Angelo Gaccione è poeta di razza, da sempre. Lo è stato
nelle prime prove, anche precocissime, che ho avuto la fortuna di leggere e che
mi auguro di veder presto pubblicate. Lo è da mezzo secolo (durata davvero
insospettabile per un eterno ragazzo come lui) di attività letteraria,
giornalistica, critica, divulgativa, aforistica, civile e polemica. Lo è tanto
più in questo libro, che unisce alla vena creativa un’idea profonda e luminosa:
quella di un singolare Bildungsroman poetico, inventato da chi affianca
la propria produzione alla gratitudine verso i maestri scomparsi (alcuni dei
quali realmente incontrati nel corso della vita) e fa di tale nobile sentimento
un’ulteriore materia di ispirazione. Questo Poeti è dunque molto più di
una raccolta di poesie: è un’autobiografia, un documentario, un laboratorio di
scrittura, un formidabile archivio fotografico, un petrarchesco Secretum. Viene allora spontaneo
domandarsi, prima di procedere nella lettura: perché proprio ora? Perché un
autore poliedrico come Gaccione, che ha nelle sue prime corde il sentimento
della poesia, sceglie di presentarsi soltanto tardivamente come poeta “in
proprio”? Una prima risposta possibile ha forse a che vedere con il sentimento
di gratitudine di cui parlavo prima: si chiama, con termine un po’ fuori moda
ma assai necessario di questi tempi, “pudore”. Dove tutti pubblicano tutto, si
autoproclamano poeti, si propongono fin troppo informalmente su social e altri
canali privi di qualunque selezione critica (e soprattutto di qualunque
autoselezione), Gaccione promuove, come è suo costume, una via controcorrente:
quella che il grande Milan Kundera chiamerebbe “elogio della lentezza”.
Gaccione, a differenza di tanti scriventi contemporanei, è troppo colto (e
troppo poeta) per non esercitare sulla propria parola un controllo ferreo, una
selezione accurata, che va di pari passo con la scelta di farla partire da una
parola più vasta e antica. Galimberti ha scritto che l’umiltà è dei grandi e la
modestia è dei deboli. Cos’è questa se non autentica, grande umiltà, pienamente
e immodestamente consapevole del proprio valore, al punto da voler dare una
silenziosa lezione ai posteri?
Niente è casuale in
questo libro: dalla scelta di scansione cronologica dei testi in ordine di
composizione (a sottolineare la prevalenza del criterio personale su quello
storico-letterario) alla versificazione policentrica, polimetrica, che soltanto
a fine lettura comprendiamo essere stata in qualche modo ispirata dal maestro
autore dell’archiverso: sì, ma in che modo? Chiariamo subito: i versi di
Gaccione non sono mai “variazioni” del testo ispiratore - di cui si cita in
corsivo il primo verso, in genere abbastanza famoso da suscitare il ricordo
dell’intera poesia. Ne sono piuttosto, per proseguire nel campo metaforico
musicale, un accompagnamento, suonato tuttavia interamente con lo strumento
personale di Gaccione, più spesso totalmente diverso rispetto a quello del
brano originale. E gli strumenti linguistici di Gaccione – l’ho già ricordato –
sono polifonici, ibridi, mimetici, in se stessi orchestrali e orchestranti: a
dimostrarlo basterebbe l’intera carriera letteraria dell’autore. È come se
Gaccione volesse dirci: ecco che cosa ha significato per me, per la mia
personale Bildung, questo autore, questa poesia; ecco da dove sono partito e
dove vorrò ritornare, fermarmi. Ed è proprio in questo filtro, in questo
irrepetibile impregnarsi (tramite i versi) di un’anima con un’altra anima di
poeta,è in questa ossessione comune di
sensibilità affini, coltivate e distillate nella parola, che gli stessi maestri
del Novecento prendono vera vita: vengono in senso letterale “immortalati”,
nell’atto stesso di dimostrare quella che per ogni poeta è la missione al di là
del tempo: scuotere la coscienza del lettore, rivelarlo a sé stesso,
insegnargli forse(per citare un
bellissimo verso del poeta contemporaneo Francesco Piscitello) «la difficile
arte di morire».
Il dialogo con la morte
– apotropaico, teatrale, ironico o struggente, mai drammatico – è il vero leitmotif
di questa raccolta, interamente ispirata (forse non a caso) a poeti non più
viventi. La morte è una presenza costante, talora l’argomento implicito nelle
conversazioni animiche fra Gaccione-lettore e il poeta di volta in volta amato,
ascoltato, venerato. Non soltanto la morte, naturalmente (non potremmo certo
aspettarcelo in uno scrittore vibrante e solare come Gaccione), ma tutti i suoi
spiazzanti correlati: il nulla, l’incomunicabilità, la perdita, il nonsenso,
l’oblio. Ma anche in ciò il nostro autore rivela un eccezionale talento
mimetico, ponendo domande là dove coglie, nella sua sensibilità di interprete,
il tarlo di uno scetticismo mai superato nel maestro, e agendo invece parti
sempre diverse, a seconda del tipo di ricerca e di voce che vede praticata.
Speculari, a questo proposito, e fra i più riusciti del libro, i versi per
Montale e quelli per Testori: i primi sono intessuti di domande dall’inizio
alla fine (come avviene anche nel caso di Antonia Pozzi, unica donna della
raccolta, peraltro assai apprezzata da Montale stesso, che fu uno dei suoi
primi estimatori); i secondi mimano invece un corpo a corpo con il dubbio, una
lotta con l’angelo che fu il demone esistenziale del poeta lombardo. Gli esempi
potrebbero naturalmente continuare: lascio tuttavia al lettore il compito e la
sorpresa di scoprire le molteplici sfumature di questo dialogo con le ombre, in
cui Gaccione, rivisitando nella propria esperienza l’influsso che può avere su
un animo sensibile la parola dei maestri, finisce per rivelare la missione non
soltanto estetica, ma anche pedagogica della grande poesia italiana del Novecento.
Angelo Gaccione Poeti. Ventinove cavalieri e una dama Di
Felice Editore 2025 Pagg.
56 € 10