GLI INTELLETTUALI DI FRONTE AL CAMBIAMENTO di
Tayeed Dibie
Dopo
la mia visita in Tunisia e la mia esperienza con il suo grande popolo, che
nutre grande rispetto per la Palestina, per la sua gente, la sua causa e i suoi
luoghi sacri, l’immagine della Tunisia verde che resiste al colonialismo,
impressa nella mente di ogni palestinese fin dall’infanzia, è diventata più
profondamente radicata e bella.Ho scoperto che esiste una questione palestinese
immaginaria che non ha quasi nulla a che fare con la realtà; questione che è
stata formulata dai media e dal discorso religioso che hanno avuto un ruolo nel
plasmare la consapevolezza araba, in particolare nei confronti della questione
palestinese. Dopo la calorosa accoglienza di ogni palestinese in Tunisia,
cominciano ad emergere strani stereotipi su ciò che è accaduto e sta accadendo
in Palestina e sul popolo palestinese. Cliché che considerano
quest’ultimo essere un tipo di popolo diverso, sovrumano, che accetta la
perdita dei propri cari e delle proprie capacità e considera la propria
umiliazione e il proprio sfollamento come qualcosa di normale e un inevitabile
“prezzo” per il bene della patria e per la conquista dell’aldilà!
In questi stereotipi sono contenute domande
che richiedono risposte sì o no, dopo le quali inizia un flusso di giudizi
preconfezionati come: appartieni al gruppo di tizio o al partito di tizio?
Sebbene il mio discorso sulla Palestina non abbia nulla a che fare, vicino o
lontano, con alcun orientamento politico, questi luoghi comuni semplicemente
riproducono l’esperienza soggettiva emersa dal cuore di una realtà che il
soggetto non ha mai sperimentato; e quasi tutto ciò che sa su di essa è
arrivato attraverso i media che lavorano in modo non così innocente per plasmare
l’opinione pubblica per raggiungere obiettivi politici predeterminati. Dopo
essere stata accusata in un batter d’occhio, mi ritrovo costretta a difendermi
da accuse che Dio non ha autorizzato - se possono essere considerate accuse -
perché appartenere a un partito politico, credo, non è un’accusa, ma lo è
almeno per alcuni. Insistono nel dimenticare ciò che lo sceicco Muhammad Abduh
disse più di un secolo fa: “La verità nelle questioni sociali è relativa e non
assoluta, come nella filosofia e nella scienza. La questione nelle questioni
sociali non viene affrontata secondo la logica della verità o della falsità”.
Forse tutto quanto detto sopra può sembrare normale, ma ciò che è insolito è
che ciò provenga da persone che si identificano come intellettuali, scrittori,
poeti, romanzieri e altri. Riferendomi sia alla definizione dell'intellettuale
presentata da Antonio Gramsci, che divide gli intellettuali in intellettuali
organici e inorganici (l’intellettuale organico è diverso da tutte le opinioni
comuni) che alla definizione che Ali Shariati nel suo libro “La
responsabilità dell’intellettuale” ne dà come persona che pensa in un modo
nuovo, esiste una stretta analogia con Edward Said quando affermò che uno dei
compiti dell’intellettuale è quello di fare uno sforzo per infrangere opinioni
stereotipate e affermazioni denigratorie che limitano notevolmente il pensiero
umano e la comunicazione intellettuale.
Alla luce di quanto sopra, sembra che la
maggior parte degli intellettuali dei paesi arabi, o coloro che si presentano
come tali, siano ben lontani dall’essere uno strumento di cambiamento nelle
loro società che stanno inesorabilmente arretrando. Queste persone che
dovrebbero essere il seme del cambiamento si rifiutano di ascoltare un’opinione
semplicemente perché contraddice gli schemi intellettuali che hanno creato per
sé stessi sotto lo slogan della cultura e della conoscenza diffusa. Piuttosto,
la loro cultura sembra una frusta con cui frustano chiunque non sia d'accordo
con loro. Perché sto scrivendo di tutto questo ora? Perché sono una cittadina
che fa fatica a vedere il proprio Paese spazzato via da un nemico coloniale
criminale, e allo stesso tempo vedo coloro dai quali ci si aspetta che
forniscano idee e soluzioni per uscire da questa crisi (se è lecito chiamarla
crisi, perché ciò che sta accadendo è molto più pericoloso) che in tutti i
Paesi del mondo arabo, compresa la Palestina, invece giustificano quanto sta
accadendo come se si trattasse di un passaggio forzato verso la libertà e la
salvezza. Forse attivando il nostro pensiero e sensibilizzare le istituzioni
attraverso l’organizzazione dei nostri sforzi - il che richiede in anticipo che
non restiamo prigionieri di schemi intellettuali stereotipati - aprendo dunque
un dialogo tra idee diverse in quanto nessuno può affermare che tutto ciò che
dice o rappresenta sia puro e corretto (il rapporto tra idee e visioni diverse
non è come il rapporto tra fede e incredulità, patriottismo e tradimento),
tutto questo potrebbe essere un modo per proteggere l’esistenza di un popolo
esposto ogni giorno all’annientamento e per iniziare la dissoluzione della sua
tragedia, giunta al termine.