Pagine

lunedì 10 marzo 2025

RIFLESSIONE A MARGINE SU POETI
di Giorgio Linguaglossa
 


La mia non è una recensione né una nota di lettura ma una riflessione a margine.

 
In questo libro di poesia Angelo Gaccione parla su e intorno a trenta poeti del Novecento. È un parlare ramingo, erraneo, dove non c’è né inizio né fine, dove il titolo non è un vero titolo e l’ “io” non è che un io che finge di essere l’autore del testo; e il testo è un senza margini e si involge su se stesso seguendo il meccanismo della trottola; il racconto è impossibile perché qui il rendiconto, l’enumerazione, la contabilità – che i medici e la legge esigono con il loro interrogare – contagia anche il discorso poetico, e, poiché ogni volta il raccontare si chiude in un render conto, il senso possibile e attingibile ogni volta rischia di venire tradito, finisce in un significante che rimanda ad un altro significante e così via. La legge e il dare alla luce una composizione poetica che parla di un’altra composizione poetica di un altro autore del passato obbediscono allo stesso movimento, della fantasia e della ragione. È un movimento riflettente che obbedisce alla ratio della mimesis. L’ordine del giorno è anche questo, ci chiede continuamente di interrogare una presunta realtà. Interrogando i poeti che ci hanno preceduto ci si sottomette alla stessa dialettica dell’interrogazione, alla sua ratio profonda. E l’interrogazione diventa «oscena» ha scritto una volta Slavoj Zizek, perché assomiglia ad un parlare di un fantasma con altri fantasmi. Levinas ha detto una volta che «fare un racconto, parlare, è già un redigere un rapporto di polizia». La verità della poesia è in questo teatro, in questo voler sfuggire al giogo del racconto, quando invece ogni racconto assomiglia, nel suo linguaggio, nella sua postura e nel suo stile, al referto di un medico legale dopo che ha finito la vivisezione di un cadavere. 


Gaccione con Franco Loi

Questo aspetto «luttuoso» è ciò che un lettore vede nella poesia moderna, almeno da The Waste Land di Eliot in poi (1922), che non considera più criticamente possibile e attingibile organizzare un testo-racconto senza ricorrere ad un «fuori», che per Eliot era il «correlativo oggettivo». Ma è proprio l’impossibilità di sfuggire al racconto che fa ricadere la poesia sulla sua intima contraddizione di fondo: che l’interrogare è proprio di una mentalità poliziesca che vuole scoprire l’autore e il committente di un delitto. E così il discorso poetico diventa una interrogazione sulla scena del delitto, e ricade nel pozzo senza fondo del racconto e del rendiconto contabile e poliziesco. A ragione scrive Gaccione: “Non ci restano che i versi dei poeti / ma è raro che ci sanno consolare”.
Gaccione chiede ai poeti che ci sappiano «consolare» con le loro parole belle e buone. Ma è appunto questo obiettivo che oggi appare quantomeno problematico. Almeno da Eliot in poi. È proprio l’impossibilità di sfuggire al giogo del rendiconto e della «consolazione» che qui è in gioco. È questa la posta in gioco del gioco. È la problematicità e l’impossibilità del discorso poetico che è in gioco, la sopravvivenza della poesia nell’epoca della sua riproducibilità digitale infinita per il tramite della Intelligenza Artificiale generativa. O che altro? È in gioco qualcosa che supera la stessa posta in gioco.



Angelo Gaccione
Poeti. Ventinove cavalieri e una dama
Di Felice Edizioni, 2025
Pagg. 56 € 10
 



Da: L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale
Domenica 9 marzo 2025
https://lombradelleparole.wordpress.com/2025/02/28/38561/comment-page-1/#comment-85514