parlamento e dei Governanti che non rendono
la protezione adeguata a difendere un “bene” collettivo di inestimabile
valore. Per
preservare un patrimonio di tale ricchezza culturale e paesaggistica la neutralità del
Paese in qualsiasi tipo di guerra che non sia chiaramente e indiscutibilmente
difensiva è una priorità necessaria e ineludibile che non può essere ancora
ignorata a lungo. Ed è l’unica via possibile dopo che,
cervelloticamente, non si è voluto tenere nel debito conto
l’argomentazione secondo cui la NATO, traendo la sua ragion d’essere politica
dalla necessità di difendersi dall’eventuale aggressione dei Paesi del Patto di
Varsavia, avrebbe dovuto sciogliersi con il crollo dell’Unione Sovietica e con
la conseguente caduta e fine del Patto. Pur essendo fondata su una logica
rigorosa sul piano consequenziale la tesi è stata del tutto disattesa
dall’Occidente, patria dell’irrazionalità più assoluta.
Domanda: Che fare? In
primis, partire dalla constatazione che l’articolo 11 della Costituzione è solo
un inganno perpetrato a danno degli Italiani con l’uso della roboante espressione
terminologica “ripudio della guerra”. Si tratta di uno specchietto per allodole
con l’insidia nascosta nei “distinguo” criptici (se non subdolamente
mascherati) dello stesso articolo. Come poi è stato, invece, molto
chiaramente enunciato nell’articolo 117 della stessa Carta fondamentale nella
versione in vigore dal 2014 in poi. E ciò imponendo il rispetto oltre
che della Costituzione (peraltro, ovvio) dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. È qui che casca l’asino e la
guerra “ripudiata” nell’articolo 11 ritorna nell’italica alcova con l’articolo 117 della stessa Costituzione. Naturalmente la filiale italiana
del Partito Democratico Transnazionale dei Biden e degli Obama, per bocca della
Schlein (che pure, da mezza svizzera dovrebbe conoscere i vantaggi della
neutralità), farebbe fuoco e fiamme. I “Democratici” mondiali (uniti
dalla CIA e dai servizi deviati) non vogliono allontanare l’Occidente da
quel cupio dissolvi che consegue all’irrazionalità della
sua forma mentis e al suo legame alla “cultura di guerra” (e
di morte) uscita sconfitta dalle urne elettorali americane. Fortunatamente,
la vittoria di Trump ha cambiato le carte in tavola ed una neutralità italiana
potrebbe anche garantire al Bel Paese di non finire nella sacrosanta lista dei
reprobi guerrafondai!
LA
GUERRA È CONTRO I LAVORATORI

La faccia della guerra
Disertare la manifestazione truffaldina indetta
dal quotidiano guerrafondaio la Repubblica!
È prevista per sabato 15 marzo una
"piazza per l'Europa" lanciata da la Repubblica, quotidiano
controllato dalla famiglia Elkann che a sua volta partecipa nel settore
militare attraverso Iveco Defence Vehicle. Avviene proprio in un momento
storico come questo, nel quale la UE spinge, contro qualsiasi logica di buon
senso e contro l'inizio di una trattativa di pace, per una guerra ad oltranza
con sangue ucraino, una politica di inasprimento delle sanzioni contro la
Russia e dove in queste ore Ursula Von Der Leyen ha dichiarato l'intenzione di
mettere in campo 800 miliardi di euro per il riarmo senza vincoli del patto di
stabilità solo per questa voce, non certo per la sanità, l'istruzione,
l'ambiente e le pensioni.
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La faccia della guerra |
La politica UE va nell'interesse del padrone del quotidiano la Repubblica e non
della massa dei lavoratori. Per questo è quanto meno bizzarro l'annuncio della
partecipazione nella stessa piazza dei sindacati confederali: a costoro non
sono bastati gli effetti nefasti della guerra e delle sanzioni, dal carovita al
calo costante negli ultimi 23 mesi della produzione industriale, dalla crisi
del settore auto alla perdita di competitività industriale fino al soffocamento
delle famiglie con le bollette di luce e gas. Oltretutto è evidente che
l'obiettivo della manifestazione sia quello di disorientare il movimento contro
la guerra indirizzando l'opinione pubblica verso un generico e idealista
sostegno alla UE guerrafondaia.
"Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il
nemico. La voce che li comanda è la voce del nemico. E chi parla del nemico è
lui stesso il nemico."
Comitato Contro La Guerra - Milano
EUROPA UNO SPAZIO POLITICO
di Franco Astengo
Al riguardo della manifestazione organizzata dal quotidiano guerrafondaio la Repubblica per
il 15 marzo.
La partecipazione alla manifestazione sull'Europa organizzata da la
Repubblica per il 15 marzo va sottoposta, a sinistra, ad una seria
riflessione.
Soprattutto bisognerebbe evitare di cadere nella trappola del
riarmo della Germania.
Evitare la trappola non tanto per similitudini con
fatti antichi ma, perché di questo si tratta nel momento contingente quando la
Von der Layen lancia l'idea e spara cifre a centinaia di miliardi. Prima di tutto l'ipotesi di un esercito europeo è tutta
di là da venire. In questa situazione la
Germania è la sola a disporre di una siderurgia all'altezza di una produzione
capace di soddisfare un'ipotesi di adeguato riarmo (torna qui il tema della
capacità industriale di ogni singolo paese con particolare riferimento
all'Italia). La Rheinmetall produce già carri armati e Leonardo è junior
partner mentre è noto che l'industria meccanica italiana è del tutto
sussidiaria a quella tedesca.
Inoltre si tratterebbe di un riarmo "da combattimento sul
terreno" perché la migliore tecnologia missilistica e dei droni sta da
altre parti e questo è un altro elemento da considerare. Quanto
al nucleare la messa a disposizione del loro potenziale da parte di Francia e
Gran Bretagna vale più o meno un decimo del potenziale russo (che rimane
numericamente il più consistente) e americano, oltre al presentarsi del
problema di a chi sarebbe assegnato il comando strategico (sempre con
riferimento all'assenza di un esercito europeo).
Quindi le manifestazioni pro-Europa come quella indetta da la
Repubblica per il 15 marzo non possono considerarsi "neutre" da
questo punto di vista e la presenza di bandiere di un solo colore e un solo
simbolo farebbe perdere di vista l'obiettivo paradossalmente causando
confusione e non chiarezza. La sinistra
dovrebbe aver l'obbligo di caratterizzarsi autonomamente elaborando un progetto
di pace anche e soprattutto rispetto al proprio territorio. Non c'è traccia di idee che un tempo pure circolavano a
Est come a Ovest (penso al Piano Rapacki su di una zona smilitarizzata al
centro del continente). Ribadisco un
giudizio di totale disarticolazione delle istituzioni sovranazionali, anche di
quelle elette a suffragio universale come il Parlamento Europeo che non ha
trovato la forza e la capacità di riunirsi in sessione straordinaria e andrà in
sessione ordinaria il 10 marzo. Nessuno tra
l'altro valuta i tempi di un possibile riarmo in conseguenza di una riconversione
industriale che comporta problemi di materiali, trasformazione di linee di
montaggio, dimensione degli impianti, tecnologia. In Italia l'operazione contraria, cioè di dismissione
dell'industria bellica dopo la seconda guerra mondiale durò all'incirca
quindici anni dal 1945 al 1960 cioè alla vigilia del boom quando una parte
della siderurgia fu abbandonata e l'industria cominciò a lavorare sui prodotti
del consumo individuale oltre l'auto gli elettrodomestici e la televisione per
rendere il tutto accessibile al grande pubblico, più o meno in contemporanea
con la nazionalizzazione dell'energia elettrica e lo sviluppo della telefonia
che con la SIP cominciò ad entrare nelle case della piccola borghesia e della
classe operaia con il telefono duplex. Quanto
tempo occorrerebbe oggi per una operazione all'inverso sia pure usufruendo di
tecnologie ben diverse? Armarsi significa pensare alla guerra: è questo un
inevitabile orizzonte? Anche e soprattutto
per questo serve subito una proposta di pace considerando l'Europa uno spazio
politico e non acriticamente come un bene in sé, e agendo di conseguenza a quel
livello. Insomma è più realistica una proposta di pace che un'utopia di un
armamento davvero difficile da realizzare.
