ODESSA, VITA QUOTIDIANA E BOMBARDAMENTI di Christian Eccher
In centro
Il bagliore delle luci gialle del centro si riflette sul
selciato bagnato e sulle nuvole basse, da ore sospese e immobili sulla città;
lungo la via pedonale “Primorskaya”, luccicante e pulita, che inizia nei pressi
del Teatro dell’Opera e del Municipio, ci sono poche persone a passeggio, quasi
tutti giovani. Sulla sinistra si ergono maestosi e fieri palazzi, che, con i
loro stucchi e gli eleganti balconi, guardano al mare: in passato, Odessa si
presentava così ai naviganti, con l’orgoglio e la fierezza di una ricca e
gentile architettura. La parte destra della passeggiata è invece aperta e, come
da una terrazza, permette la visione dell’intero golfo e del porto, da cui
sopraggiungono rumori di camion che scaricano le merci, di treni in arrivo e di
gru che caricano container carichi di grano su navi invisibili: a causa dei
continui attacchi dei russi all’infrastruttura portuale, le imbarcazioni
ancorate ai moli tengono spente l’illuminazione di bordo.
Tranquillità e poi droni
Le giornate trascorrono tranquille, Odessa è una città
viva e la guerra sembra lontana, relegata alle zone più orientali dell’Ucraina.
La gente va a lavorare, i tram gialli e rossi si scuotono al passaggio lungo
gli spaziosi boulevard che portano in periferia e tutto sembra essere normale e
in perfetto ordine. Quando però cala la sera e la notte si distende sul Mar
Nero e sui territori stepposi del sud dell’Ucraina, l’ululato sinistro delle
sirene antiaeree ricorda alla gente, già chiusa nelle proprie case e nei propri
appartamenti, che il conflitto è presente, e che si combatte anche qui. In una
sera di marzo, in cui l’aria di brezza dal mare profuma già di primavera,
proprio nei giorni in cui i primi teneri germogli sbocciano sugli alberi che
costeggiano la scalinata Potemkin, la Russia scaglia l’ennesimo attacco contro
Odessa, questa volta con droni di tipo “Shahed”. Fra l’urlo delle sirene, si
sentono distinti i colpi di contraerea che rimbombano in tutta la città. Nel
cielo, compaiono le scie rosse dei proiettili della contraerea, come fossero
stelle cadenti che hanno però origine dal mare e che vanno verso il cielo. Un
boato scuote la zona dell’aeroporto: un drone o i resti di un drone hanno
colpito un edificio civile della periferia, un deposito di giocattoli e una
zona in cui si trovano anche dei depositi di carburante. Dopo mezz’ora di dura
battaglia celeste, l’allarme aereo finisce e la città ritrova la calma della
notte. Al mattino, il cielo è cupo e un sole pallido fa capolino a est. Non si
tratta di nuvole ma della coltre di fumo proveniente dalla zona bombardata. Una
colonna altissima e nera si alza da un punto indefinito all’orizzonte e il
vento in quota la disperde ad alta quota. L’odore di bruciato è ovunque e
l’incendio e il fumo rimarranno visibili per altre 24 ore.
Il porto La colonna di fumo si estende verso la periferia
orientale della città, spinta dai venti occidentali. Nella zona del porto,
sormontata dalla coltre di foschia nera, c’è un gruppo di case unifamiliari
incassate fra la periferia e i moli. Ci si arriva con il tram che segue la
strada magistrale per Mykolaiv. In prossimità del porto, ci sono edifici
distrutti e incendiati; Odessa è stata colpita più volte dai russi con droni e
missili proprio nel suo punto nevralgico, il porto appunto. Dopo il mancato
rinnovo dell’accordo sul grano, nel 2023, il Cremlino ha continuato a
bombardare quest’area della città, che comunque continua a essere produttiva e
funzionale. A livello infrastrutturale, solo il 30-40% degli edifici del porto
è in funzione, ma l’export è tornato quasi ai livelli prebellici. Da Odessa
partono soprattutto grano e prodotti siderurgici.
