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domenica 6 aprile 2025

DIALOGANDO CON I MAESTRI
di Alessandra Paganardi


 
Angelo Gaccione è poeta di razza, da sempre. Lo è stato nelle prime prove, anche precocissime, che ho avuto la fortuna di leggere e che mi auguro di veder presto pubblicate. Lo è da mezzo secolo (durata davvero insospettabile per un eterno ragazzo come lui) di attività letteraria, giornalistica, critica, divulgativa, aforistica, civile e polemica. Lo è tanto più in questo libro, che unisce alla vena creativa un’idea profonda e luminosa: quella di un singolare Bildungsroman poetico, inventato da chi affianca la propria produzione alla gratitudine verso i maestri scomparsi (alcuni dei quali realmente incontrati nel corso della vita) e fa di tale nobile sentimento un’ulteriore materia di ispirazione. Questo Poeti è dunque molto più di una raccolta di poesie: è un’autobiografia, un documentario, un laboratorio di scrittura, un formidabile archivio fotografico, un petrarchesco Secretum.
Viene allora spontaneo domandarsi, prima di procedere nella lettura: perché proprio ora? Perché un autore poliedrico come Gaccione, che ha nelle sue prime corde il sentimento della poesia, sceglie di presentarsi soltanto tardivamente come poeta “in proprio”? Una prima risposta possibile ha forse a che vedere con il sentimento di gratitudine di cui parlavo prima: si chiama, con termine un po’ fuori moda ma assai necessario di questi tempi, “pudore”. Dove tutti pubblicano tutto, si autoproclamano poeti, si propongono fin troppo informalmente su social e altri canali privi di qualunque selezione critica (e soprattutto di qualunque autoselezione), Gaccione promuove, come è suo costume, una via controcorrente: quella che il grande Milan Kundera chiamerebbe “elogio della lentezza”. Gaccione, a differenza di tanti scriventi contemporanei, è troppo colto (e troppo poeta) per non esercitare sulla propria parola un controllo ferreo, una selezione accurata, che va di pari passo con la scelta di farla partire da una parola più vasta e antica. Galimberti ha scritto che l’umiltà è dei grandi e la modestia è dei deboli. Cos’è questa se non autentica, grande umiltà, pienamente e immodestamente consapevole del proprio valore, al punto da voler dare una silenziosa lezione ai posteri?



Niente è casuale in questo libro: dalla scelta di scansione cronologica dei testi in ordine di composizione (a sottolineare la prevalenza del criterio personale su quello storico-letterario) alla versificazione policentrica, polimetrica, che soltanto a fine lettura comprendiamo essere stata in qualche modo ispirata dal maestro autore dell’archiverso: sì, ma in che modo? Chiariamo subito: i versi di Gaccione non sono mai “variazioni” del testo ispiratore - di cui si cita in corsivo il primo verso, in genere abbastanza famoso da suscitare il ricordo dell’intera poesia. Ne sono piuttosto, per proseguire nel campo metaforico musicale, un accompagnamento, suonato tuttavia interamente con lo strumento personale di Gaccione, più spesso totalmente diverso rispetto a quello del brano originale. E gli strumenti linguistici di Gaccione – l’ho già ricordato – sono polifonici, ibridi, mimetici, in se stessi orchestrali e orchestranti: a dimostrarlo basterebbe l’intera carriera letteraria dell’autore. È come se Gaccione volesse dirci: ecco che cosa ha significato per me, per la mia personale Bildung, questo autore, questa poesia; ecco da dove sono partito e dove vorrò ritornare, fermarmi. Ed è proprio in questo filtro, in questo irrepetibile impregnarsi (tramite i versi) di un’anima con un’altra anima di poeta,  è in questa ossessione comune di sensibilità affini, coltivate e distillate nella parola, che gli stessi maestri del Novecento prendono vera vita: vengono in senso letterale “immortalati”, nell’atto stesso di dimostrare quella che per ogni poeta è la missione al di là del tempo: scuotere la coscienza del lettore, rivelarlo a sé stesso, insegnargli forse  (per citare un bellissimo verso del poeta contemporaneo Francesco Piscitello) «la difficile arte di morire».



Il dialogo con la morte – apotropaico, teatrale, ironico o struggente, mai drammatico – è il vero leitmotif di questa raccolta, interamente ispirata (forse non a caso) a poeti non più viventi. La morte è una presenza costante, talora l’argomento implicito nelle conversazioni animiche fra Gaccione-lettore e il poeta di volta in volta amato, ascoltato, venerato. Non soltanto la morte, naturalmente (non potremmo certo aspettarcelo in uno scrittore vibrante e solare come Gaccione), ma tutti i suoi spiazzanti correlati: il nulla, l’incomunicabilità, la perdita, il nonsenso, l’oblio. Ma anche in ciò il nostro autore rivela un eccezionale talento mimetico, ponendo domande là dove coglie, nella sua sensibilità di interprete, il tarlo di uno scetticismo mai superato nel maestro, e agendo invece parti sempre diverse, a seconda del tipo di ricerca e di voce che vede praticata. Speculari, a questo proposito, e fra i più riusciti del libro, i versi per Montale e quelli per Testori: i primi sono intessuti di domande dall’inizio alla fine (come avviene anche nel caso di Antonia Pozzi, unica donna della raccolta, peraltro assai apprezzata da Montale stesso, che fu uno dei suoi primi estimatori); i secondi mimano invece un corpo a corpo con il dubbio, una lotta con l’angelo che fu il demone esistenziale del poeta lombardo. Gli esempi potrebbero naturalmente continuare: lascio tuttavia al lettore il compito e la sorpresa di scoprire le molteplici sfumature di questo dialogo con le ombre, in cui Gaccione, rivisitando nella propria esperienza l’influsso che può avere su un animo sensibile la parola dei maestri, finisce per rivelare la missione non soltanto estetica, ma anche pedagogica della grande poesia italiana del Novecento. 

Angelo Gaccione
Poeti. Ventinove cavalieri e una dama
Di Felice Editore 2025
Pagg. 56 € 10