Le Schegge di Gaccione Schegge di Angelo Gaccione (I Quaderni Del
Bardo, Lecce, aprile 2024), si apre con una dichiarazione di intenti. Che
ricorda quello che diceva De André sui poeti: ossia che tutti, prima dei
vent’anni, scrivono; chi prosegue dopo i vent’anni è un matto, o un poeta. Ed è
nel ravanare, a mo’ di topo nel proprio tempo perduto, che Angelo Gaccione ha
realizzato, per conto della collana Dissensi (curata da Donato Di Poce),
una raccolta di massime, sentenze, aforismi che – a dire di Gaccione
nell’introduzione – vivono sulla pagina nell’anarchia ma, a un tempo, nel
sistematico, perché, dice, insieme forniscono ciò a cui l’artista non sfugge:
la sua visione del mondo. Ed è dunque sotto il segno dei grandi aforisti –
quali Flaiano o Kafka – che pulsano le schegge di Gaccione, feritoie nella
notte, per tornare a De André. Chi soffre, a Capodanno contempla l’incombere
della fine. Il 31 dicembre 2016 Angelo Gaccione scrive: L’esistenza non
obbedisce ad alcun disegno razionale, essa procede mossa dalla pura casualità,
e dall’imponderabilità assoluta dell’arbitrio.
Tale l’inizio. Programmatico,
esemplificativo. Gaccione decide di iniziare con una limpida dichiarazione di
intenti ma, anche, con l’esposizione del suo bagaglio, delle schegge altrui che
l’hanno ferito, influenzato. L’esistenza è mossa non già dai rapporti causali
ma dall’indecidibilità della contingenza. L’eco, nella forma, è quello della
disperazione cioraniana, di chi è più presso l’inorganico, di chi si sente,
alla stregua di un K., scarafaggio o muschio, lichene aderente a una roccia
sperduta. La filosofia racchiusa in questa massima è quella della scuola
esistenzialista post-kierkegaardiana, del Sartre che, dirigendo la vista agli
alberi, non si meravigliava dello splendore della fronda ma inorridiva di
fronte alla completa e straziante gratuità del tronco. È quindi nel solco del pessimismo che
ha inizio il libro di Gaccione. Non sarà dunque un Dio – crepato com’è,
non può accorrere – a salvarci; è sempre la sublimazione artistica, nella
visione di un poeta o di un prosatore, a innalzarsi come faro. Sicché Gaccione
scrive: Se la musica è morta, morta è la via… A dire: alla stessa
stregua di Tiresia, che “parlare non può ma cantare parole senza senso”, non è
nel contenuto delle parole – usurato, deducibile, consumato, borghese – che
ritroveremo ciò che ci è stato tolto, ma nell’inflessione che si avvicina al
canto. Ed è forse quel canto, quella musica, il poetare, ciò che più,
nell’ottica di un artista laico, si avvicina alla voce di Dio. Un dio affatto
privato.
È dell’aprile 2019 l’aforisma che – in
questo senso immettendosi nella tradizione esistenzialista francese – Gaccione
connota di politico la sua arte, sempre forma di resistenza. In tono polemico,
accusatorio: Pretendono un mondo migliore, ma non muovono un dito perché lo
diventi. Così scrive. Ché siamo tutti coinvolti, nonostante ci si creda
assolti. Alla stessa stregua di Sartre, vicino agli ideali comunisti e alle
lotte sessantottine, Gaccione, in primavera, evidentemente è angosciato dai
lillà, e vede una landa desolata, e odia come solo odia chi vuole un mondo
migliore e vede uomini e donne viziati che si lagnano e che non agiscono (echi
dunque della “vita activa” di Hannah Arendt). Questo perché nel fare arte non
c’è niente di ricreativo; è solo la disperazione di chi cerca di travalicare
l’ombra sotto cui il potere multiforme ha nascosto la verità. Così Gaccione: Non
si scrive per meritarsi qualcosa, ma per un atto di verità. Lapidario è
Gaccione, rispetto al potere, nel 2023: Ogni potere stupra.
