La lotta di liberazione antifascista dei popoli
della Jugoslavia è stata, com’è noto, una delle resistenze partigiane più
estese dell’Europa sotto l’oppressione nazista e fascista, una resistenza
vittoriosa, che ha portato alla sconfitta del fascismo e del nazismo e alla
costituzione di un nuovo ordine sociale e politico per i popoli slavi del sud;
ma è stata anche un crogiolo di unità e solidarietà antifascista, di unità e
fratellanza, di amicizia tra i diversi popoli della regione. Non pochi
furono gli esempi di lotta unitaria tra i diversi popoli jugoslavi, e l’esempio
forse più iconico, tra i tanti che hanno segnato quelle pagine memorabili, è la
lotta di Boro e Ramiz. Si tratta dei due “eroi del popolo della Jugoslavia”,
Boro Vukmirović (serbo) e Ramiz Sadiku (albanese), la cui storia è tanto più
significativa, perfino emotiva, oggi, di fronte alle divisioni etniche e alle
continue violazioni dei diritti umani delle diverse comunità non maggioritarie
che caratterizzano la situazione del Kosovo odierno. Fatti
prigionieri a seguito di un’imboscata nell'aprile del 1943, mentre si trovavano
sulla strada da Djakovica a Prizren, in Kosovo, diretti a un incontro con il
leggendario comandante partigiano Svetozar Vukmanović Tempo, Boro e Ramiz
furono torturati dalla polizia fascista e poi fucilati, l'uno tra le braccia
dell'altro, insieme, dal momento che, avendo condotto insieme le fasi più dure
della lotta, rifiutarono di separarsi proprio nel momento della fine. I due sono
un vero e proprio simbolo di fratellanza e unità tra albanesi e serbi.
Boris
(Boro) Vukmirović (1912-1943) era partigiano e operaio. Era nato il 1° agosto
1912 e, perso il padre in giovane età, fu costretto a interrompere gli studi e iniziare
a lavorare come operaio. A venti anni (1932) è membro dell’organizzazione
giovanile (Skoj), dall’anno successivo membro del Partito Comunista di
Jugoslavia, del quale, nel giro di appena un anno, diviene segretario del
Comitato locale a Peć (Peja), nel Kosovo occidentale. Imprigionato
più volte, a causa della sua attività rivoluzionaria, fu poi rinchiuso,
torturato e processato nel 1935 nel carcere di Peć, salvo poi andare assolto
per mancanza di prove. Nel 1940, fu fatto membro del Comitato regionale del
Partito Comunista di Jugoslavia per il Kosovo e la Metohija, il Montenegro e il
Sangiaccato. Ma nel 1940 siamo già alle porte della guerra. Instancabile
organizzatore di scioperi e manifestazioni, protagonista delle lotte operaie a Peć
e in tutto il Kosovo, ebbe un ruolo di primo piano, tra le altre, nelle grandi manifestazioni
antifasciste del maggio 1940 e poi nelle manifestazioni del marzo 1941. Subito
dopo l’aggressione nazista alla Jugoslavia, il 6 aprile 1941, si impegnò
instancabilmente nell’avvio della lotta partigiana. Dall'ottobre 1941 fu
commissario politico del distaccamento partigiano della Metohija e dall’anno
successivo membro temporaneo dello Stato maggiore dei distaccamenti partigiani
per l’intera regione del Kosovo.