mercoledì 5 marzo 2025
VOGLIA DI GUERRA
di Angelo Gaccione
Eurotossici drogati di guerra
Che i vertici del Parlamento Europeo vogliano la guerra non ci sono più dubbi. Gli eurotossici che il drogato di guerra laburista Starmer ha riunito a Londra lo ripetono apertamente e si stanno attrezzando alla bisogna. Parlano di riconversione dell’industria automobilistica in industria di guerra, di Banca di guerra, di esercito comune di guerra, di economia di guerra, di investire una quantità spaventevole di miliardi e miliardi di euro per la guerra. Fra le più assatanate guerrafondaie spiccano la von der Leyen e la Kaja Kallas, il presidente dimezzato francese Macron, il primo ministro Pedro Sánchez (si definisce socialista ed è persino segretario del Partito Socialista Operaio Spagnolo. Poveri miliziani, e poveri caduti nella guerra di Spagna!), il presidente del consiglio polacco Tusk (si vede che alla Polonia non sono bastati né il sangue versato durante la Seconda guerra mondiale né le distruzioni), e persevera, come se niente fosse, il tedesco Scholz a cui gli elettori della Germania hanno dato una sonora sberla elettorale.
Da noi i più agguerriti sono i “progressisti” del Pd, i “moderati” di Forza Italia (meno male che sono moderati), i clan insignificanti, ma pur molto loquaci di quello che resta dei radicali (ve le ricordate le loro marce per la pace? Che brutta fine!), dei Calendiani, dei Renziani, dei Totiani, dei Lupiani e altra frattaglia che, come scriverebbe il mio compianto amico scrittore Giuseppe Bonura se fosse ancora in vita: “si riuniscono in una cabina telefonica”; naturalmente i “patrioti” di Fratelli d’Italia e il loro ministro dell’Offesa al buon senso che si preoccupano talmente tanto della patria da prepararsi a ridurla in misera con un vertiginoso impiego di miliardi per la guerra, ma non sono in grado di garantire negli ospedali pubblici un miserabile esame se non a distanza di 10 mesi. Se vuole una prova la “statista” della Garbatella Giorgia Meloni, le posso mandare la prenotazione della mia defecografia fissata in novembre, o quella della visita oculistica prevista fra un anno.
Se continuano su questa follia militarista e guerrafondaia è prevedibile che la “loro” patria la faranno ridurre, prima ancora, in cenere. Se non amassi sfegatatamente la mia patria e la mia lingua, tiferei perché quattro missili nucleari cadessero sui quattro punti cardinali della Capitale e cancellassero questi drogati di guerra con le loro famiglie, i loro beni, i loro privilegi, al più presto possibile. E invece mi tocca usare la ragione e dannarmi per tentare di disintossicarli dalla loro follia, unendo la mia voce a quanti la ragione non l’hanno ancora perduta. Dopo il Comunicato di Londra stilato da Starmer e le dichiarazioni di Macron e von der Leyen - che sono un aperto sabotaggio al tentativo di negoziato per far finire la carneficina in Ucraina e trasformare l’Europa in una macchina da guerra - questo genere di Europa ai miei occhi è divenuta matrigna e deve implodere. Dobbiamo lavorare perché si sfasci prima possibile; dare un sostegno a questo genere di Europa è dare un sostegno alla terza guerra mondiale. Questo tipo di Europa che non ha mosso un dito in tre anni per trovare una via d’uscita diplomatica al conflitto russo-ucraino, che saccheggia risorse ai cittadini dell’Unione per diventare un bastione armato, che ha paura della parola pace, che è diretta e governata da irresponsabili e dilettanti, questa Europa si è rivelata non solo inutile ma concretamente pericolosa.
Per quanto mi riguarda non eserciterò più il mio diritto di voto a
meno che non si prenda subito coscienza dello stato delle cose e si metta in
piedi una forza che aggreghi su un punto comune: la pace, uomini e donne del
nostro Paese e collabori in tal senso con quanti in Europa sono favorevoli al disarmo
e a risolvere le controversie internazionali in modo pacifico. Ovviamente non
sosterrò la manifestazione ambigua e inutile indetta a Roma il 15 marzo, e che
avrebbe dovuto unire sotto un’unica parola d’ordine: Basta guerra! gli
italiani stufi di carneficine e vessati da un carovita che è divenuto un vero e
proprio mercato-nero legale con prezzi alle stelle e che ha impoverito ancora
di più i ceti popolari.