Il testo di Gaccione si articola in
sezioni. Gli inediti per primi; seconda sezione è Spore (2020). Breve la
durata; intensa. Qui è Cioran nella sua indole più autodistruttiva. Un
antinatalismo che ricorda le opere grottesche e gotiche di Ligotti e, oltre
allo squartarsi di Cioran, un certo modo di – non filosofare ma parlare – “col
martello” di nicciana memoria: Poiché la vita procede a caso, non ti è stata
risparmiata la tua dose. Ce ne andremo tutti col rimpianto, di aver messo dei
figli sulla terra. Esercizio stimolante, nell’esegesi, rinvenire le fonti
nascoste, i predecessori e le influenze. Perché niente siamo senza le parole
che i nostri maestri ci hanno scritto addosso. C’è odore del Sartre più
depresso, del Camus uomo di teatro, di, appunto, Cioran.
Da Il calamaio di Richelieu,
datato 1989 (a sottolineare quanti anni copra questa autoantologia, questa
grande sintesi di un’idea, una sola – ed è tanto – maturata nei decenni) e da Il
lato estremo del 2016 le seguenti massime. Il 12 marzo 1990 Gaccione forse non sa
di stare già sintetizzando il suo pensiero quando scrive: L’arte nasce
sempre da una vita che non si appaga. È quella musica di cui parlavamo
prima. Troppi dardi, troppo avversa fortuna, e ci siamo chiusi in casa a
produrre mondi probabili, per sfuggire al possibile della storia e al dato
opaco di un presente che scade, che puzza, come latte lasciato mesi a
irrancidirsi. È nello schifo dell’esistenza che l’artista trova la via di fuga;
per questo l’artista è privilegiato: ché si fabbrica un antidoto. Per mio vizio di forma, e interesse
nello scovare i predecessori, trovo nel seguente aforisma: Il viaggio non è
arrivare in un luogo, ma incamminarsi tanto Cioran quanto Kafka. L’uno
diceva che, se la vita avesse un senso (leggasi “meta”), ci saremmo già
suicidati; l’altro, che non serve uscire dalla propria stanza per viaggiare. Ma
anche Céline, altro maestro del disaccordo che certo Gaccione ha reso parte di
sé, quando, nell’esergo del Voyage, dice: “Basta chiudere gli occhi. È
dall’altra parte della vita”.
Questo è il penultimo aforisma. Ci
troviamo nella filosofia teoretica, se vogliamo collocare le parole di Gaccione
in qualche solco. Ma l’autore sceglie di chiudere l’autoantologia con la
politica, con la resistenza all’oltraggio, all’invasione, al consumo. La
povertà è madre dell’ingiustizia e l’ingiustizia è padre dell’odio. Duchamp diceva, dopo che Mallarmé aveva
smembrato le pagine, talvolta svuotandole, che il contenuto di un’opera è ormai
chimera che sia originale, poiché tutto su tutto si è detto; c’è, pure, spazio
per l’artista, anche in tempo, oggi, di intelligenze artificiali. Non è più in
ciò che l’involucro contiene l’originalità – che è sempre, lacanianamente,
discorso dell’Altro – bensì nell’involucro stesso, nella forma, in quello che
il francese chiamava “progetto”. Trovo Schegge un progetto
commovente. Immaginiamoci un artista avviato negli anni, che guarda alla sua
gioventù, alle cartacce imbrattate che si è lasciato dietro durante il cammino,
e che con una nostalgia atroce e la morte nel cuore ravani, rilegga, rivada,
ricordi. È un’immagine commovente. La sua vita intera è impressa nelle parole
che ha scritto non ricorda più quando, in che circostanze, con che colori
attorno, con quali odori a propagarsi. Schegge di Angelo Gaccione è un
progetto di autobiografia, nel quale i fulminei lampi di lucidità, che l’hanno
indotto a eclissarsi, salvaguardandosi dal mondano della vita e del suo
gorgogliare incessante, parlano più di lui che dei concetti trattati, perché la
profondità straziata dei suoi aforismi è, a un lettore attento, una
cronistoria, un memoir. I ricordi della vita irrecuperabile sono incisi
nelle parole che, per eureka o rimuginio, abbiamo vomitato.
Giorgio Colombo. Occhiali
*Marco
Sbrana (26/03/2003) studia scrittura creativa presso la scuola Mohole.
Collabora con le riviste Evidenzialibri e Zona di Disagio. Ha scritto un romanzo
che parteciperà alla prossima edizione del premio Calvino; una raccolta di
racconti e una di poesie. La sua produzione narrativa è inedita; i suoi
articoli sono consultabili sulle riviste per cui lavora.