LA NOSTALGIA DI MASCHA KALÉKO
di Anna Rutigliano

Mascha Kaléko
Lo psichiatra e saggista italiano
Eugenio Borgna le avrebbe attribuito la definizione di “arcipelago di patrie”.
È proprio così. Se ci immergiamo nella produzione poetica della poetessa
galiziana, di origine ebrea, Mascha Kaléko, respiriamo istantaneamente, dai
testi, quel senso di perenne spaesamento che contraddistinse la sua vita. Da
Cracovia a Berlino, sino all’esilio negli Stati Uniti nel 1938, per poi
ritornare nel 1956 a Berlino, raggiungere Israele negli anni ’60 e concludere
la sua vita in terra svizzera, Mascha sperimentò sempre quel senso di
estraniamento rispetto al luogo in cui si recava, non certo per diletto ma per
sfuggire alla guerra, e al contempo, quel sentimento di attaccamento al luogo
che si lasciava alle spalle. Nel suo scritto Interview mit mir selbst (Intervista
con me stessa), appartenente alla sua prima raccolta di poesie del 1933, Das lyrische Stenogrammheft (Il Quaderno di stenoscritti poetici), così
tanto apprezzato dal premio Nobel della letteratura Hesse leggiamo: “Ich war
schon sechs, als ich noch immer dachte, dass wenn die Kriege aus sind, Frieden
sei”, ossia “avevo già sei anni quando ancora pensavo che a guerra finita ci
sarebbe stata la Pace”, la poetessa vive
da bambina, sulla propria pelle, un duplice disagio: quello della guerra e
quello della necessità di fuggire da quei luoghi tragici e trovare riparo altrove,
una condizione che si rispecchierà simmetricamente nella vita di migrante di
suo figlio Eviatar durante il loro esilio negli Stati Uniti. È in questo ciclo
emotivo fra il dolce, l’amaro ed il satirico, che si dipana il sentimento di “Heimweh”
della Kaléko. Letteralmente il dolore di
casa, la nostalgia della propria patria, esso si riferisce in particolare al
periodo in cui da Frankfurt am Main , Mascha si trasferisce nel 1918 a Berlino,
a guerra finita, con la sua famiglia; quel sentimento nostalgico di matrice
kantiana e successivamente studiato dalla psicanalisi freudiana che non sarà
altro che il recupero non tanto del luogo dell’infanzia quanto del tempo
irreversibile dell’amore materno, vissuto proprio durante l’infanzia, un tempo che
potrà rivivere soltanto attraverso la poesia, l’immaginazione, il sogno, come
si evince nella lirica: Gesucht ein
Irgendwo von dazumal (Si cerca un posto da qualche parte del tempo
che fu): “wie seltsam: der erste Tag,
und ich fühle mich selig zuhause!...
Vertraut ist mir die Landschaft längst, sah alles so oft schon im Traum” (“che strano- il primo giorno e mi sento beatamente a casa! Ormai il
paesaggio è familiare, l’ho visto tutto più volte già in sogno”).
![]() |
| Mascha Kaléko |
Il sentimento di Heimweh è anche il leitmotiv che sottende alla lirica Einmal mochte ich dort noch gehen… (Ancora
una volta vorrei recarmi…) di cui vi propongo la traduzione qui di seguito.
Essa è dedicata al primo ritorno della Kaléko a Berlino, nel 1956: emblematici non sono solo i luoghi berlinesi
menzionati nei versi ma anche i puntini sospensivi nel titolo della poesia, ad
indicare la speranza di un recupero del tempo infantile ormai perduto, così
come l’aggettivo “Heimlich”, il primo dei tre aggettivi in climax asindetico,
nel verso finale, in cui si materializza poeticamente l’intimità del calore
materno vissuto in patria berlinese (Heim/Casa-lich/suffisso per aggettivi o
avverbi), quella stessa città in cui, però, l’essere ebrea, avrebbe confinato
la nostra poetessa in terre straniere a causa del regime nazista; il tutto
rivisitato con gli occhi di una adulta ormai nostalgicamente spaesata e
disillusa.

Giorgio Colombo
Omaggio a Casorati
Una volta
ancora vorrei recarmi…

Omaggio a Casorati