INDUSTRIA DI GUERRA E
NUCLEARE
di Franco Astengo
Il deficit
della sinistra nella capacità di progettare una visione alternativa di società
e di modello di sviluppo sta misurandosi con una realtà molto difficile che l’attualità
ci pone di fronte ogni giorno. L’esito delle elezioni
USA ha portato in una situazione in cui l’effetto immediato sarà quello del rovesciamento
delle istituzioni sovranazionali compresa l’Unione Europea.
La condizione generale di
conflitto e di conseguente crisi energetica in relazione al modello di sviluppo
capitalistico impostosi negli ultimi anni sta portando a un disegno di
mutazioni già in atto: ad esempio guardando all’Italia Leonardo in joint
venture con il colosso Rheinmetall per la produzione di mezzi corazzati e l’attività
di Iveco Defense ma si coltiva anche l’idea di un piano segreto del governo per
riconvertire parte dell’industria automobilistica in industria bellica.
In
questo momento l’industria bellica appare essere quella dall’impatto più
positivo dal punto di vista del rendimento economico: uno studio del Senato
dimostrerebbe che per ogni euro di valore aggiunto creato dal settore Difesa,
si generano un euro e sessanta centesimi addizionali di valore aggiunto: il 71%
in più rispetto alla media nazionale. Tutto questo sistema però, almeno a
nostro giudizio, finirebbe con il convergere all’interno della filiera
produttiva tedesca per ragioni di materie prime, capacità tecnologica, know-how
complessivo.
Egualmente per quel che riguarda
il rilancio del nucleare definito di seconda generazione: in realtà rimangono
ferme tutte le ragioni “storiche” del rifiuto (in Italia suffragato anche da
due consultazioni referendarie), in primis il tema dell’allocazione delle
scorie e dell’intreccio inevitabile tra civile e militare. In ogni caso per
quel che riguarda l’Italia rispetto al tema nucleare rimarrebbe comunque una
difficoltà di approvvigionamento e di ritardo tecnologico. Il vero nodo di
questa situazione risale però alla difficoltà di espressione di un modello
alternativo a quello di un impianto industriale complessivamente orientato
verso la guerra, compresa l’evoluzione costante della tecnologia e dello
sviluppo scientifico come nel caso dell’utilizzo dell’AI.
Nasce da queste constatazioni la
proposta del “socialismo della finitudine” che si coglie l’occasione di
rilanciare in questa sede. “Socialismo della
finitudine” per ripartire dall’idea dell’impossibilità, rispetto a quello che
abbiamo pensato per un lungo periodo di tempo, di procedere sulla linea dello
sviluppo infinito inteso quale motore di una storia inesorabilmente lanciata
verso “le magnifiche sorti e progressive”. Il primo punto di un programma così
teoricamente impostato dovrebbe allora essere quello rappresentato dalla
progettazione e da una programmazione di un gigantesco spostamento di risorse
tale da modificare profondamente il meccanismo di accumulazione dominante
secondo i principi della programmazione democratica e una visione di “società
sobria” di forte tensione verso l’uguaglianza e fondata sull’intervento
pubblico in economia verso settori decisivi dell’industria, dell’ambiente, dei
trasporti, della scuola(la cui priorità di intervento dovrebbe essere quello di
affrontare il deficit cognitivo che assilla diversi settori sociali) della sanità.
Oggi il ritorno della guerra come prospettiva globale, il riferimento a
innovazioni tecnologiche in grado di mutare il quadro di riferimento sociale, l’emergere
di tensioni “dittatoriali” sconvolgono l’assetto consolidato in un momento in
cui si sta attraversando una forte difficoltà per quell’accelerazione nei
meccanismi di scambio che abbiamo definito come “globalizzazione” e di evidente
ripresa del nazionalismo. “Socialismo della finitudine” come elaborazione resa
al fine di realizzare un mutamento sociale posto nel senso del passaggio
dall’individualismo competitivo a una nuova realtà di responsabilità collettiva
per avanzare un disegno di mutamento nell’offerta politica.