Proprio durante una di queste missioni, mentre lasciava Djakovica,
con Ramiz Sadiku, per incontrare Svetozar Vukmanović Tempo,
delegato del Comitato centrale del Partito Comunista di Jugoslavia e del
Quartier generale supremo, il 7 aprile 1943, cadde in un'imboscata e, in uno
scontro con fascisti italiani e nazionalisti albanesi, fu ferito, catturato e
sottoposto a tortura, senza che fosse possibile, tuttavia, estorcergli alcuna
confessione. Fu fucilato il 10 aprile 1943 a
Landovica e nominato eroe dei popoli della Jugoslavia nel 1945. Insieme
con lui, c’era Ramiz. Ramiz Sadiku era nato a Peć nel 1915. Si unì al movimento
rivoluzionario ancora studente al ginnasio. Tra i fondatori del circolo
rivoluzionario “Budućnost”, divenne membro dell’organizzazione giovanile (Skoj)
nel 1933 e poi del Partito Comunista di Jugoslavia nel 1936. Nel giro di poco
più di un anno divenne membro dell'Ufficio di presidenza del Comitato
distrettuale per il Kosovo e la Metohija e, dopo l’invasione e l’occupazione
italiana dell’Albania (1939), iniziò a organizzare raduni in tutta la regione
del Kosovo contro l'invasione e l’occupazione fascista. L’intervento
della polizia non tardò ad arrivare e Ramiz fu presto catturato e imprigionato nella
famigerata Torre Sheremet a Peć. Al processo, il pubblico ministero ne chiese
la condanna a morte, ma Ramiz fu poi mandato assolto, per mancanza di prove. Nel
giro di pochi mesi (luglio 1942) fu di nuovo arrestato e di nuovo imprigionato,
ancora nella torre di Sheremet. Nonostante
le continue torture, anche lui non indulse ad alcuna confessione, e fu quindi
trasferito nel carcere di Tirana, da cui riuscì incredibilmente ad evadere,
grazie all’aiuto di un gruppo di comunisti albanesi, giunti in suo soccorso, guidati
da un altro eminente leader rivoluzionario, Koçi Xoxe, e tornare così in Kosovo
in clandestinità. Caduto nell’agguato del 7 aprile, fu catturato, torturato e fucilato il 10 aprile 1943 a Landovica, con Boro.
Con Boro, nel 1945, fu proclamato Eroe dei
Popoli della Jugoslavia. Apparentemente lontana, è, in realtà, una storia che
parla di noi. Di un territorio in cui le leadership nazionaliste e le
diffidenze interetniche, spesso tra sciovinismi e razzismi, sono subentrate
alla disgregazione della federazione e alle eredità del conflitto, e dove la
guerra ha lasciato uno strascico profondo, in termini di contrasti
etnopolitici, violazioni dei diritti e ingerenze esterne. Ma anche di una vicenda che si vorrebbe, da parte di
quelle medesime leadership nazionaliste, sepolta nel passato, in cui
revisionismi e manipolazioni della storia si impongono e dove il rispetto dei
diritti umani e il tessuto della solidarietà e dell’amicizia tra i popoli si
fanno sempre più tesi e sfrangiati. Nel caso del Kosovo, come ha riferito in Consiglio di
Sicurezza Caroline Ziadeh, Rappresentante speciale, le minoranze non si sentono
protette e, riportando le interlocuzioni con la società civile serba, i
cittadini “deplorano le azioni unilaterali intraprese dalle autorità di
Prishtina, tra cui la recente chiusura dei Centri di assistenza sociale gestiti
dalla Serbia e il conseguente drammatico impatto socioeconomico”. Un contesto
di violazioni diffuse dei diritti umani. “Ciononostante, non si vedono
alternative alla necessità per i serbi del Kosovo di riappropriarsi di un senso
di autonomia con un sistema di autogoverno nel quadro della Comunità dei Comuni
a maggioranza serba del Kosovo”. Quella lezione di solidarietà e amicizia
torna, dunque, più attuale che mai. Riferimenti: Special Representative of the Secretary-General (SRSG),
Caroline Ziadeh, calls for concrete steps to prioritize commitments under the
dialogue, 08.04.2025:https://unmik.unmissions.org/srsg-ziadeh-calls-concrete-steps-prioritize-commitments-under-dialogue-presents-trust-building Immagine: Lo storico monumento “Boro e Ramiz” nel Parco cittadino
di Prishtina, Kosovo. Il busto di Boro è stato
distrutto e rimosso.