La periferia e la casa di Maria Cala la sera e subito appare chiaro il contrasto fra la
periferia e il centro della città. Qui le vie sono poco illuminate, la strada
principale è molto trafficata e, verso l’interno, dalla parte opposta del
porto, si vedono soltanto le luci fioche delle case unifamiliari a un piano. In
una di queste vive Maria con la mamma Irina e i suoi due figli Vladimir e Anna
(i nomi sono inventati). L’abitazione è molto vecchia, è stata costruita dai
tedeschi che abitavano a Odessa negli anni ’40 e all’interno ci sono tre stanze
e un bagno, composto soltanto da un cesso e un lavandino. Non ci sono né la
doccia né la vasca da bagno. “Sono tornata a vivere qui con mio figlio dopo che
mio marito è morto in guerra, per abbattere i costi e per non lasciare sola mia
madre” dice Maria, mentre beviamo un tè alla luce fioca del soggiorno. Accanto
al tavolo, c’è un divano letto su cui dorme la madre, che in questo momento
riposa perché non si sente bene. Le chiedo di parlarmi delle circostanze in cui
è morto il marito. “È partito volontario per il fronte ed è ufficialmente
scomparso senza lasciare traccia nel luglio scorso. Per lo Stato non è morto,
per questo non prendo neanche la pensione che spetta alle vedove”. Le chiedo
come faccia a essere certa della morte del marito: “Per prima cosa, se un
soldato finisce prigioniero dei russi, si viene sempre a sapere. Seconda cosa,
basta guardare le mappe di avanzata del fronte: il giorno in cui mio marito è
morto, ci sono stati dei combattimenti furiosi proprio nella zona in cui si
trovava, che non è controllata da nessuno degli eserciti. Mio marito è rimasto
lì, né lo hanno catturato né è tornato indietro. Probabilmente non è stato
neppure sepolto...”.
Maria ha lo sguardo duro, gli occhi vitrei di chi è
abituato alle difficoltà. Da bambina, la madre alcolizzata l’ha abbandonata;
lei è cresciuta in un internato sovietico, dove ha vissuto violenze di ogni
tipo. Una volta maggiorenne, la madre, che è riuscita a disintossicarsi, l’ha
cercata e lei l’ha perdonata. A 20 anni ha partorito Vladimir, che adesso ha 24
anni, e si è sposata. In un secondo tempo è nata Anna, che ora ha 15 anni. Ironia
della sorte, i genitori del marito vivono in Russia, a Mosca, e non sanno della
fine del congiunto. Sono anziani e non reggerebbero al dolore. Il marito di
Maria, prima di partire per la guerra, aveva esclamato: “Vado a sparare addosso
ai miei, e i miei spareranno addosso a me!”. Maria lavora come donna delle pulizie per un’azienda di
Odessa e presta servizio anche in case private. Nella fabbrica per cui lavora,
guadagna 900 grivenj al giorno (circa 20 euro). “Adesso stiamo abbastanza bene
economicamente, ma io devo lavorare 14 ore al giorno - continua Maria - vorrei
ristrutturare questa casa, ma Vladimir non vuole, dice che è meglio aspettare
la fine della guerra”.
Progetti futuri e il missile Iskander Mentre la mamma parla, Vladimir entra nella stanza. Un
fisico atletico, la barba lunga e rossa e un tatuaggio sul braccio destro, con
scritte indecifrabili. “Mamma, te l’ho già detto! Devi essere razionale:
viviamo vicino al porto, un missile potrebbe distruggere tutto da un momento
all’altro. Ristruttureremo a guerra finita!”. Maria risponde prontamente: “Io
dico che dobbiamo ricostruire ugualmente. È un modo per essere attivi e per non
arrendersi alla guerra. Continuare, continuare, continuare, se poi ci
danneggiano la casa, lo Stato ci aiuterà a ristrutturarla di nuovo!”. “Se
invece il missile ci colpisce direttamente, il problema è risolto per sempre”,
dice Vladimir, mentre ride e prende una bottiglia di rum dalla credenza
appoggiata sul muro antistante al letto. Vladimir è uno dei tanti giovani che
si nasconde per non essere arruolato nell’esercito. “Ho perso molti amici e mio
padre, mia madre insiste perché io non mi arruoli. Ci avevo pensato, ma credo
di avere delle responsabilità nei confronti della mia mamma, di mia sorella e
di mia nonna”.
Alla domanda sul perché volesse arruolarsi, risponde con lo
sguardo serio di chi ha riflettuto a lungo: “Vedi, ritengo che l’invasione
della Russia vada fermata, ma non è per questo che avevo preso la decisione di
andare al fronte. Se vai in guerra, devi prima di tutto risolvere il tuo
rapporto con la morte, e, di conseguenza, anche con la vita. Una riflessione
interiore, lunga e dolorosa, che ti porta ad accettare il fatto di andare
incontro a ciò che noi esseri umani continuamente rimuoviamo, a cui non
vogliamo pensare: alla morte. Bene, io avevo risolto questo nodo ed ero pronto
a morire. Poi, mia madre - mentre pronuncia queste parole si alza e la
abbraccia - mi ha fatto capire che avevo delle responsabilità e che per questo
era più importante che io vivessi. Lo devo soprattutto a mia sorella”. Maria è riuscita
anche a raccogliere i 15.000 euro necessari per ottenere il passaporto
(illegalmente, l’Ucraina non ha ancora del tutto risolto la piaga della
corruzione) e per permettere a Vladimir di lasciare il Paese, ma il figlio non li
ha accettati. Rimarrà a Odessa fino alla fine del conflitto. La discussione
continua, finché le sirene antiaeree non cominciano a suonare. “I soldi messi
parte li utilizzeremo per pagare l’istruzione per mia sorel...”. Un tuono sordo
e cupo interrompe Vladimir. Una fortissima onda d’urto spalanca la finestra appena
accostata, nelle orecchie si sente la pressione dell’aria, come quando il treno
entra di colpo in galleria. Un missile russo, un Iskander, è caduto sul porto.
Sapremo solo dopo qualche ora che ha colpito una nave algerina carica di grano.
4 uomini dell’equipaggio sono morti, 3 siriani e un ucraino.
Geopolitica e speranze Nella zona denominata Fontana, sul lungomare, vicino al
grattacielo in vetrocemento che qualche tempo fa è stato colpito da un drone e
mostra ancora gli ultimi piani sventrati, mi aspetta Arthur, un professore
dell’Università di Mykolaiv, a Odessa per un incontro di lavoro con alcuni
colleghi. Parliamo della situazione politica non certo felice in cui si trova
l’Ucraina. “Gli ucraini non hanno voltato le spalle al proprio Presidente, come
alcuni media occidentali vogliono far credere. Zelensky è sempre popolare,
anche e soprattutto dopo lo scontro con Trump. Ha sempre dimostrato coraggio e
non ha mai abbandonato il Paese”. Gli chiedo quale sia lo stato d’animo suo e
della popolazione ucraina in questo momento e lui conferma l’impressione che ho
avuto in questi giorni parlando con la gente di Odessa: “Siamo stanchi, siamo
tutti molto stanchi. Vorremmo che questa guerra finisse. Missili, droni, se non
ci sono esplosioni urlano le sirene, non si riesce mai a dormire per una notte
intera!”. Questa, infatti, è anche una guerra del sonno: spesso, i russi fanno
alzare droni da ricognizione a tarda notte solo perché sanno che così
suoneranno le sirene in tutta l’Ucraina e che la gente si sveglierà, cosa che,
alla lunga, può portare a problemi di salute e a crisi di nervi.
Chiedo al
professore se fra la gente regnino anche pessimismo e disperazione dopo il
rifiuto di Trump di aiutare l’ucraina: “Pessimismo c’è, disperazione no. Il
quadro geopolitico cambia molto rapidamente, non è escluso che Trump litighi
con Putin e che torni ad aiutare gli ucraini. In ogni caso, Zelensky si sta
muovendo bene, continua a intessere rapporti diplomatici con Washington, sa che
senza l’aiuto degli americani l’Ucraina è persa”. E l’Europa?. “Sull’UE non
possiamo ancora contare. A Bruxelles si parla di riarmo, ma il processo è lento
e a noi le armi servono subito. Sarebbe utile dar vita a un esercito comune
europeo che, nell’ottica di una vera e propria confederazione di Stati europei
di cui un giorno farebbe parte anche l’Ucraina, difenderebbe gli interessi
comuni del nostro continente”. Si fa buio, la notte scende e insieme a lei un manto di
nebbia fitto che arriva dal mare e nasconde la sommità del grattacielo in vetrocemento,
sfregiata dal drone.
Erwartung Nel rifugio del Teatro dell’Opera, a cui si accede
attraverso corridoi e scale misteriose che portano nel sottosuolo, va in scena
un’opera di Arnold Schönberg, Erwartung,‘Attesa’. Il rifugio antiaereo diventa
palcoscenico e platea e le note del Maestro austriaco, intonate dal soprano Yulia
Tereshchuk, ricordano ai presenti che la realtà in cui viviamo è estremamente
complessa e che può essere descritta (e quindi compresa) solo grazie a un
linguaggio altrettanto complesso, quello che ci offre l’arte, appunto. La
musica e l’arte danno un senso e riempiono l’attesa che stanno vivendo in
questo momento Odessa e l’Ucraina. L’attesa della fine della guerra e
dell’inizio di un nuovo mondo, che stenta a nascere, mentre quello vecchio,
fatica a morire. [Odessa, Primorskyi
raion, 14-16 marzo 2025]